Ninive: alla scoperta della bellezza

Foto di Chiara Moroni

Viaggio a Khinis, con un team di archeologi italiani, per continuare la scoperta dell’altro Iraq. 

 

 

 

Mi chiamo Ninive e voglio farmi conoscere…E’ solo l’inizio, ma ho più di 3mila anni di preziosi segreti da condividere”. Potesse parlare, la grande massa rocciosa di Khinis, nel distretto di Shekhan, circa 30 chilometri a sud di Dohuk, a 10 minuti da Lalish, accoglierebbe così i suoi visitatori. 

Perché è alla luce del sole, esposta al vento e alla pioggia, non si nasconde. Sta li’, ferma, aspetta che qualcuno venga a conoscerla. Ma non sono molti, e quei pochi talvolta,soprattutto d’estate, vengono a Khinis per farsi un bagno nel fiume, ignorandone il significato e la sua vera natura. 

Foto di Chiara Moroni

“Eppure, contrariamente ad altri siti, qui ci si trova in un’area protetta. C’è un guardiano, un ingresso chiaro, ma il resto è accessibile ovunque, purtroppo”, commenta Daniele, che sta contribuendo a dare voce al passato della Piana di Ninive, e che oggi fa da guida ad una ventina di persone. 

Tra questi, oltre al suo staff di ceramologci, archeologi e ricercatori, ci siamo anche noi di Osservatorio Iraq, insieme ad altri curiosi che hanno la fortuna di assistere a un atipico pomeriggio turistico nel Kurdistan iracheno.

Non si tratta dell’abituale weekend di shopping al Family Mall o a Dream City, o del classico pic-nic del venerdì ad Amedi  o alla diga di Dohuk. 

Il turismo che rendono possibile Daniele e il suo team ha a che fare con lo straordinario patrimonio storico e culturale che offre il nord dell’Iraq, e la Piana di Ninive nello specifico.  

“Sono terra inesploratra e corsi d’acqua. Sono in Iraq, nella regione autonoma del Kurdistan. E non sono sola”.

Ci troviamo in un’area che tra il VII e l’VIII secolo a.C. era la sede di Ninive, l’odierna Mosul, capitale dell’Impero assiro, all’epoca nella sua massima espansione in una macro area che andava dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo, fino all’attuale Egitto. Ce lo spiega Daniele che, posizionandosi di fronte a uno dei primi rilievi rupestri che ci mostrerà di Khinis, ricostruisce la storia e la simbologia di uno dei primi canali di pietra mai costruiti fino ad allora. “Una tecnologia d’avanguardia per quei tempi, considerato che i circa 240 chilometri che componevano la rete dell’acquedotto di Jerwan avevano la funzione principale di irrigare e rendere fertile tutta la piana”.

Il professore associato di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente all’Università di Udine guida dal 2012 un progetto archeologico che non ha precedenti nell’area. Un progetto tutto italiano, finanziato dalla Cooperazione Italiana (ministero degli Affari Esteri), dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, da Informest e da altri Enti e fondazioni private italiane. 

“Gli insediamenti assiri erano noti già da fine ‘800, ma ad eccezione di una breve missione di ricercatori dell’Università di Chicago negli anni ’30 del secolo scorso, non sono mai stati oggetto di studio di alcuna missione archeologica moderna”. 

“Questa è la prima volta che vengono esplorati, studiati e comparati”, sottolinea il professore. 

Il “Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive”, è un’ampia ricerca interdisciplinare condotta dalla “Missione Archeologica Italiana in Assiria” (MAIA) dell’Università degli Studi di Udine. Il progetto mira a studiare il paesaggio archeologico della regione di Dohuk e a documentare, tutelare e valorizzare lo straordinario patrimonio archeologico di questa regione posta nell’entroterra dell’antica capitale dell’impero assiro, Ninive (odierna Mosul).

Attraverso la ricognizione archeologica di superficie di una regione di 3mila chilometri quadrati di estensione e lo scavo del sito di Tell Gomel (il sito dell’antica Gaugamela,“dove Alessandro Magno sconfisse Dario III nel 331 a.C. e completò la conquista dell’impero persiano”), il progetto intende ricostruire la formazione ed evoluzione del paesaggio culturale e naturale di una regione cruciale dell’antica Mesopotamia fra preistoria ed età islamica.

“Questa regione”, ricorda Daniele, “fu uno dei principali teatri della “rivoluzione agricola”, che diede origine alla moderna economia produttiva e fu il centro politico e geografico dell’Assiria, il primo impero globale della storia”.

Il suo studio ha ricadute non solo in ambito strettamente archeologico, ma è anche di assoluto rilievo per l’indagine dei grandi processi culturali che hanno caratterizzato la vita della popolazione di quell’epoca, e quanto di quella vita c’è ancora oggi.

“Scavando lungo i canali, ad esempio, e studiando la piovosità e la fertilità della terra, è possbile risalire all’impatto che quest’opera tecnologica ha avuto sulla produttività agricola dell’area, dove tipicamente le coltivazioni sono di tipo ‘seccagno’”, ovvero dipendenti dalle precipitazioni. 

Foto di Chiara Moroni

La precisione, la chiarezza espositiva del professore, lasciano immaginare ricche vegetazioni, contadini che mietono il grano, carri trainati da buoi, ma anche soldati che vigilano, leoni pronti ad attaccare e un re potente, Sennacherib, che ha lasciato tante tracce di sé.

I rilievi assiri di Khinis, collegati anche a quelli di Maltai, all’interno dell’area urbana di Dohuk, fanno parte infatti di raffigurazioni celebrative dell’impresa tecnologica e della benevolenza del re. “E’ grazie a Sennacherib, che si fa rappresentare come un tramite tra le divinità assire e l’umanità, che tutto questo è stato possibile”, parafrasa Daniele nello spiegare un altro rilievo, che resiste ancora oggi a millenni di piogge, vento, guerre e altri insediamenti umani.

