Afghanistan. La vita “sul filo” delle donne che difendono le donne

Ogni giorno subiscono violenze, minacce, uccisioni a causa del loro lavoro in difesa dei diritti e dell’educazione femminile, mentre il governo e le autorità non fanno nulla per difenderle. La denuncia arriva dall’ultimo rapporto di Amnesty International.

 

 

Nargis è una giovane giornalista tajika che durante il suo lavoro si rifiuta di apparire in TV con indosso un chador. Malalai dirigeva una scuola femminile in Afghanistan, dove ha lavorato fino al 2014. Lailuma è un’attivista per i diritti umani che si batte per l’emancipazione e l’educazione delle donne afghane. E poi c’è Adeena, educatrice ed ex membro del parlamento alla Camera, c’è Brishna, medico, c’è Homaira, poliziotta, e tante altre.

Cos’hanno in comune queste donne, oltre alla provenienza geografica? Hanno tutte subito minacce, violenti attacchi e brutali assassinii di familiari per via del loro lavoro, per aver rotto quel tabù culturale che in molte parti dell’Afghanistan vede ancora le donne come mere “custodi del focolare”, adatte solo ad occuparsi della casa e della famiglia.

Le loro storie e testimonianze sono state raccolte dall’ultimo report di Amnesty International uscito martedì 7 aprile e intitolato “Their lives on the line” (Le loro vite a rischio) in cui ad essere denunciata è soprattutto l’inerzia delle autorità di fronte a questi crimini e l’incapacità del governo e delle istituzioni di proteggere queste donne simbolo del progresso del paese.

Donne che, nonostante i progressi raggiunti in questi anni, ancora oggi sono prese di mira da ogni parte: dai talebani, certo, ma anche dai signori della guerra, dalle proprie stesse famiglie, dalle agenzie di sicurezza e perfino da funzionari del governo.

E mentre le leggi recenti create per sostenere i diritti delle donne sono scarsamente o per nulla applicate, secondo l’ong anche la comunità internazionale sta facendo troppo poco per alleviare la loro situazione.

“Le donne che difendono i diritti umani provengono da tutti i ceti sociali e nel corso degli ultimi 14 anni hanno combattuto coraggiosamente per l’ottenimento di alcuni risultati significativi – ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, a Kabul durante la presentazione del rapporto – molte hanno anche pagato con la vita. E’ scandaloso che le autorità afghane le lascino sole, in una situazione così pericolosa”.

“Stavo tornando in auto a casa dal lavoro, quando hanno fatto esplodere una bomba e mio marito ha subito gravi ferite al volto e alle mani – racconta Malalai, ex direttrice di una scuola per ragazze – I bambini hanno avuto fortuna e se la sono cavata con lievi ferite, ma la vettura è stata completamente distrutta”.

E questo non è che uno degli ultimi episodi di violenza che le sono capitati. Dal 2005, da quando ha fondato il suo istituto femminile, ha continuato a ricevere minacce e attacchi, compreso un razzo che ha distrutto parte della sua casa.

Anche allora le autorità non avevano fatto nulla per proteggerla, fino al triste epilogo: il rapimento e l’uccisione del figlio 18enne con dodici colpi di arma da fuoco, sempre a causa del suo lavoro come educatrice.

“I [veri] nemici di questo paese sono le persone che si oppongono al progresso” ha commentato la donna, che nel 2014 ha dovuto chiedere asilo in Europa per non finire uccisa insieme al resto della sua famiglia.

E se l’educazione femminile è l’ambito che viene preso di mira maggiormente – le Nazioni Unite hanno parlato di più di 1.000 attacchi contro scuole e insegnanti nel periodo 2009-2012, ma ce ne sono stati anche di recenti – la carriera politica è un altro settore in cui il rischio di morte e di violenze è quotidiano.

Basti pensare alla lunga catena di attacchi, come quello alla parlamentare Fariba Ahmadi Kakar e quello alla senatrice Rohgul Khairkhwah avvenuti nel 2013, a una settimana l’uno dall’altro, nella provincia di Ghazni. Nel novembre 2014, un’altra deputata è stata ferita in un attentato a Kabul, fino al più recente, avvenuto a febbraio 2015, con una bomba che ha colpito il membro del consiglio provinciale di Nangarhar, Angeza Shinwari, mentre passava in auto di fronte a una scuola di Jalalabad.

Nota per il suo lavoro sui diritti delle donne, tra cui una campagna contro le “spose dell’oppio”, la donna è rimasta gravemente ferita.

“C’è un peso e due misure – racconta ad Amnesty la parlamentare Adeena – i miei colleghi maschi sono dotati di auto e guardie del corpo. Io non ne ho neanche una. Tutti i miei colleghi maschi possono vedere immediatamente il governatore, io devo sempre aspettare per ore all’aperto senza protezioni”.

Anche lei ha avuto la sua dose di dolore e lutti. Suo fratello è stato ucciso mentre faceva campagna elettorale per lei nel 2005, chiaro tentativo di scoraggiare la sua candidatura. Ma sebbene la tentazione e lo scoramento fossero enormi, Adeena non si è mai arresa.

Per molte che non resistono, altre inevitabilmente si spezzano, come la dottoressa Brishna, originaria di una provincia orientale dell’Afghanistan, vittima continue minacce, fino all’esplosione di una bomba in casa che ha quasi distrutto la vita di suo figlio, e all’attacco in cui suo fratello è rimasto ucciso.

Nella clinica in cui lavorava arrivavano tutti i giorni decine di donne in cerca di aiuto, soprattutto vittime di violenza domestica.

Quando è stata lei a chiedere aiuto alle autorità per i continui attacchi e minacce, è stata ignorata. “Il governo è così impotente – racconta – Non possono fare nulla o addirittura ti incolpano per quanto ti sta accadendo”.

Alla fine, sola e senza aiuto, ha dovuto lasciare il lavoro.

“Queste donne – scrive Amnesty International – sono percepite come coloro che sfidano le strutture di potere e le norme culturali, religiose e sociali esistenti che riguardano il ruolo delle donne nella società e, in quanto tali, sono deliberatamente prese di mira, a prescindere dal fatto che siano medici, giornalisti, educatori, agenti di polizia di sesso femminile o rappresentanti eletti”.

E dire che a partire dal 2001, i governi internazionali hanno versato centinaia di milioni di dollari in progetti a sostegno dei diritti delle donne. Interventi troppo frammentari e circoscritti, i cui risultati restano deludenti, nonostante il quadro giuridico per proteggere le donne sia stato migliorato e il nuovo governo di Ashraf Ghani e di Abdullah Abdullah abbia riaffermato il proprio impegno a difesa dei diritti delle donne.

“L’Afghanistan si trova ad affrontare un futuro incerto e sta vivendo il momento più critico della sua storia recente – ha commentato ancora Salil Shetty – Con il ritiro delle truppe quasi completo, troppi nella comunità internazionale sembrano felici di spazzare via l’Afghanistan sotto il tappeto. Non possiamo semplicemente abbandonare questo paese e coloro che hanno messo le loro vite a rischio per i diritti umani, compresi i diritti delle donne”.

 

Foto via Wikimedia Commons.

 

April 12, 2015di: Anna ToroAfghanistan,

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