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25 aprile: un nuovo patto di solidarietà necessario

La vera risposta all’instabilità libica, alla mafia dei barconi, alla crisi economica e alla ricerca di una vita migliore per siriani o subsahariani è che l’Italia scriva un nuovo patto di solidarietà. Dimostrando di conoscere la sua storia, fatta di migranti e viaggiatori. Festeggiare il 25 aprile oggi è l’orgoglio di essere figli di emigrati, cittadini di un paese che le contaminazioni hanno reso più ricco.

 

Settant’anni fa, l’Italia si liberava del giogo nazifascista dopo un’acerrima resistenza da parte delle forze partigiane e l’intervento delle forze alleate.

Fu la più grande prova di maturità civile e democratica del popolo italiano nella storia contemporanea. Usciva sconfitto un regime che aveva sposato ideologie di primato razziale. Il 5 agosto del 1938 compare nelle edicole e nelle librerie il primo numero del giornale La difesa della Razza, diretto da Telesio Interlandi. Interlandi era un giornalista e uno scrittore sulla cresta dell’onda che già dirigeva, su richiesta di Mussolini, il quotidiano Il Tevere.

La copertina del giornale mostra la testa fina ed elegante di una scultura maschile greco-romana finalmente separata, con una spada, dalla testa di una scultura di una civiltà mediorientale e da quella di un africano nero. Il 15 luglio 1938, il Giornale d’Italia pubblica un manifesto della razza redatto da alcuni “scienziati” italiani, nel quale si legge: “È necessario fare una netta distinzione tra i mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte e gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche, stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili”.

Lo stesso manifesto, richiamando alla necessità che gli italiani si proclamino francamente razzisti, addita agli italiani “un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per, i suoi caratteri puramente europei, si stacca completamente da tutte le razze extra europee” aggiungendo che “questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità”.

Queste idee non sono morte e giacciono latenti nella narrativa razzista di numerose formazioni politiche italiane. La coscienza civica italiana si costruisce su una distinzione identitaria; senza discriminazione identitaria, pare non essere possibile costruire un paese maturo.

Queste idee devono essere combattute perché sono state parte integrante dell’ossatura ideologica che ha legittimato la dittatura fascista. Non combatterle significa volenti o nolenti rilegittimare il Fascismo quale modello di organizzazione della società.

Sottovalutarle significa piegarsi a chi vorrà contrarre diritti universali e ridurre gli spazi di critica e dissenso. E il modo più semplice per farlo è attaccarsi ai più deboli, attualmente gli immigrati, la cui presenza tra noi metterebbe secondo alcuni a repentaglio il livello di benessere materiale acquisito.

Qualche anno fa, mio cugino mi fece ascoltare una app per cellulare in dialetto veneto ricevuta da un collega, la quale spiegava con toni coloriti come “copare” marocchini e polacchi facendoli a pezzi (ma il sistema “funziona” anche con gli ebrei, terminava la app). Sorridevo a denti stretti.

Oggi, celebrerò il 25 aprile qui a Sarajevo. Una delle più ripugnanti storie dell’assedio serbo alla città che ho ascoltato è stata quella di una madre che è stata costretta a mettere il suo bambino di tre mesi di età nel forno della cucina di casa, ad accenderlo ed aspettare fino a quando il neonato fosse cotto come un maialino. Le parole sono pesanti come le pietre, e la forza del male che si cela dentro ha solo bisogno che la stupidità umana si materializzi per scatenarsi.

Non dobbiamo sottovalutare la forza dirompente del razzismo, la sua capacità di addomesticare l’indifferenza e piegarla verso la complicità, confusa dalla rimozione della memoria.

Una memoria che ha dimenticato il sacrificio dei partigiani non italiani. È il caso ad esempio di Carlo Abbamagal, che militava nella brigata “Mario”, una brigata internazionale che includeva inglesi, francesi, polacchi, russi e africani e che operava nel Marchigiano.

Come furono catapultati in Italia, i nostri partigiani neri?

Erano arrivati a Napoli come figuranti della Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare nel 1940, ma chiusa l’esposizione per l’entrata in guerra dell’Italia, si pose il problema di dove mettere questi figuranti neri. Vennero trasferiti a Macerata, e da lì due di loro, etiopi, si diedero alla macchia, per ritornare poi come combattenti contro il regime mussoliniano e liberare altri africani rinchiusi nella base di Villa Spada, che avrebbero, anch’essi, raggiunto le bande partigiane.

