Egitto: viva la rivoluzione!

A tre anni dal 25 gennaio 2011, gli egiziani festeggiano per il terzo anno di seguito la liberazione dalla dittatura di Mubarak. Domani sarà festa grande al Cairo come in tutte le altre città del paese.      

 

L’unico a non festeggiare è, ovviamente, l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak. Dopo un processo durato meno di due anni, Mubarak è stato condannato all’ergastolo e sconterà in prigione, insieme ai figli, il resto della sua vita.

Così come sono stati arrestati e già condannati anche alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Per tutti loro, il 25 gennaio 2014 non sarà una data da ricordare con piacere, e in particolare lo sa bene Ahmed Shafiq, che quasi aveva provato a riciclarsi alle elezioni prima di essere escluso per evidente incandidabilità.

Gli altri, invece, festeggiano.

Grandi manifestazioni di piazza sono attese a Tahrir, così come in tutti gli altri grandi centri cittadini: Alessandria, Luxor, Minya. La “Giornata dei martiri della rivoluzione” del 2014 avrà un sapore speciale in particoalre per i parenti di quanti sono stati uccisi nei primi mesi della sollevazione egiziana.

Il governatore del Cairo ha infatti informato la stampa che scuole e strade porteranno i nomi dei martiri: “Scuola elementare Khaled Said”, “via Gaber Salah”.

La memoria è un qualcosa di estremamente importante, da tramandare ai propri figli e nipoti in modo che la narrativa di questi tre anni sia rispettata, riesumata in maniera corretta. Non tutto è andato infatti sempre per il verso giusto o si è evoluto secondo linee naturali.

Lo SCAF ad esempio, subito dopo le dimissioni di Mubarak, tentò di siglare un accordo con i Fratelli Musulmani per riformare alcuni articoli della vecchia Costituzione e procedere a nuove elezioni. Ci furono ammiccamenti, accordi sotto banco, ma alla fine la parte più sana della Fratellanza decise di rifiutare qualsiasi forma di intesa con gli esponenti del vecchio regime decidendo che prima di tutto si sarebbe dovuto procedere alla formazione di un’Assemblea Costituente, che avrebbe creato una Costituzione condivisa da far poi approvare tramite referendum popolare.

Dopo varie tribolazioni, così accadde.

Per tramite di un processo condiviso, non senza difficoltà fra le diverse anime di un paese a volte drammaticamente distanti fra di loro, l’Egitto ha dunque avuto la sua nuova Costituzione, primo passo verso quella stabilizzazione interna necessaria per far ripartire la macchina economica e politica della nazione.

Con il PND (Partito Nazionale Democratico) messo fuori legge, incarcerati o esiliati i vari uomini di fiducia di Mubarak, il paese sta provando a tornare alla normalità. Le prime problematiche da affrontare sono ovviamente quelle economiche, legate al calo del mercato del turismo nel bienno 2011 e 2012, anni in cui l’Egitto ha vissuto il suo massimo sforzo rivoluzionario. 

Uno sforzo che però ha, infine, prodotto alcuni fomentatali risultati.

L’abolizione della possibilità di sottoporre a processo militare i civili, una sostanziale riforma delle forze di sicurezza e del sistema giudiziario, estromettendo le rimanenze dei feloul all’interno dell’apparato statale, la criminalizzazione degli atti di violenza contro le donne. 

Il paese ha vissuto momenti difficili, di scontro (fisico ed intellettuale) da cui inevitabilmente non è ancora del tutto uscito. Un grande malato sulla via della guarigione, ma che deve evitare pericolose ricadute. 

Tutti a Tahrir, dunque, tre anni dopo, raccolti in sit-in spontanei senza un’organizzazione che ne detti tempi e modi. Il nuovo governo ha persino deciso di non costruire nessun monumento commemorativo: è ancora troppo presto per cristallizzare la memoria in maniera definitiva.

Dalle pagine dei loro blog, gli attivisti egiziani lo ricordano ogni giorno: la rivoluzione non è ancora terminata. Ala’a Abd El Fattah, dopo anni di prigionia sotto Mubarak, lo scrive quotidianamente così come i vari esponenti del 6 Aprile (Ahmed Maher su tutti), tendono sempre a sottolineare la precarietà della situazione in cui si trovano. 

