A venti chilometri da Khinis, nel distretto di Shekhan (Provincia di Ninive) si trovano i resti dell’acquedotto più antico al mondo. Lo scopriamo insieme al team italiano del The Land Of Niniveh Archeological Project.
Un’inclinazione di 1 millimetro per ogni metro, circa 240 chilometri di canali, 400mila blocchi di pietra: questi dati da soli dovrebbero esprimere la grandezza dell’opera che il professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente all’Università di Udine, Daniele Morandi Bonacossi, mostra al suo team di archeologi e ad Osservatorio Iraq.
Come avevamo raccontato, il progetto italiano va avanti nel nord dell’Iraq dal 2012 con l’obiettivo di rilevare, valorizzare e tutelare il patrimonio archeologico dell’antico impero assiro. Dopo aver visitato i rilievi di Khinis questa è la volta di Jerwan, 20 chilometri più ad est, dove si trovano i resti dell’acquedotto in pietra più antico al mondo.
“E se non rappresenta il più antico in assoluto, sarà stato sicuramente uno dei primi costruiti”, afferma Daniele, ricordando che nella zona di lavoro del progetto sono stati rilevati i resti di altre 5 opere simili.
Dalla strada che porta verso il distretto di Akre la percezione del canale è pressoché impossibile. Anche le indicazioni stradali non aiutano, e ricordano quanto sia poco nota o assenza la conoscenza locale del passato di questa terra.
Oggi, grazie agli scavi effettuati dall’Università di Chicago degli anni ’30, che hanno fatto emergere il grosso delle pietre dell’acquedotto, è possibile ammirare le scritture cuneiformi con cui il re Sennacherib celebrava “l’opera che portava l’acqua direttamente alla capitale assira, Ninive”.
E’ possibile anche notare quanta noncuranza ci sia intorno oggi (dai rifiuti alle scritte vandaliche, incise nella pietra o con spray), ma anche errori del passato.
“Una parte dell’acquedotto fu ricostruita in seguito a un danno occorso ad un lato, e per ripararlo furono usate pietre prese probabilmente da un altra costruzione e installate al contrario (foto n.13, ndr)”. Si possono però ammirare anche le scritte interne al canale, “che poteva vedere solo Dio (foto n.11, ndr)”, e anche le pecore pascolare su un campo che fino a 4 anni fa era ancora minato (foto n.16, ndr).
A testimonianza della difficile realtà del territorio, oltre le mine c’è anche la casa del guardiano, oggi occupata da una famiglia di shabak sfollata da Mosul.