La guerra per procura ormai in atto in Libia ha fatto del paese un’arena dagli interessi molteplici. Nel caso dell’Egitto ci sono ragioni economiche, energetiche e di sicurezza. Ma ci sono anche le critiche che sta affrontando il governo di al-Sisi, che continua ad agitare lo spettro del terrorismo per distogliere i cittadini dai problemi reali, e continuare a incarcerare i suoi oppositori. Siano essi islamisti, attivisti o terroristi.
Quando un gruppo di miliziani libici legati all’Isis ha mostrato al mondo, il 15 febbraio scorso, l’uccisione dei 21 cristiani copti – di cui 20 egiziani – avvenuta lungo le coste del Mar Mediterraneo, l’allarme di un avvicinamento del Califfato alle porte dell’Europa è cresciuto significativamente.
Quelle che fino a poche settimane prima sembravano minacce slegate dalla realtà – data la considerevole distanza dai principali teatri operativi dell’Isis – sono improvvisamente diventate concrete e, soprattutto, vicine.
L’Egitto guidato dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, che con la Libia condivide un confine lungo quasi 1000 km, ha così colto l’opportunità per lanciare un immediato raid aereo sulla città di Derna, in cui i miliziani legati al califfo Al-Baghdadi avrebbero diverse aree sotto il loro controllo.
L’aviazione egiziana ha preso di mira campi d’addestramento e depositi di armi bombardando anche Sirte ed altri villaggi limitrofi. Si ritiene, però, che l’Egitto abbia cominciato ufficiosamente i bombardamenti in Libia già dall’agosto scorso.
In un discorso alla nazione, al-Sisi ha ribadito di aver colpito 13 obiettivi militari, uccidendo decine di miliziani, 50 secondo alcune fonti giornalistiche, e senza causare vittime tra i civili. Amnesty International, però, ha diffuso un comunicato in cui si parla di almeno 7 civili uccisi, tra cui una madre e i suoi tre bambini.
Dal punto di vista del presidente egiziano, tutta la nazione condivide la sua scelta d’intervenire per proteggere i suoi concittadini.
Quello della lotta al terrorismo, interno ed esterno, è sempre stato un cavallo di battaglia di al-Sisi. Poche settimane dopo la destituzione dell’ex presidente Mohammed Morsi, avvenuta nel luglio 2013, infatti, al-Sisi ha invitato gli egiziani ad avallare la sua campagna di lotta al terrorismo con un’imponente manifestazione di piazza.
Da quel momento la morsa si è stretta non solo attorno al movimento dei Fratelli Musulmani, accusato di voler destabilizzare il paese e successivamente dichiarato organizzazione terroristica, ma anche attorno ai gruppi laici, agli attivisti, agli studenti e ai giornalisti.
L’entrata in vigore della nuova legge sulle proteste, approvata alla fine del novembre 2013, ha contribuito ad aumentare il numero dei detenuti che, secondo un rapporto pubblicato lo scorso maggio dall’organizzazione indipendente Wikithawra, sarebbero oltre 40 mila.
Gli attivisti più rappresentativi della rivoluzione del 2011, da Alaa Abdel Fattah ad Ahmed Douma sino a Mahienour el-Masry, si trovano in carcere o sono in attesa di giudizio, mentre altri hanno preferito cambiar aria, come il cantante della rivoluzione Ramy Essam.
Centinaia di studenti sono stati arrestati subito dopo l’inizio dell’anno accademico, cominciato lo scorso ottobre, e qualsiasi attività all’interno degli atenei è sottoposta al severo controllo di rettori e presidi di facoltà.
Una disposizione approvata alla fine di ottobre consentirà all’esercito di assistere la polizia nella protezione di edifici pubblici, strade, porti e altre strutture giudicate d’interesse vitale per il paese.
Senza specificare quali e quante strutture coinvolgere, le maglie della legge risulteranno sufficientemente larghe da estendere le funzioni di polizia esercitate dalle forze armate in qualsiasi luogo sia necessario.
