A poco più di due anni dalle dimissioni di Mubarak, la destituzione di Morsi apre nuovi scenari per il futuro dell’Egitto. Fu vera rivoluzione? La piazza è espressione di una “primavera” oppure siamo davanti al più inequivocabile dei colpi di Stato in classico stile militare?
“L’Egitto lo ha fatto di nuovo” titola Wael Nawara. Il paese si è espresso, ha manifestato e, come nel 2011, ha raggiunto un risultato di portata storica. Tuttavia, sottolinea, le incognite e i pericoli non mancano di certo.
Ventidue milioni di firme ed altre decine di milioni di egiziani per le strade del Cairo, di Alessandria, Mahalla, Assiut e più in generale di tutto il paese. Un anno di governo Morsi, a maggioranza islamista. Quarantotto ore per rispondere all’ultimatum congiunto di militari e manifestanti. Pochi minuti per rimuovere il presidente eletto e sostituirlo. Sedici morti e oltre settecento feriti in un solo giorno di manifestazioni, il 30 giugno 2013.
I numeri che raccontano l’Egitto sono questi.
Numeri che indicano una realtà fluida, complessa, a tratti confusionaria, che analisti e giornalisti interpretano in forme e maniere differenti e, in alcuni casi, diametralmente opposte.
Moltissimi plaudono alla decisione del ministro della Difesa al-Sissi che, con le sue parole, ha destituito Morsi e riportato i militari alla luce del sole, sotto i riflettori del potere. Non che fossero mai scomparsi del tutto: erano rimasti dietro le quinte, in attesa che andassero realizzandosi le condizioni propizie per tornare sul palco e interpretare quel ruolo da protagonisti che per decenni hanno recitato.
Il pubblico ha gradito il loro ritorno in scena, li ha invocati, incoraggiati e infine applauditi. I nuovi interpreti – quei ministri troppo islamisti e quel presidente troppo accentratore – avevano fallito la loro performance, non erano mai riusciti ad entrare nei cuori di chi continuava a sentirsi (solo ed ancora) passivo spettatore degli eventi.
E allora meglio cambiare.
L’Egitto vive dunque l’ennesimo atto di un processo di transizione ben lungi dal divenire e completarsi. Un processo in cui la Fratellanza ha subito una durissima sconfitta: questo è forse l’unico dato certo. Sul resto il dibattito è aperto.
Il difficile cammino della Road Map
In queste ore (le ultime 48) giornalisti e analisti si scambiano pareri più o meno accesi sulla stampa internazionale e locale. Tutto è focalizzato sulla descrizione degli eventi, sul come analizzarli, ma soprattutto sul come definirli. Rivoluzione atto secondo? Revolution reloaded? Golpe? Colpo di mano? Transizione democratica?
Robert Fisk descrive quello egiziano come il primo colpo di Stato che non viene definito tale dalle cancellerie europee, ma soprattutto dalla Casa Bianca.
Sui metodi con i quali è stato destituito Morsi, del resto, non c’è molto spazio per l’interpretazione: la minaccia delle armi ha sostenuto le (legittime) richieste della piazza permettendo la destituzione di un presidente eletto.
Come nel 2011, senza l’intervento deciso dell’esercito a difesa e protezione dei manifestanti, questi ultimi non sarebbero riusciti in tempi così rapidi a costringere Mubarak alle dimissioni prima, e poi a destituire l’ormai ex presidente Morsi.
E’ anche vero, tuttavia, che senza la straordinaria mobilitazione messa in mostra il 30 giugno scorsoda milioni di egiziani, l’esercito non avrebbe nuovamente potuto ergersi a difensore unico ed ultimo della nazione e della sua integrità.
In questo l’Egitto e i suoi cittadini mostrano l’effettiva realizzazione di una rivoluzione mentale, quella di aver stravolto quell’atteggiamento passivo che li aveva costretti ad accettare lunghi e bui decenni di dittatura militare.
Tuttavia sarebbe ingenuo pensare a un intervento dei militari senza alcun secondo fine.