Un’altra di queste bande, la “Nicolò”, trovò rifugio nei pressi del monastero dei Fraticelli Clareni, nella gola del Fiastrone, insieme a molti evasi dai campi di prigionia e renitenti alla leva durante il Fascismo. Pensate: stranieri, neri e antifascisti! Uno schiaffo ai politici razzisti contemporanei e ai benpensanti nell’era di Triton.

L’idea stessa di Europa è messa in crisi dall’interpretazione delle migrazioni come fenomeno da combattere con l’ordine e la sicurezza.

Scrivevano Altiero Spinelli e gli altri autori del Manifesto per un’Europa libera e unita, nei primi anni ’40: “Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza, e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l’assurdità, si esige dai fisiologi di credere, dimostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l’odio e l’orgoglio. […] A causa dell’interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna è tutto il globo; ma si è creata la pseudo-scienza della geopolitica, che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dar veste teorica alla volontà di sopraffazione dell’imperialismo”.

Oggi, l’Europa ha bisogno degli immigrati per difendere l’idea originale di integrazione per condividere un futuro di libertà e solidarietà. Chiudendo le sue frontiere e confondendo mezzi con fini (si vogliono distruggere i barconi senza voler legalizzare i flussi migratori), l’Europa uccide il sogno stesso che ha portato le sue nazioni a superare le divisioni e ad abbattere le frontiere.

Abbiamo bisogno degli immigrati per dimostrare che il sogno europeo è capace di vincere paure ed egoismi, che siamo tutti pronti ad un patto di solidarietà come quello sottoscritto, dopo la caduta della Repubblica democratica tedesca, da un popolo tedesco che era stato diviso dal Dopoguerra.

E l’Italia, questo patto di solidarietà, deve proporlo, esigerlo e costruirlo, se vuole dimostrare di conoscere la sua storia, fatta di migranti e viaggiatori, e di ambire a guidare una ritrovata centralità politica, economica e culturale mediterranea, da cui il nostro paese non potrà che trarre motivi di riscatto dalla crisi attuale.

È questa la vera risposta da dare all’instabilità libica, alla mafia dei barconi, alla crisi economica e alla ricerca di una vita migliore da parte di siriani, nigeriani o subsahariani. Come gli italiani cercarono fortuna in altri continenti partendo alla ricerca di un lavoro, così dobbiamo noi non solo offrire corridoi sicuri per chi fugge dal proprio paese per ragioni politiche, ma anche opportunità di sperimentarsi nel mondo del lavoro e dell’impresa. 

Il ministero del Lavoro, analizzando le tendenze dell’anno scorso, spiega: “Nella fattispecie della componente straniera, si rivela una più efficace capacità di sfruttare i lievi segnali positivi registrati dagli indicatori standard, soprattutto se posta a confronto con la componente nativa. Ancora una volta è l’occupazione straniera a sostenere il mercato del lavoro italiano. […]Tra le professionalità per la quali si osservano maggiori frequenze del numero di attivazioni che hanno interessato lavoratori stranieri, si rilevano, nell’ordine, Camerieri e professioni assimilate, Addetti all’assistenza personale, Collaboratori domestici e professioni assimilate, Personale non qualificato nei servizi di ristorazione” .

Sono queste le mansioni che gli stranieri “ruberebbero” agli Italiani? In Italia, ci sono sette milioni di case vuote. Ammettendo pure che la metà siano seconde case, non possiamo certo neppure dare credito a chi dice che gli stranieri occupino le nostre case.

Quanto ai costi per la sanità degli stranieri, ecco i dati: gli stranieri regolari e irregolari incidono per un 3% sui costi dell’assistenza sanitaria nazionale, e hanno un livello di ospedalizzazione decisamente inferiore a quelli degli Italiani.

Gli immigrati, dunque, non costituiscono neppure un problema per la sanità italiana, sia per le dimensioni, in quanto consumano una percentuale infima delle risorse, sia per la gravità, in quanto si tratta di popolazione giovane e quindi con bisogni contenuti.

Allora cosa resta? Il razzismo, quella bestia del razzismo che alimentata da appetiti politici e cattiva informazione scardina giorno dopo giorno i fondamenti di una società aperta, inclusiva e democratica, e prepara le condizioni per politiche illiberali e discriminatorie.