La conseguenza immediata di questo provvedimento sarà che i tribunali militari potranno avvalersi della facoltà di giudicare qualsiasi attacco o crimine a queste strutture, giudicate al pari di edifici militari, con il rischio di aumentare ancora di più il numero di civili processati da una corte marziale.
L’eccesso di giustizialismo è stato accompagnato anche da sentenze storiche in cui centinaia di persone, soprattutto membri dei Fratelli Musulmani, sono state condannate a morte, spesso senza prove sufficienti.
Molte pene sono state commutate in ergastoli, ma proprio sabato scorso il trentaduenne Mahmoud Abdel Naby, un informatico di Alessandria, è stato giustiziato perché giudicato responsabile della morte di due oppositori di Morsi negli scontri che hanno seguito la sua destituzione. Si tratta della prima esecuzione dal 2011.
L’aumento delle condanne, però, non ha minimamente interessato le forze di polizia che, ieri come oggi, continuano a non pagare per la loro responsabilità nelle morti di tanti civili o nel torturare detenuti in carceri anguste e sovraffollate.
I loro metodi si manifestano senza troppe remore anche verso chi decide di assistere ad una partita di calcio, o chi, come Shaimaa el-Sabbagh, decide di depositare una corona di fiori in piazza Tahrir per ricordare i martiri della rivoluzione. L’immagine della donna, morente, che si aggrappa ad un amico subito dopo essere stata colpita da due pallini da caccia ha fatto il giro del mondo suscitando le critiche di diverse cancellerie e organizzazioni per i diritti umani.
L’assenza di spazi politici per una reale opposizione, il diffuso senso d’ingiustizia, l’incapacità di riformare l’economia e la governance egiziana insieme ad un’imponente militarizzazione del paese hanno contribuito all’aumento del terrorismo, tanto nella penisola del Sinai quanto al Cairo o in altre aree del paese.
Nel dibattito egiziano, fomentato dai media controllati dallo Stato, essere un islamista equivale grossolanamente ad essere un membro dell’Isis, mentre un manifestante con un’idea diversa dal mainstream prevalente – sia essa ispirata da argomenti religiosi o laici – viene associato ad un sovversivo, se non addirittura ad un terrorista.
Secondo Zack Gold, analista presso l’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, “occorre però distinguere tra i gruppi spinti da ragioni jihadiste e quelli motivati da ragioni più politiche”.
Ansar Bayt al-Maqdis (ABM), noto anche come Provincia del Sinai dopo la sua dichiarata fedeltà al califfo avvenuta lo scorso novembre, è l’organizzazione jihadista più importante della penisola avendo rivendicato il 62% degli attentati.
Creato nel 2011 per condurre attacchi agli oleodotti e ai gasdotti diretti verso Israele, il gruppo può contare su circa 1000 membri e nel tempo è riuscito ad inserirsi tra le crepe che la prolungata assenza dello Stato ha lasciato sul tessuto sociale beduino.
Problemi irrisolti quali il diritto alla cittadinanza, la proprietà della terra e lo sviluppo economico del nord del Sinai, hanno creato le condizioni ideali perché la propaganda jihadista si estendesse anche a est del Nilo.
Oggi si ritiene che il leader più importante di ABM sia proprio il beduino Shadi el-Menaei, appartenente ad uno dei clan che compongono la tribù dei Sawarka, nel nord del Sinai.
Insieme alla succursale dell’Isis, in Sinai operano anche altri gruppi ispirati al salafismo jihadista come il Network di Muhammad Jamal, l’Esercito dell’Islam o Al-Qaeda nella Penisola del Sinai. Altri gruppi, invece, come Tawhid Wal Jihad o il Mujahideen Shura Council, hanno le proprie basi operative a Gaza ma intervengono anche in Sinai.
