Egitto. La dichiarazione che divide il paese

Le strade del Cairo, di Alessandria e di tante altre città sono nuovamente piene di gente. Tra manifestanti che gridano le loro richieste, uomini che brandiscono bandiere e i più giovani che scandiscono slogan senza sosta. Sembra di rivedere le immagini del 25 gennaio 2011, l’alba di una nuova rivoluzione. Sembra, perché non è proprio così.

 

 

 

di Marco Di Donato

 

La prima differenza con il 25 gennaio 2011 è che allora il nemico era unico e riconoscibile: Hosni Mubarak.

La sua caduta era l’obiettivo ultimo di un’inarrestabile massa di persone che dopo diciotto giorni ottenne effettivamente il tanto agognato risultato. Ma oggi?

Oggi la situazione è radicalmente cambiata. Muhammad Morsi è un presidente democraticamente eletto, che ha ottenuto una maggioranza (seppur minima) che legittima il suo potere. 

Come presidente, Morsi deve però rispettare le regole democratiche e il suo 51% non lo autorizza certamente ad ignorare le istanze dei suoi oppositori o finanche le richieste di quanti lo votarono lo scorso giugno.

In quel 51% ci sono infatti i voti di moltissimi non islamisti che decisero di votare per Morsi, solo per non favorire il suo avversario, Ahmed Shafiq.

L’ultima mossa del presidente ha letteralmente spaccato il paese in due, anche se la frattura interna al mondo politico e sociale egiziano sembrava evidente già da diverso tempo.

Il 18 novembre, Ahmed Maher, rappresentante del movimento giovanile del ‘6 aprile’, si era ritirato dall’Assemblea costituente chiedendo che in 48 ore fossero accolte le sue richieste in merito ad alcune modifiche della sezione “Stato e Società” che si trova nella nuova Costituzione.

La sua fuoriuscita seguiva quelle del Free Egyptians Party, dell’Egyptian Social Democratic Party, del Tagammu Party e successivamente ancora del Karama Party, del Socialist Popular Alliance Party e del Democratic Front Party.

Allo stesso modo anche il leader del sindacato dei giornalisti Gamal Fahmy ha recentemente annunciato la volontà di abbandonare i lavori dell’Assemblea, così come il rappresentante del sindacato dei farmacisti Mohamed Abdel-Qader ed i vari rappresentanti copti.

Come il 25 gennaio 2011, il mondo dell’opposizione sembra unirsi e ritrovare vigore quando identifica un nemico comune, in questo caso il presidente Morsi.

Il nuovo National Front for Salvation of the Revolution, fondato da Muhamamd El Baradei, ‘Amr Moussa e Hamdeen Sabbahi sembra essere alla testa delle proteste, ma alcuni manifestanti non cessano di criticare questa ‘nuova e variopinta’ alleanza.

Nel mirino, la presenza di due uomini che sarebbero esponenti del vecchio regime: il già citato Amr Moussa (che all’epoca di Mubarak fu addiriittura ministro degli Esteri) e Sayed El-Badawi (leader del Wafd Party, uomo dal torbido passato che  pochi giorni prima del 25 gennaio 2011 affermava che “nessuno poteva mettere in discussione la legittimità del potere di Mubarak”).

Allo stesso modo moltissimi avversano la presenza nella coalizione del Free Egyptians Party, fondato dal miliardario Naguib Sawiris, personaggio storicamente vicino alla famiglia Mubarak ed in particolare amico di Gamal Mubarak.

Per quanto possa sembrare paradossale, il fronte che vuole ‘salvare la rivoluzione’ critica il presidente per le sue manovre autoritarie che ricordano il vecchio regime, ma poi accetta al suo interno la presenza di esponenti di quel mondo.

E se il fronte dell’opposizione appare tutt’altro che monolitico e compatto, si può dire altrettanto di qello dei giudici, ormai letteralmente spaccati tra chi ritiene accettabile il decreto di Morsi e chi invece lo giudica lesivo del principio di separazione dei poteri.

Fra i maggiori oppositori, spicca Ahmed al-Zend, capo del Judges Club, personaggio che nella sua storia ha largamente collaborato in maniera attiva con il regime di Mubarak.

Altri gruppi invece, come ad esempio i Judges for Egypt, hanno espresso parere positivo rispetto alle decisioni presidenziali.

Morsi sembra aver ricevuto anche l’appoggio della corrente politica salafita. Il portavoce del partito al-Nour, Nader Bakkar, ha difeso l’azione del presidente salutando con favore la rimozione del procuratore generale Abdel-Maguid Mahmoud.

Ed è proprio ancora Bakkar ad annunciare che di qui a pochissimi giorni la Fratellanza e i salafiti organizzeranno una grande manifestazione in supporto del governo, e proprio in Piazza Tahrir.

La posizione di Morsi è delicatissima e l’unica via di uscita sembra essere quella di chiudere al più presto i lavori di un’Assemblea costituente decimata – sono rimasti circa 60 componenti rispetto ai 100 originari ed ormai sono tutti in maggioranza islamisti – in modo da poter far decadere la validità del recente decreto e provare a riaprire il dialogo con l’opposizione.

E’ inoltre altamente probabile che il presidente proponga un referendum nazionale al fine di far approvare il draft costituzionale che dovrebbe essere pronto nel giro di pochissimi giorni se non ore.

Il rischio però che le proteste degenerino in violenze fra civili (in sostanza fra islamisti e non islamisti) rimane molto alto e nei giorni appena trascorsi, la morte e il ferimento di alcune persone ne è stata la drammatica dimostrazione.

Se molta parte della piazza che protesta contro Morsi percepisce la Fratellanza come parte del vecchio regime in ragione della sua storica politica di partecipazione sotto Mubarak, il rischio che corre il presidente è abbastanza chiaro: agire da dittatore senza considerare le richieste dei manifestanti, che iniziano a chiederne le dimissioni.

Tuttavia, per il mondo dell’opposizione le incognite sono forse ancor più insidiose.

Considerando come il decreto presidenziale vada a toccare anche, e soprattutto gli esponenti del vecchio regime, non è da escludere (ed in alcuni casi sta effettivamente avvenendo) che proprio questi ultimi cerchino di sfruttare l’onda lunga delle proteste per ripulire la propria immagine e conservare, o addirittura implementare, le proprie posizioni politiche e sociali.
 

 

November 29, 2012

 

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