Egitto. Da un presidente all’altro

In Egitto si è già arrivati nel 2014, anno in cui si aggiornerà il processo al deposto presidente Morsi e in cui, con tutta probabilità, verrà eletto il nuovo capo di Stato. 

 

 

 

Il 4 novembre scorso si è aperto il processo all’ex presidente Morsi. Aperto, per poi chiudersi dopo un breve dibattito aggiornato all’8 gennaio 2014. Alcune fonti sostengono che il giudice abbia così deliberato a seguito del rifiuto da parte dell’imputato di indossare l’abbigliamento adatto, presentandosi vestito in abiti civili (e non da detenuto quale egli è).

Altri sostengono che il rinvio sia stato deciso per motivi di ordine pubblico e, considerando la mole di manifestazioni e proteste che si sono svolte in tutto il paese, la delibera del giudice deve essere stata tutt’altro che motivata da questioni estetiche. 

All’indomani della delibera, molti quotidiani locali hanno aperto con il titolo “Morsi oggi è nella cella di Mubarak”, a voler sottolineare una continuità evidente fra i due personaggi, fra le due gestioni, fra quelle che evidentemente qualche direttore di giornale considera come due dittature alla pari. 

Non senza ironia, secondo quanto sottolineato da molti sui Social network, l’Egitto è dunque riuscito a mettere contemporaneamente sotto processo due presidenti: Mubarak e Morsi.

Il 2013 rischia di chiudersi in maniera difficile, con il concreto rischio di giungere al 2014 con diversi conti in sospeso. Primo fra tutti il processo all’ex presidente della Fratellanza.

Lungi dall’essersi arrestate, in tutto l’Egitto si sono registrate nei giorni scorsi manifestazioni in favore del leader dei Fratelli Musulmani: da Alessandria ad Assiut, così come a Suez, sino a Sharqiya e Dakhiliyya. Ed al Cairo ovviamente. 

Non si tratta delle folle oceaniche che la scorsa estate hanno di fatto sfiduciato il governo di marca islamista, ma siamo comunque davanti ad una nutrita componente del sistema-Egitto che considera illegale l’attuale reggenza politica contestandola in maniera aperta, continuativa e costante. 

Il rischio di una estremizzazione è tutt’altro che remota. E non solo di questa componente: in pericolo c’è tutta la società egiziana se il sindacato dei giornalisti, per voce di Sayed Abu Zeid, ha chiesto l’applicazione della pena di morte per Morsi poiché “responsabile diretto” della morte del collega Abu Deif. 

Il sito Ahram on-line, che riporta la notizia, usa l’espressione inglese “seeking retribution”, come a voler sottolineare, neanche troppo velatamente, il carattere vendicativo della richiesta avanzata da Abu Zeid. Ma del resto, lo sottolinea la blogger Zeinobia, Morsi non è Salvador Allende e nemmeno Nelson Mandela, “come vorrebbero farci credere i suoi sostenitori”. 

La polarizzazione che avevamo osservato crescere prima, durante e dopo ciò che i Fratelli Musulmani hanno definito come inqilab (colpo di Stato) rischia di aumentare notevolmente prima, durante e dopo lo svolgimento del processo. 

Il tutto senza contare alcuni altri allarmanti dati che rischiano di compromettere gravemente la salute del sistema-paese. 

Secondo quanto riportato da Muhammad el Dahshan, l’Egitto si pone come peggior paese al mondo per qualità di informazione elementare fornita ai minori. Ed è sempre Dahshan ad informarci che, in base al World Happiness Report stilato dall’UN Sustainable Development Solutions Network (UNSDSN), la “felicità” complessiva del popolo egiziano nel biennio 2010-2012 è in netto declino rispetto a quella del 2005-2007. 

Tralasciando i criteri di compilazione del particolare indice Onu, l’esistenza di un diffuso malessere, dettato in primo luogo dalle difficili condizioni economiche e dall’evidente  incertezza politica, resta un dato di fatto innegabile.  

 

Il prossimo presidente

Con due presidenti alla sbarra, l’Egitto deve comunque pensare all’elezione del prossimo capo di Stato.

La domanda non appare dunque prematura: chi sarà il futuro presidente dell’Egitto?

Impossibile dirlo sin da ora, ma alcuni spunti di riflessione per comprendere le evoluzioni dei prossimi mesi possono già essere evidenziati. 

I militari avranno un ruolo preponderante e qualora al-Sisi dovesse decidere di candidarsi potrebbe facilmente assicurarsi la poltrona senza eccessivi sforzi. Del resto dove dovrebbero mai direzionarsi gli oltre 10 milioni di voti che nel 2012 spinsero Shafiq ad un passo dalla conquista della più alta carica statale?

Il voto islamista non scomparirà, sebbene potrebbe (o meglio dovrebbe visto l’attuale stato di illegalità dei Fratelli Musulmani) orientarsi verso formazioni salafite: vedi alla voce al-Nour, al-Asala, al-Watan le quali, a condizione che la nuova Costituzione non ponga limiti alla formazione di partiti su base confessionale, potrebbero conoscere rinnovate fortune politiche. 

E le vecchie opposizioni come il National Salvation Front? E Tamarod?

Sicuramente la variegata alleanza di liberali parteciperà alle elezioni parlamentari mentre sembra in forte dubbio sul se e come eventualmente candidare uno dei suoi alla corsa per la poltrona presidenziale. 

Secondo recenti dichiarazioni del leader di al-Wafd, El-Badawi, il suo partito e l’intera alleanza sarebbero pronti a sostenere al-Sisi qualora decidesse di ufficializzare la sua candidatura. Nel frattempo anche Tamarod prepara la sua campagna elettorale, annunciando di voler competere per “la maggioranza dei seggi”. Difficilmente ci riuscirà, ma intanto si inserisce a pieno titolo nella corsa per occupare uno degli scranni parlamentari. 

Molti indizi sembrano dunque portare verso una elezione di al-Sisi, che gode del sostegno del mondo militare, dell’appoggio di alcuni liberali, di alcuni salafiti. Ma come giustificare agli occhi della popolazione l’elezione (di nuovo) di un militare alla presidenza? E soprattutto, come spiegarlo a quella parte della popolazione che oggi contesta, e contesterà anche domani, la reggenza militare?

Non facciamo qui riferimento in forma esclusiva alla componente vicina ai sentimenti della Fratellanza, ma anche a quell’attivismo sociale e culturale che ha contribuito in maniera sostanziale a dare forma e vita a Tahrir e che oggi sta cercando una terza via (attraverso la formazione di al-Midan al-Thalith) per il cambiamento: né con i militari né con i Fratelli Musulmani.

Divisi e certamente non del tutto uniti sotto un’unica bandiera, questi soggetti rappresentano comunque una voce fortemente critica rispetto all’operato governativo e nello specifico dei militari. 

Niente lascia poi pensare che nell’Egitto di domani il ruolo – o per meglio dire l’influenza – dei paesi del Golfo sarà minore rispetto al passato. Il futuro presidente dovrà tenerne conto.

Forse una prima, anteriore, considerazione sarà effettuata dai settori economico ed industriale locali che ad oggi si troverebbero in grave difficoltà senza i generosi investimenti provenienti dall’altra sponda del Mar Rosso. Difficile che (anche) il volere di Arabia Saudita ed affini possa essere ignorato nella definizione dei futuri assetti interni del Paese. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

November 07, 2013di: Marco Di DonatoEgitto,Articoli Correlati: 

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