Dal 2011, le forze armate egiziane hanno dato avvio a tre grandi campagne militari in Sinai: Operazione Aquila (2011) Operazione Sinai (2012) e Operazione Tempesta del Deserto (2013). Gli attentati degli ultimi mesi contro l’esercito, soprattutto quello dell’ottobre 2014 e del gennaio 2015, hanno poi spinto al-Sisi a creare un nuovo comando congiunto per combattere il terrorismo a est del canale di Suez. Il nuovo corpo militare, guidato dal generale Osama Askar, permetterebbe di prendere le decisioni strategico-operative in tempi più brevi e con una maggior concentrazione di forze sul campo.
Al di fuori del Sinai e, in particolare, al Cairo, i gruppi terroristici sono emersi come risposta estrema alla chiusura di spazi politici e alla repressione del dissenso.
Sebbene nella capitale esista anche un gruppo di matrice salafita-jihadista, Ajnad Misr, diversi attentati ai danni di centrali elettriche o linee di trasporto sono stati condotti da gruppi slegati dalle logiche jihadiste.
Come sostiene Gold, si tratta di movimenti di resistenza popolare che possono condividere alcuni obiettivi di lotta – come gli attacchi alla polizia – ma sono diversi nelle logiche che ne hanno ispirato la nascita e l’evoluzione.
Tuttavia, è interessante notare come la percentuale di attacchi nella capitale rispetto al totale sia passata dallo 0% del 2011, al 2% del 2013 fino al 20% del 2014.
I dati, pubblicati in un rapporto dell’Henry Jackson Society, mostrano anche un netto incremento nell’uso di ordigni esplosivi rispetto alle armi da fuoco. L’ultima bomba scoppiata al Cairo risale ad appena 6 giorni fa dinanzi alla Corte Suprema Egiziana, ma saranno almeno 10 quelle esplose nelle ultime settimane nella capitale.
Il bilancio delle vittime causate da attentati terroristici al Cairo è comunque inferiore rispetto ai morti che regolarmente si registrano in Sinai per via del tipo di armi, ben più potenti e qualitativamente migliori, che si usano lungo la penisola.
Quel che è certo è che negli ultimi anni queste armi, che in precedenza provenivano soprattutto dalla Striscia di Gaza, sono arrivate in Egitto attraverso la porosa e instabile frontiera libica. Non è chiaro, però, quante siano le rotte usate dai trafficanti.
Secondo Gold sarebbero almeno due, ma nessuno è in grado di stabilire con certezza se siano ancora usate e se i trafficanti non ne abbiano già trovate altre nel frattempo. In un recente articolo, l’analista ed esperto di Libia Frederic Wehrey, sostiene che siano 5 le principali vie attraverso cui non solo armi, ma anche droga ed esseri umani circolano aggirando i controlli delle autorità.
Due conducono verso la città costiera di Marsa Matrouh, altre due verso la città-oasi di Siwa mentre una rotta navale collegherebbe Marsa Matrouh al Nord Sinai. Esistono anche altre rotte, come quella che dalla Libia conduce alla città egiziana di Farafra, in pieno deserto e distante oltre 500 km dal Cairo.
Proprio a Farafra l’esercito ha deciso di rafforzare la sua presenza dopo l’attacco del luglio scorso ad un checkpoint militare costato la vita a 21 soldati e, secondo le investigazioni, condotto da alcuni trafficanti di armi.
Ciò che il governo egiziano teme è l’effetto spill-over della crisi libica che porterebbe non solo armi, ma anche combattenti libici in Egitto a sostegno dei gruppi terroristici, sebbene una fetta consistente di miliziani stranieri provenga dalla Striscia di Gaza e dallo Yemen.
Per questo motivo, dall’estate 2014, il deserto occidentale è costantemente sorvegliato da droni e sistemi di sicurezza centralizzati che mirano ad intercettare armi e combattenti in transito lungo il confine.
Oltre a ragioni di sicurezza, però, l’Egitto osserva con preoccupazione anche i possibili risvolti economici dell’instabilità libica. Secondo i dati pubblicati dagli uffici consolari nazionali, fino al 2009 almeno 2 milioni di egiziani si trovavano in Libia, seguiti da 1,3 milioni in Arabia Saudita e da circa mezzo milione in Giordania.
