Con il loro nuovo lavoro, uscito il 15 maggio, il collettivo di musica elettronica sperimentale ci porta a Iqrit, villaggio simbolo di resistenza e della speranza palestinese che non muore.
Ci sono molti modi per parlare della Palestina e dell’Occupazione. I Checkpoint 303 hanno trovato il loro, fatto di suoni, beat e campionamenti, “paesaggi sonori” elettronici che traducono in musica le storie di umana sofferenza e di speranza calpestata, che ci raccontano dell’ingiustizia quotidiana che un intero popolo è costretto a subire nell’indifferenza internazionale, in bilico fra quotidiano e memoria fatta anche di macerie rimaste miracolosamente in piedi, di canzoni e frammenti di immagini, e di storie e poesie che devono essere necessariamente tramandate.
Il 15 maggio 2015, giorno dell’anniversario della Nakba, è – non a caso – uscito il loro nuovo album intitolato “The Iqrit FIles”. Abbiamo intervistato l’anima di questo collettivo musicale, il sound-cutter tunisino MoCha, che da oltre 10 anni raccoglie intorno a sé collaboratori da tutto il mondo, principalmente dalla Palestina, tra “cacciatori di suoni”, artisti e musicisti, poeti, fotografi, dj e attivisti. Con lui, abbiamo parlato del progetto e di questo loro ultimo, interessante lavoro.
Perché, tra tutti i villaggi e le storie sulla Palestina occupata, stavolta avete scelto proprio Iqrit?
La storia di Iqrit è rappresentativa della storia di oltre 400 villaggi palestinesi, e dei loro abitanti cacciati via brutalmente e illegalmente dalle forze israeliane. E’ un simbolo della lotta legittima dei palestinesi per il diritto al ritorno nelle loro case e alle loro terre.
Iqrit si trova nel nord della Galilea, non lontano dai confini con il Libano, e i suoi abitanti sono stati sfrattati in seguito alla dichiarazione dello stato di Israele nel 1948, e da allora non vi hanno mai più potuto metter piede. Nel mese di luglio 1951 gli abitanti decidono di portare il loro caso davanti alla Corte Suprema di Israele, che si pronuncia in loro favore. Dopo questa sentenza, però, il governo militare trova una giustificazione per impedire loro di tornare. Gli abitanti del villaggio decidono di far ricorso in appello e la Corte mette in programma di esaminare il caso per il 6 febbraio 1952.
Peccato che, il giorno di Natale del 1951, le Forze di Difesa israeliane distruggeranno il villaggio.
Gli unici edifici che rimangono oggi sono una chiesa e un cimitero. I discendenti di Iqrit non sono autorizzati a farvi ritorno, ma possono seppellire i loro morti nel cimitero: in altre parole, solo i morti sono autorizzati ad entrare nel villaggio.
Il disco è composto da 13 tracce, dal “benvenuto” al “ritorno”. C’è un percorso concettuale?
Non sono sicuro ci sia un vero e proprio ordine. L’ispirazione in generale ci è venuta, in primo luogo, dalla rappresentatività della tragedia, che cattura alla radice la situazione del popolo palestinese; in secondo luogo, dalla resistenza e dalla speranza persistente dei suoi ex abitanti e dei loro discendenti; in terzo luogo, dal potere e dalla bellezza delle poesie e dei lamenti dei cantanti e poeti di Iqrit, che incarnano una trasmissione orale della storia.
L’apertura è un invito a entrare a Iqrit e nell’album, mentre la traccia finale è ancora un invito a visitarla quando sarà popolata di nuovo: queste sono proprio le ultime parole in arabo che sentiamo sul CD, ovvero la registrazione di un parlato di Walaa Sbeit, uno dei giovani attivisti che lottano per il diritto al ritorno e che hanno occupato per diversi mesi la chiesa come modo di riappropriarsi del villaggio.
A proposito di poesie e canzoni, voi siete conosciuti soprattutto per i vostri “paesaggi sonori” che abbracciano la Palestina e il Medio Oriente, mentre in questo album le parole entrano in modo deciso nella cornice, grazie alla presenza di alcuni “ospiti speciali”, le cantanti Jawaher Shofani e Wardeh Sbeit, e il poeta Jihad Sbeit. Come vi siete trovati?
Erik Hillestad e la sua crew dal KKV in Norvegia sono andati a Iqrit e, in collaborazione con la cantante e compositrice palestinese Rim Banna, hanno trovato i musicisti anziani del luogo e li hanno ripresi mentre cantavano proprio in mezzo alle rovine del villaggio demolito.
In realtà Jawaher Shofani, Wardeh Sbeit e Jihad Sbeit sono molto più che “ospiti speciali”: rappresentano la materia prima che sta nel cuore dell’album. Le loro voci sono state il punto di partenza di tutto il processo musicale.