Visibili infatti sono nicchie e piccole caverne funebri di epoche successive, a conferma del progresso delle società umane che si sono succedute, a partire dalle piccole comunità di cacciatori e raccoglitori preistorici fino alla formazione dei grandi centri urbani, degli stati territoriali e degli Imperi nelle età del Bronzo e del Ferro.

Foto di Chiara Moroni

MAIA è questo, e molto altro. Il suo secondo obiettivo consiste nella documentazione, conservazione e gestione degli straordinari monumenti archeologici presenti nella regione di Dohuk.

Recentemente, la donazione del primo laboratorio di conservazione e restauro da parte del progetto, ha fatto del Museo Archeologico di Dohuk una delle strutture più avanzate nel Kurdistan iracheno. La stretta cooperazione con le autorità locali (Direzione Generale delle Antichità del Kurdistan, Direzione delle Antichità di Dohuk, Governatorato di Dohuk), “è parte fondamentale del lavoro e contribuisce in maniera determinante alla tutela e promozione dello straordinario patrimonio culturale della regione”, afferma Daniele. 

“L’attività più importante è stata documentare ciò che sono e ciò che ho”.

Grazie al lavoro dei professionisti italiani, l’imponente sistema irriguo costruito fra VIII e VII sec. a.C. dal re assiro Sennacherib, con i suoi monumentali rilievi rupestri, canali e i primi acquedotti in pietra della storia è stato documentato in maniera digitale e tridimensionale ed è in corso di valorizzazione.

Ma lo sguardo è rivolto molto più in là, alle prossime generazioni, a chi potrà riprodurre e diffondere la conoscenza di questi luoghi. 

“Riuscire a lavorare in collaborazione con le scuole e l’università sarebbe un grandissimo risultato, perché permetterebbe di rendere accessibile e fruibile questo patrimonio, altrimenti utile soltanto ad una ristretta cerchia di esperti del settore”, ammonisce Daniele. Nel frattempo, l’acquedotto di Jerwan, di cui Khinis fa parte, è stato già inserito nella lista del World Monuments Fund , fondazione privata che “sostiene quest’importante lavoro in termini di visibilità e sensibilizzazione”.

Foto di Chiara Moroni

Inoltre, con la Direzione delle Antichità di Dohuk si sta lavorando già all’inserimento del vasto complesso archeologico nella “World Heritage Tentative List” dell’UNESCO.

Il territorio coperto dal progetto è di circa 3mila chilometri quadrati, ma una parte significativa, occupata dal pedemonte degli Zagros (1230 km2, il 42% della superficie totale dell’area concessa alla missione), zona di indubbia importanza archeologica, è solo parzialmente accessibile a causa della visibilità archeologica limitata e della presenza di numerosi campi minati ancora non bonificati. 

“Sono ancora in buono stato di conservazione, ma a rischio di distruzione e abbandono. Vivo in un paese in guerra”.

I campi minati, frutto del passato conflitto tra l’esercito baathista iracheno e i peshmerga curdi, sono solo una delle drammatiche conseguenze attraverso cui la guerra, negli anni e attraverso le sue varie forme, influisce sulla straordinaria bellezza di questa storia. 

“Il conflitto in corso tra Daesh e i peshmerga ci limita negli spostamenti, ed è sotto gli occhi di tutti l’atteggiamento che l’autoproclamato Stato Islamico ha nei confronti del patrimonio storico e culturale di Iraq e Siria”, dice Daniele.

Proprio la Siria è stata fino al 2011 “una seconda casa” per lui e il suo gruppo di lavoro, che tra gli altri siti ha operato anche a Palmira, divenuta nota negli ultimi mesi per le immagini di distruzione diffuse da Daesh. 

La fine dell’esperienza siriana coincide con un altro dramma, quello composto da dimostrazioni popolari contro il regime di Bashar al-Asad, in seguito degenerate in repressione e caos che ancora oggi dominano oltre il confine orientale dell’Iraq. “Ad agosto credevamo ancora in una possibile apertura da parte del regime, ma purtroppo ci siamo dovuti ricredere”, ricorda il professore. Che, tuttavia, non individua soltanto nella guerra e nella politica i problemi per la conservazione del patrimonio culturale. 

“Vandalismo, noncuranza e ignoranza sono al tempo stesso seri problemi che danneggiano, a volte in modo irreversibile, i monumenti e i rilievi”. A Khinis questo è evidente, davanti ai nostri occhi: scolpito su una parte del muro del canale, la cui estensione si immerge nel fiume, un lamassu (tipica rappresentazione del toro assiro) deve fare i conti con una scritta vandalica. “Ma in altri casi si tratta di colpi di proiettili, sparati per divertimento o perché il monumento è stato usato come rudimentale poligono di tiro”, conclude Daniele. 

Foto di Chiara Moroni

“Ora posso mettere a frutto quello che so di me, per essere avanguardia di pace”. 

Conclude così anche “Il Diario del Futuro”, brochure realizzata dalla Cooperazione allo Sviluppo, che sintetizza con efficacia l’immenso lavoro del team italiano. Un lavoro di pace, di bellezza, che aspetta solo di essere scoperto, capito. E diffuso.

 

*La foto pubblicata è di Chiara Moroni, che ringraziamo per la gentile concessione. Un ringraziamento particolare va anche e soprattutto a Daniele Morandi Bonacossi e Alberto Savioli. 

 

September 20, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno Allegati: Diario del futuro_Ninive.pdfIraq,

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