Prima dello scoppio delle rivolte del 2011 si calcola ci fossero oltre 6 milioni di cittadini al di fuori dei confini nazionali, il 75% dei quali in Medio Oriente. Oggi queste cifre risentono fortemente del clima d’instabilità e di violenza che circonda il Mashreq e il Nord Africa.
Il prolungarsi degli scontri in questi paesi ha costretto i migranti a rientrare in patria o a ricalibrare la bussola verso le monarchie del Golfo. Sebbene esistano stime diverse sul numero di egiziani attualmente presenti in Libia – 750 mila secondo alcuni, ben oltre il milione secondo altri – non c’è dubbio che un ulteriore riduzione potrà avere immediate ripercussioni sull’economia del paese.
Al netto della crescita demografica, pari a circa il 2% annuo, e delle difficoltà nel risolvere lo stallo economico in cui l’Egitto si trova, il rientro in patria di migliaia di lavoratori determinerà un aumento del tasso di disoccupazione, che al momento sfiora il 13%.
Secondo l’agenzia di Stato MENA, sarebbero già 15 mila gli egiziani che avrebbero lasciato la Libia per tornare nel proprio paese, mentre altre fonti parlano di circa 60 mila.
L’impatto socio-economico della crisi libica in Egitto, sebbene ritenuto meno importante delle conseguenze in termini di sicurezza e stabilità interna, è essenziale in una fase in cui le manovre economiche adottate da al-Sisi rischiano di aumentare il tasso di povertà e i disordini in Medio Oriente impediscono di usare la migrazione della forza lavoro come valvola di sfogo.
Un intervento militare in Libia guidato da una coalizione internazionale, così come auspicato da al-Sisi, ridarebbe linfa al patriottismo egiziano e concentrerebbe maggiori risorse sulle forze armate. Gli attacchi aerei dell’aviazione egiziana su Derna, Sirte ed altri villaggi, però, non sono stati visti di buon occhio dalle cancellerie occidentali, impegnate da mesi nell’intavolare le trattative tra la coalizione islamista Alba Libica ed Operazione Dignità del generale Khalifa Hiftar.
L’ulteriore peggioramento dei rapporti tra il governo di Tripoli e quello di Tobruk, nonché l’ossessione di stanare a tutti i costi i Fratelli Musulmani, faciliterebbe l’avanzata dell’Isis, che ha già dimostrato in Siria, in Iraq e in Sinai di saper sfruttare le debolezze dei paesi in cui opera.
Inoltre, l’Egitto rischia di farsi risucchiare in un intervento armato costoso dagli esiti tutt’altro che scontati.
Basti vedere il Sinai e come, a discapito dei proclami che vorrebbero un esercito con il controllo della situazione, i militari egiziani non siano stati in grado, almeno fino ad ora, di avere la meglio sui gruppi jihadisti.
Il suo sostegno a Hiftar, poi, potrebbe intaccare lo spirito nazionalista del generale libico e dare forza alla narrativa del governo di Tripoli.
Infine, un intervento armato come quello lanciato subito dopo la diffusione della decapitazione dei 21 copti, rischia di esacerbare lo scontro tra l’Egitto e gli Emirati Arabi, da un lato, e la Turchia e il Qatar, dall’altro. La guerra per procura che è ormai in atto in Libia ha fatto del paese un’arena dagli interessi molteplici.
Nel caso egiziano esistono ragioni di natura economica, energetica e di sicurezza. E in un periodo in cui Sisi deve affrontare alcune critiche, dall’inefficacia delle misure economiche all’uccisione dell’attivista Shaimaa el-Sabbagh sino alla morte dei 20 tifosi dello Zamalek dinanzi all’ingresso di uno stadio al Cairo, il presidente egiziano potrà continuare ad agitare lo spettro del terrorismo per distogliere i cittadini dai problemi interni, quali l’economia o la riforma della polizia, e per incarcerare i suoi oppositori, siano essi islamisti, attivisti o terroristi.
March 08, 2015di: Giovanni Piazzese dal Cairo Egitto,Libia,Articoli Correlati:
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