La polizia li ha radunati in massa, con metodi spesso brutali e violenti, per poi smistarli nei centri di detenzione e sbrigare le ultime pratiche prima di espellerli dal paese.
Molti si sono consegnati spontaneamente, altri si sono accampati per giorni di fronte alle ambasciate in attesa dei documenti per il rimpatrio forzato. Altri ancora hanno deciso di nascondersi o resistere, trovando ad attenderli i manganelli degli agenti, il carcere e, anche per loro, l’espulsione coatta.
Sono a migliaia gli immigrati che in questi giorni si stanno unendo all’esodo che ha visto forse uno su dieci dei 9 milioni di lavoratori stranieri stimati in Arabia Saudita lasciare il regno in poco più di un anno.
Il motivo è la scadenza, agli inizi di questo mese, della moratoria che il governo saudita aveva concesso ad aprile, affinché i lavoratori irregolari si mettessero in regola con il proprio permesso di soggiorno e di lavoro.
Quattro milioni hanno ottenuto i documenti dal proprio datore o sponsor. Per coloro che non ci sono riusciti – circa un milione – il governo ha deciso di essere implacabile: tutti fuori.
Per rendere operativa la decisione, a partire dal 4 novembre le autorità hanno dato vita a una vera e propria “caccia all’immigrato irregolare” nei quartieri più poveri delle città, setacciando da cima a fondo cantieri, periferie e palazzoni, e sedando con la forza i tentativi di resistenza.
Non sono mancati gli scontri violenti con la polizia, e il bilancio, per ora, è di cinque morti: tre etiopi, un somalo, e un agente saudita. Oltre 33.000 gli arresti.
Da segnalare la solerzia con cui molti cittadini sauditi, in pieno fervore nazionalista, hanno dato man forte alla polizia, sia denunciando o bloccando loro stessi gli ‘irregolari’, sia facendo il tifo e godendosi lo spettacolo a distanza (in rete, i video delle fughe e degli scontri hanno avuto una diffusione virale già dai primi giorni).
Nonostante il governo saudita abbia assicurato che non avrebbe preso di mira nessuna nazionalità nello specifico, è con gli immigrati etiopi che la polizia si è accanita maggiormente, soprattutto a Manfouha, sobborgo povero della capitale Riad.
Uno dei tanti giovani messi sotto custodia, Abdallah Awele, racconta all’agenzia France Press di esser stato picchiato selvaggiamente prima dell’arresto: “Quando sono stato preso – precisa – avevo 3.500 riyal (700 euro). Ma una volta in prigione ho perso il mio bagaglio, e tutto il mio denaro è stata preso dalla polizia”.
Sono moltissimi, poi, coloro che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e averi in fretta e furia, e c’è perfino chi racconta che il proprio sponsor-datore di lavoro si sarebbe volatilizzato con i soldi versati per la regolarizzazione.
Per il momento, il numero degli etiopi che si sono consegnati alla polizia sfiora i 23mila, tra cui molte donne e bambini.
A poco sono valse le richieste di aiuto dei deportati al governo di Addis Abeba che, pur approvando la campagna di regolarizzazione del regno saudita, ne ha denunciato i metodi e ha mandato una delegazione a Riad per indagare sulle morti dei propri connazionali.
Effetto boomerang
Ma cosa succede se, in un paese quasi totalmente dipendente dalla manodopera straniera, vengono mandati via in un solo colpo migliaia di immigrati?
L’Associated Press racconta che, pochi giorni dopo i primi raid della polizia e la fuga in massa degli stranieri, nelle principali città centinaia di negozi alimentari, supermercati, bar, panifici hanno chiuso i battenti per mancanza di personale, mentre quasi la metà delle piccole imprese edili hanno dovuto smettere di lavorare perché moltissimi dipendenti non sono riusciti a ottenere l’aggiornamento dei visti in tempo.
Con la maggior parte dei lavoratori che, per paura, non si sono presentati al lavoro, servizi vitali come la consegna dell’acqua, il pompaggio di fosse settiche e il lavaggio dei corpi per la sepoltura si sono arrestati, e i prezzi per i servizi di meccanici, idraulici ed elettricisti sono saliti alle stelle.
Ancora, la Saudi Gazette riferisce che 20.000 scuole sono rimaste senza bidelli e non ci sono più gli autisti per gli scuolabus, mentre Arab News racconta che a La Mecca mancano 6.000 spazzini e l’immondizia si è accumulata talmente tanto che un alto funzionario della città di Medina si è dovuto mettere a spazzare le strade tutto intorno alla moschea che ospita la tomba del profeta Maometto.
“L’intero sistema con cui l’Arabia Saudita regola la manodopera straniera sta fallendo” ha detto ad AP Adam Coogle, ricercatore per il Medio Oriente di Human Rights Watch, secondo cui, se il regno vuole risolvere seriamente il problema, invece che prendersela con i lavoratori dovrebbe semmai riesaminare le proprie leggi sul lavoro.
Contraddizioni di un sistema in declino
Un terzo della popolazione saudita, circa otto milioni più un milione di irregolari, sono espatriati che lavorano nel regno in professioni qualificate e non. Molti di loro sono rimasti stritolati dalle leggi del lavoro saudite e dal sistema della sponsorizzazione (kafala) che il regno, insieme alla maggior parte degli Stati del Golfo, continua a imporre.
Con le sue quote forzate e il divieto per gli stranieri di esercitare le professioni più altolocate, la kafala è tutt’oggi oggetto di potenti lobby che vogliono frenare l’avanzamento delle riforme volte a un suo superamento.
Al-Monitor, nella sua analisi sugli avvenimenti di questi giorni, parla di motivi economici, certo, ma anche politici: “Dal 1950 – si legge – quando gli scioperi nei siti petroliferi hanno reso il governo consapevole dei pericoli di una forza lavoro indigena organizzata e concentrata in un settore vitale, il regno ha optato per una politica di importazione della manodopera, assoggettandola a norme severe e vietando sia i sindacati sia gli scioperi”.
“Un operaio straniero, magari proveniente da un docile paese asiatico, con un permesso di lavoro a breve termine e che poteva facilmente essere deportato, diventava così l’ideale”.
Ma allora perché questo imponente giro di vite sugli stranieri da parte delle autorità saudite?
Lo scopo sarebbe duplice: regolare il flusso di immigrazione verso il regno, e aprire opportunità di lavoro per i 19 milioni di cittadini sauditi, il cui tasso di disoccupazione si attesta a oltre il 12 per cento. Questo nonostante, almeno per il momento, i lavori da sempre affidati agli immigrati (autista, cameriere, domestico etc) abbiano ben poca attrattiva anche (e soprattutto) tra i giovani del regno, la cui percentuale di disoccupazione pure raddoppia rispetto al dato generale.
Eppure la “saudizzazione” del mercato del lavoro saudita, dal suo avvio nei lontani anni ’70 non si è mai realizzata, così come la kafala continua a rimanere il sistema di reclutamento e collocamento preferito dal regno.
Oggi che questo sistema sta collassando su se stesso, invece che decretarne il fallimento, il governo saudita ha preferito ricorrere al capro espiatorio per eccellenza: gli immigrati, il nemico interno, quello che più facilmente può essere accusato di ogni sorta di mali e punito, con tanto di applausi da parte dei cittadini.
*Foto Kelly Hart via Flickr in CC
November 22, 2013di: Anna ToroArabia SauditaArticoli Correlati:
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