Come tu stessa hai ricordato, i Checkpoint 303 di solito lavorano con le registrazioni raccolte sul campo, nella Palestina occupata (e negli ultimi progetti anche con files registrati per le strade in Tunisia, Egitto, Siria, Libano, ecc.); molto raramente abbiamo incluso il canto effettivo nei nostri paesaggi sonori. Perciò questo è stato sia una nuova ispirazione sia una nuova sfida. Abbiamo cercato di lavorare con la voce in modo che rimanesse nello spirito del nostro sound art e delle nostre sperimentazioni.
L’obiettivo era quello di registrare le voci di questi cantanti/poeti e poi elaborarle e remixarle con registrazioni raccolte sul luogo, a Iqrit, insieme a beats e campioni audio di archivio. Il nostro è un lavoro di squadra: Erik Hillestad e Rim Banna hanno fatto il fantastico lavoro di trovare i cantanti mentre la supervisione delle registrazioni in Iqrit sono state fatti dal tecnico del suono Martin Abrahamsen. Le sessioni in Iqrit sono state infine documentati dai video e dalle fotografie di Stig Indrebø e Berit Hunnestad.
La data della pubblicazione dell’album è simbolica. In un recente articolo pubblicato su Osservatorio Iraq riportiamo una frase pronunciata spesso dai palestinesi per quanto riguarda la Nakba: “Non è la commemorazione di un evento storico, né un momento del nostro passato, ma il nostro presente”. Cosa ne pensi?
Bella domanda. Ce lo chiedono spesso, anche in relazione al fatto che siamo musicisti e al tipo di composizioni – up-beat breakbeat o drum’n’bass – che facciamo. La domanda è: è possibile ballare al suono di una tragedia e di un’ingiustizia corso?
E’ possibile? Uno spettacolo può essere una forma di “celebrazione” dell’evento?
La questione dovrebbe essere risolta da ciascuno di noi individualmente. Alcune persone ascoltano la musica dei Checkpoint 303 e scelgono di non ballare per rispetto nei confronti del messaggio che porta, altri invece scelgono di farlo come un modo per esprimere solidarietà.
Noi non celebriamo la Nakba in quanto tale, semmai celebriamo la resistenza e la continua lotta e sollevazione del popolo palestinese di fronte all’ingiustizia.
In questo modo, cerchiamo di rafforzare anche la memoria. Quindi, chiaramente, noi non celebriamo la catastrofe (= Nakba), essa viene commemorata. Ciò che si sta celebrando è la resistenza e la speranza di giustizia e di libertà.
Esiste una speranza, nonostante tutto? Voi, con la vostra arte, esplorate anche questi aspetti opposti e apparentemente inconciliabili.
Sento che la speranza è presente, anche se la situazione è soffocante a dir poco. Certo, dire che c’è una forte speranza e ottimismo per il futuro sarebbe chiaramente un’esagerazione. E’ molto difficile, a volte, trovare la forza della speranza quando si vive sotto l’occupazione e quando si subiscono umiliazioni ogni giorno ai posti di blocco. Peggio ancora, quando vieni bombardato dagli aerei da guerra israeliani.
La popolazione di Gaza in particolare vive/sopravvive in condizioni disumane. L’assenza di azioni (che non siano vuote parole) della comunità internazionale si aggiunge alla sofferenza del popolo palestinese.
Eppure, nonostante tutto questo, la convinzione che questa ingiustizia non possa andare avanti per sempre nutre la speranza in alcuni palestinesi. Questa è la speranza che ha bisogno di essere incoraggiata e celebrata.
Come musicisti e artisti, quello che possiamo fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale, e celebrare la semplice esistenza dei palestinesi come un atto di resistenza. Possiamo cercare di amplificare la voce dei senza voce. Mostrare al mondo l’ingiustizia storica e continua subita dai palestinesi ed esporre i crimini di Israele contro l’umanità e il loro terrorismo di stato.
Ma questo deve essere fatto anche segnalando gli atti positivi di resistenza dei palestinesi, e ciò include le manifestazioni pacifiche settimanali, le opere d’arte, il cinema palestinese, i risultati accademici. E il semplice fatto di respirare e non smettere di sperare.
C’è però un grosso problema di narrazione e informazione…
Certo, personalmente ritengo che ci sarebbe più speranza se la gente di tutto il mondo scoprisse la verità della situazione, passata e presente, in Palestina. I media mainstream rimangono per la maggioranza di parte, e la macchina della propaganda internazionale dal lato israeliano sta facendo un buon lavoro nel fornire al mondo una falsa prospettiva.
Semplici fatti storici semplici restano in gran parte sconosciuti. Nella pista 10 del nostro nuovo CD (I climbed the top of the mountain, Ho scalato la cima della montagna), abbiamo utilizzato un campione di Bob Marley tratto da un’intervista con Gil Noble nel 1980. Gli viene chiesto un messaggio da parte dei giovani. La risposta di Bob Marley è che “la reale questione sta sempre nella ricerca della verità”.