Lo scrittore tedesco di origine iraniana Navid Kermani dice: “La ragione principale del numero crescente di profughi è il disfacimento degli ordinamenti statali dei paesi nordafricani e mediorientali. L’Europa non ha fatto nulla per fermare questo declino, anzi l’ha facilitato, quando durante decenni e ancora mentre le stesse ribellioni arabe erano in corso ha sostenuto tiranni senza scrupoli. La parola “Processo mediterraneo” […] ha concretamente significato cooperazione rafforzata con quei dittatori per proteggere l’Europa da profughi e terroristi“.

Non possiamo capire il fenomeno dei profughi senza analizzare la decomposizione degli Stati del pourtour mediterraneo a causa dei violenti regimi precedenti, che hanno lasciato in eredità società svuotate dei suoi corpi intermedi, l’erosione strisciante della classe media, una povertà spaventosa, lo sfacelo del sistema educativo e il fanatismo religioso. 

L’agenzia dell’Unione europea Frontex, con la sua politica di pattugliamento difensivo delle frontiere marine, non ha invece fatto altro che costringere le imbarcazioni di migranti a prendere rotte sempre più lunghe e pericolose per evitare le navi da guerra europee, mettendo de facto gli immigrati nelle mani degli scafisti più spericolati.

È stata una politica non solo vana, ma complice delle tragedie che si consumano nel Canale di Sicilia, come quelle che tra il 18 e il 19 aprile scorso hanno causato la morte di circa 900 persone.

I giornalisti riportano che la maggior parte dei paesi raccolti intorno al tavolo del Consiglio europeo sull’immigrazione del 23 aprile scorso hanno ritenuto che estendere le operazioni di soccorso possa rappresentare un incentivo per i trafficanti di immigrati, ma nessuno si è azzardato a proporre corridoi umanitari, svuotando dunque le mafie dei barconi del loro bacino di clienti: profughi e immigrati economici.

È come se assistessimo a un suicidio politico ed etico dell’Europa, un ennesimo regalo alle ideologie fasciste. La scusa utilizzata è che i movimenti xenofobi guadagnerebbero terreno, ma molti sono cittadini e iniziative che cercano di alleviare i danni di una politica dell’accoglienza e dei flussi migratori perversa, molti di più di quelli che pensiamo.

Pensiamo al successo del Sistema italiano di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), che vede coinvolti in progetti di accoglienza integrata in tutto il territorio nazionale enti locali e associazioni, con il sostegno del ministero degli Interni.

Se le istituzioni si cimentassero in una politica mediterranea articolata nei suoi aspetti politici, sociali ed economici, fedele ai valori di libertà e solidarietà su cui si è costruita la Casa comune europea, anche un patto di solidarietà con le popolazioni in fuga verrebbe accettato dalla maggioranza della popolazione italiana.

Festeggiare il 25 aprile significa dunque riprendere una cultura dell’impegno antifascista fondato sulla lotta al razzismo e sulla solidarietà internazionale.

L’allarme deve essere suonato osando di più, con orgoglio – con l’orgoglio di essere figli e nipoti di emigrati, con la consapevolezza di essere cittadini di un paese che le “contaminazioni” avvenute nei secoli hanno reso più ricco e diverso – non nascondendosi dietro le minacce dei movimenti xenofobi.

E alla xenofobia rispondiamo guardando avanti, organizzando l’accoglienza, mostrando la bellezza della diversità sociale e culturale, spiegandone i benefici per lo sviluppo economico e la cooperazione internazionale, opponendo le nostre voci e i nostri corpi!

Usando astuzia e genialità! Un poco come fecero le donne di Sarajevo, che nel mezzo dell’assedio alla città, nel 1993, organizzarono un concorso di bellezza. Sfilando in costume, mostrando le loro forme aggraziate, riempivano la vita degli assediati di freschezza, e riducevano gli assedianti e i loro ideologi fascisti a una patetica falange troglodita.

Sarajevo, 25 aprile 2015

 

*Gianluca Solera è attualmente direttore del Cospe. E’ autore, tra gli altri, de “Il Riscatto Mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza” (Nuova Dimensione, 2013). 

 

 

April 26, 2015di: Gianluca Solera*

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