Del resto le pressioni esterne, primariamente quelle saudite per tramite della presenza salafita, non fanno mancare di sentirsi ed hanno tutto lo scopo di destabilizzare la situazione. Una parte del regime è ancora nascosta nei gangli dell’apparato produttivo (i militari all’epoca controllavano quasi il 40% dell’economia locale) così come nelle forze di polizia e, ovviamente, nell’esercito. Nel Sinai persistono problemi di sicurezza particolarmente gravi. 

Nonostante i problemi però, si procede verso il futuro. Elezioni legislative e presidenziali sono alla porta. Hamdeen Sabbahi proverà a vincere le presidenziali ma il candidato islamista (il partito dei Fratelli Musulmani ancora non ha espresso un nome preciso) sembra essere il favorito. El Baradei è invece l’outsider di un confronto che si preannuncia senza vincitori già scritti. 

Le università egiziane si sono trasformate da simbolo della protesta a nuovo fulcro per rilanciare il paese attraverso idee e progetti di rilancio. L’Egitto dovrà necessariamente fare affidamento sui suoi giovani per ripartire.

Gli studenti scenderanno in piazza anche loro al fianco di tutte le altre forze sociali per manifestare e partecipare a quello che in fondo altro non è che un giorno di festa. 

E del resto è normale festeggiare con orgoglio e partecipazione una giornata che sarebbe potuta essere ben diversa. Cosa sarebbe accaduto se esercito e Fratelli Musulmani avessero trovato un accordo, se i giovani rivoluzionari fossero stati esclusi, emarginati, se le rimanenze del vecchio regime avessero avuto la meglio ritornando con forme e facce diverse al potere? Nessun egiziano osa immaginarlo.

Nessuno oserebbe pensare di aver gettato al vento tre anni della propria vita per poi vedere a capo della nazione un militare o un esponente del vecchio regime di Mubarak.

Le conseguenze sarebbero state drammatiche: Bassem Youssef probabilmente costretto a chiudere il suo programma televisivo a causa della sua satira troppo pungente, Ala’a Abd El Fattah e moltissimi altri attivisti dietro le sbarre della prigione di Tora, gli studenti universitari starebbero ancora combattendo al Cairo come ad Alessandria e Minya ed Assiut e Beni Sueif.

La corruzione, da qualcuno definita come pervasiva ed invasiva, sarebbe ai suoi massimi storici e l’economia ancora in mano alla “produzione militare”. 

Gli egiziani sarebbero costretti a subire anche quella odiosa repressione (reale quanto virtuale) che invece hanno così duramente combattuto.

Ma fortunatamente per l’Egitto non è così. Ad oggi non sono più necessari i rapporti delle organizzazioni non governative come Amnesty International che anni fa denunciavano il clima di repressione e sistematica violenza nei confronti della popolazione, che sottolineavano la scarsissima libertà di espressione, che definivano il quadro dei diritti umani come “terribile”.

Per un poliziotto egiziano non è più possibile oggi abusare di un detenuto senza doverne rispondere dinanzi ad un tribunale e la parola “impunità” si sta progressivamente svuotando di ogni significato. La giustizia ha smesso di essere selettiva, parziale, corrotta. 

Non c’è motivo di non essere ottimisti: in fondo il futuro dell’Egitto, per quanto ancora in bilico, non potrà essere peggiore del suo passato. 

 

A tre anni dall’inizio del processo di transizione egiziano, abbiamo provato a presentarvi ciò che sarebbe potuto essere e che, per ora, non è stato, forzando la ricostruzione storica e raccontandovi un Egitto diverso, che trascende la realtà. Mentre scriviamo questo pezzo al Cairo esplodono autobombe contro le stazioni di polizia, a Beni Suef sono attaccati i posti di blocco delle forze di sicurezza ed assaltate le caserme in altre città. Ala’a Abd El Fattah è rinchiuso nella prigione di Tora con altri attivisti del 6 Aprile. I manifestanti pro-Morsi muoiono quasi quotidianamente per mano delle forze di sicurezza che stanno reprimendo nel sangue qualsiasi forma di protesta contraria al governo. Un governo in cui il generale al-Sisi è ormai leader incontrastato sempre più sicuro di conquistare a mani basse lo scranno presidenziale. Alla vigilia del 25 gennaio 2014, l’Egitto vive una delle sue pagine storiche più buie, difficili e, con tutta probabilità, più sanguinose.

January 24, 2014di: Marco Di DonatoEgitto,Articoli Correlati: 

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