Se la gente di tutto il mondo cercasse la verità, o trovando le informazioni da sé o, meglio ancora, visitando la Palestina e incontrando i palestinesi, allora ci sarà davvero più speranza nel futuro.
Il cambiamento potrebbe dunque venire dalla pressione che cittadini informati di tutto il mondo possono esercitare sui loro leader, unendo a questo i movimenti di boicottaggio e le sanzioni. Che è quello che è successo nel Sudafrica dell’apartheid.
Serve una buona dose di iniziativa da parte di ognuno di noi, e di voglia di comprendere. Non è facile, vero?
Spesso le persone dicono che il conflitto israelo-palestinese è troppo complesso e che hanno bisogno di sentire la storia da entrambi i lati. Ma io generalmente dico loro che la storia non è complicata: c’è uno stato che occupa illegalmente la terra palestinese.
Si dispone di un occupante e un occupato, un oppressore e un oppresso. Non è un conflitto (un conflitto è quello che si può avere con il proprio partner quando non si è d’accordo!), Ma ciò che sta accadendo in Palestina è una occupazione illegale, che sta negando ai palestinesi i loro diritti umani fondamentali, compreso quello di autodeterminazione. Non è una situazione complessa.
Vi siete formati nel 2004. Qual’era il vostro obiettivo, e come mai questo nome?
Il nome deriva da un posto di blocco militare che separa Betlemme da Gerusalemme, conosciuto come Checkpoint 300. Il nostro scopo, dando vita al progetto, era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale circa l’ingiustizia subita dai palestinese e sull’emergenza di aiutarli a raggiungere la libertà. L’idea era di farlo attraverso la musica elettronica e sperimentale e sulla base di registrazioni sul campo e campioni audio presi sul campo, dai loro contesti di vita quotidiana.
Come funziona il vostro processo creativo?
Il progetto Checkpoint 303 è guidato da me, SC Mocha, che sono appunto il “sound cutter”, e mi avvalgo della collaborazione di artisti e attivisti internazionali provenienti da numerosi paesi, in particolare dalla Palestina.
Dopo la raccolta dei suoni sul campo, che possono essere rumori di proteste o semplici registrazioni dal contesto di ogni giorno, da un ingorgo di traffico ai bambini che giocano, fino agli estratti da TV o radio etc, effettuiamo una scelta, tagliamo le registrazioni e le trasformiamo in campioni che usiamo come blocchi per la costruzione nei nostri paesaggi sonori, a seconda dell’idea che portiamo avanti.
Il disco “The Iqrit files”, ad esempio, oltre che dai già citati “cacciatori di suoni” e dai cantanti tradizionali, vede la partecipazione di Miss K Sushi alle tastiere e piano elettrico, e di MonaLisa alle voci. La programmazione e taglio dei suoni – più le parti di oud – sono invece curate da me.
E per quanto riguarda i live?
Si tratta per la maggior parte di concerti audiovisivi dove le folle danzano ad un mix di elettronica, breakbeat, in cui spesso è presente l’oud – il liuto mediorientale – e il VJ’ing. Ma ci stiamo anche muovendo verso performance multimediali e installazioni artistiche.
In tutto questo tempo è cambiato qualcosa per voi, anche a livello artistico?
Alcune cose sì. Ma lo spirito delle nostre composizioni non è cambiato. I nostri paesaggi sonori sono visti come “arte di protesta” e spesso ci esibiamo in occasione di eventi organizzati da attivisti di tutto il mondo.
Il nostro messaggio per la giustizia, la libertà e i diritti civili continua, purtroppo, ad essere fortemente necessario, e non solo in Palestina. Così, nel corso degli anni, le nostre composizioni hanno esplorato la resistenza sonora e la sollevazione della piazza araba nella sua attuale lotta per la dignità, per la libertà e per la fine dei regimi totalitari.
Nel 2012, ad esempio, abbiamo pubblicato un EP con brani basati su suoni provenienti dalle strade bollenti di Tunisi, del Cairo e di Hama (Siria). Abbiamo poi utilizzato suoni dalle proteste in Turchia, in Brasile e in altri luoghi del mondo dove la società civile si sta sollevando a lottare per i propri diritti. Detto questo, non ci manca il materiale nuovo basato su files raccolti sempre in Palestina.
In tutti i casi, si tratta di battersi per i diritti umani fondamentali e per la dignità umana in tutto il mondo. Come disse una volta Martin Luther King: “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque “. Per questo dovremmo essere tutti preoccupati di ciò che sta accadendo in Palestina.
Il video sotto s’intitola “Return to Iqrit”, ed è l’ultimo brano del disco The Iqrit files.
Le immagini in questa pagina sono tratte dal booklet del cd “The Iqrit files”. Si ringrazia i Checkpoint 303 per la gentile concessione.
Per vedere il video “In 1948”, con la partecipazione della cantante tradizionale Jawaher Shofani, clicca qui.
Sito ufficiale dei Checkpoint 303: www.checkpoint303.com
June 07, 2015di: Anna ToroPalestina,Video: