EAU. Se lo sciopero nei cantieri è punito con l’espulsione

L’astensione di tre giorni dal lavoro, organizzata la settimana scorsa dagli operai immigrati della grande azienda edile Arabtec, non è stata senza conseguenze: almeno 43 quelli costretti al rimpatrio forzato, con le organizzazioni per i diritti umani insorgono.

 

 di Anna Toro

Migliaia di lavoratori stranieri impiegati dal colosso edile Arabtec hanno incrociato le braccia lo scorso fine settimana per chiedere migliori condizioni di lavoro e salari più dignitosi, con aumenti legati agli anni di servizio e alle maggiori competenze acquisite.

Lo sciopero – un evento più unico che raro negli Emirati Arabi Uniti – è durato tre giorni, poi mercoledì, la polizia e i funzionari dell’ufficio immigrazione hanno fatto irruzione nei vari dormitori disseminati nelle periferie dei Dubai e Abu Dhabi, e hanno minacciato l’espulsione di coloro che non si fossero recati in cantiere.

“Arabtec conferma che tutti i lavoratori sono tornati al loro posto senza alcun impatto sui suoi progetti”, ha scritto in un comunicato la società con sede a Dubai.

Con circa 40 mila operai, per lo più stranieri provenienti dal sud-est asiatico, Arabtec è tra le aziende edili più importanti di tutto il Golfo: suo l’appalto di costruzione del Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo, così come il contratto da 654 milioni dollari per edificare una succursale del museo del Louvre ad Abu Dhabi, che aprirà nel 2015.

L’azienda ha in progetto anche la costruzione di numerosi hotel a 7 stelle e dei mega-stadi per la Coppa del Mondo in Qatar.

Ma, come spesso accade, dietro a tutto questo lusso si nasconde lo sfruttamento di chi queste grandi opere le deve costruire davvero.

 

Per un salario dignitoso

Li chiamano ‘colletti blu’ (dal colore delle loro tute), e si tratta per lo più di lavoratori immigrati assunti da Arabtec su base contrattuale da paesi dell’Asia meridionale come India, Pakistan, Bangladesh e Nepal.

Negli Emirati Arabi Uniti, gli stranieri sono arrivati a costituire più del 90% della forza lavoro attualmente impiegata nel settore privato: una maggioranza schiacciante di operai per i quali non esiste un salario minimo garantito, mentre scioperi e sindacati sono considerati illegali.

Secondo le cifre fornite dai principali media, i lavoratori non qualificati ricevono uno stipendio mensile che non supera i 900 dirham (circa 245 dollari), nonostante un operaio della’Arabtec abbia dichiarato all’agenzia Reuters che il loro salario si ferma tra i 160-190 dollari al mese.

Ecco perchè, come riportato anche dal quotidiano di Stato The National, con lo sciopero indetto la settimana scorsa i lavoratori volevano ottenere che i tre pasti giornalieri forniti direttamente dalla società venissero tramutati in assegno alimentare del valore di 350 dirham (95 dollari) da versare insieme al salario.

Ma la protesta è stata interpretata come un vero e proprio affronto dall’Arabtec che – sebbene abbia precisato che la questione è stata “risolta amichevolmente grazie alla cooperazione del ministero del Lavoro, della polizia e delle altre autorità ufficiali”, ha poi sottolineato come “questo sciopero ingiustificato” sia stato “istigato da una minoranza, di cui si terranno in conto le azioni”.

Una ritorsione che non si è fatta attendere, con i già citati rimpatri forzati e numerose lettere di licenziamento, a cui si aggiungono i rimpatri “volontari” le cui richieste, secondo il capo della polizia di Dubai, Dahi Khalfan, sarebbero ad oggi almeno 200.

Quanto siano davvero “volontari” è ancora tutto da verificare, viste le condanne giunte da tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani. 

“Sarebbe scandaloso se gli EAU deportassero davvero i lavoratori che hanno preso una posizione coraggiosa per ottenere quelli che sono dei diritti fondamentali”, ha commentato tra gli altri il direttore di Human Rights Watch per il Medio Oriente, Sarah Leah Whitson.

Cosa che in realtà è già accaduta, esattamente nel 2011, quando 70 lavoratori Arabtec sono stati prelevati dal loro campo-dormitorio a Dubai e rimpatriati a seguito di una protesta in cui chiedevano un aumento del loro salario.

 

Promesse disattese

Questo nonostante diversi paesi del Golfo, tra cui gli Emirati, si siano di recente fatti promotori di alcuni miglioramenti legislativi per quanto riguarda il lavoro.

Tra questi: l’introduzione dei trasferimenti elettronici degli stipendi, l’obbligo di pagamenti puntuali, il miglioramento degli standard degli alloggi, perfino il divieto dell’odiosa usanza, da parte dei datori di lavoro, di confiscare i passaporti dei loro dipendenti.

Nella pratica, però, poco è cambiato.

Il sistema resta quello della kafala, la sponsorizzazione da parte del datore di lavoro, che gli attivisti definiscono come “la forma di schiavitù del XXI secolo”, e la maggior parte dei migranti restano poveri e sommersi dai debiti che hanno accumulato per pagare intermediari senza scrupoli, utilizzati per assicurarsi un posto di lavoro nel Golfo.

Morale della favola, secondo le associazioni per i diritti umani i lavoratori continuano ad essere sfruttati e privati dei loro diritti fondamentali.

E le interviste condotte da al Jazeera a una dozzina di operai dell’Arabtec (a cui è stato garantito l’anonimato per proteggere la loro incolumità), confermano le loro accuse.

A partire dai dormitori, casermoni messi a disposizione dalla società per i propri lavoratori, definiti insalubri e sovraffollati.

“Viviamo in cinque in una stanza, ma condividiamo un solo bagno con altri 40-50 uomini. Di mattina, prima del lavoro, la fila è infinita” racconta ad esempio Syed Khaled, operaio del Bangladesh, da nove anni alle betoniere dell’Arabtec.

Afferma di non aver mai ricevuto un aumento e che negli ultimi tre anni l’azienda non gli avrebbe nemmeno permesso di andare in ferie. Questo, nonostante le leggi statali sul lavoro garantiscano ai lavoratori 30 giorni di riposo annuali.

Human Rights Watch ha anche documentato le condizioni di lavoro poco sicure e i turni disumani, con gli operai costretti a lavorare anche per 12 ore al giorno nel caldo soffocante.

“I tentativi da parte degli Emirati Arabi Uniti di riformare le leggi sul lavoro sono stati soltanto ‘di facciata’, e non si è affrontato il problema principale della loro messa in pratica” ha commentato Nicholas McGeehan, consulente per il Medio Oriente di Human Rights Watch, che ha aggiunto: “Avere una legge non serve a nulla se poi i datori di lavoro non sono ritenuti responsabili delle violazioni”.

 

Foto di Imre Solt – Dubai Construction Update, via Wikimedia Commons

 

May 29, 2013

Emirati Arabi Uniti

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