Perché mai l’esercito, una volta riguadagnata la propria egemonica posizione, dovrebbe cederla ai manifestanti? In cambio di quale tornaconto? La visione romantica delle forze armate che pervade gli egiziani è certamente un nobile sentimento patriottico, ma come dimenticare i misfatti della breve reggenza dello SCAF? Come dimenticare il massacro di Maspero dell’ottobre 2011?
La storia per larghi tratti sembra ripetersi.
Lo conferma il capo redattore di Aswat Masriyya, Saif Eldin Hamdan, che traccia un preciso parallelismo fra l’annuncio del generale Mohsen al-Fangari (quando Mubarak fu costretto alle dimissioni) e le parole di Abdel Fattah al-Sissi (che ha formalizzato la destituzione di Morsi pochi giorni fa). In entrambi i casi l’esercito si è frapposto fra il palazzo e la piazza, costringendo il primo a cedere alle richieste della seconda: le dimissioni di Muhammad Morsi ed elezioni presidenziali anticipate.
Il primo risultato è stato per ora raggiunto, con la nomina di un nuovo presidente ad interim, Adly Mansour. Il passo successivo sarà quello di sospendere la “nuova” Costituzione e creare un comitato che ne scriva una seconda. Nel frattempo, un governo di tecnici dovrebbe assumere il controllo del paese e garantire la sua governabilità durante la transizione.
Le incognite
Prima di tutto sarà da comprendere il ruolo della Fratellanza nei prossimi giorni e settimane. O forse addirittura nelle prossime ore.
Militari e forze di opposizione hanno affermato che il partito di Morsi è assolutamente parte integrante della transizione e che non sarà escluso dal futuro del paese. Parole incoraggianti in vista di un necessario processo di riconciliazione nazionale che smussi la profonda polarizzazione fra islamisti e non.
Parole che tuttavia stridono con la cronaca di queste ore.
Mohamed Badie, il suo secondo Khairat al-Shater, Saad al-Katatni, i parlamentari Mohamed al-Beltagi, Essam Sultan, Essam al-Erian (tutti membri della Fratellanza) e molti altri sono stati messi agli arresti o hanno subito disposizioni restrittive della propria libertà di movimento, essendo stato reso loro impossibile lasciare il paese. Lo stesso vale per Muhammad Morsi.
Indipendentemente dalle accuse mosse contro questi soggetti, sembra difficile garantire la partecipazione dell’ala politica dei Fratelli Musulmani alla “seconda rivoluzione” se la quasi totalità della sua leadership è dietro le sbarre. Non solo.
La blogger Zeinobia, mai schierata sulla sponda islamista, ci informa di come la chiusura di canali televisivi chiaramente e marcatamente islamisti come Misr 25, al-Hafez ed al-Nas sia in ogni caso un segnale negativo e possa contribuire non solo ad alienare gli islamisti dal panorama locale, ma sopratutto ad accentuare negli osservatori esterni la percezione di un avvenuto colpo di Stato.
Un colpo di Stato che la Fratellanza non sembra voler accettare senza combattere.
“Noi non collaboreremo con gli usurpatori” si legge in un comunicato. Oggi, 5 luglio, sarà il “venerdì del rigetto” contro quelle “forze che hanno destituito il legittimo presidente del paese tramite un colpo di Stato militare”. Per ora dunque i colleghi di partito di Morsi sembrano più che determinati a proseguire in una campagna di scontro con la nuova realtà piuttosto che di mutua collaborazione.
Ma anche qualora, nel medio termine, la Fratellanza decidesse di collaborare, i problemi non sarebbero certamente terminati, sopratutto considerando le forze politiche in campo. Gli unici in grado di godere di ampio consenso sembrano essere i militari.
L’opposizione sembra essere ancora un soggetto multiforme e diviso, privo di una identità definita.
L’obiettivo comune era destituire Morsi, ma dopo? Quali le soluzioni per il passaggio successivo? Come confrontarsi, seppur in un contesto di elezioni teoricamente democratiche, con l’esercito e i suoi esponenti?
Non bisogna dimenticare che se è vero che Morsi nel 2012 (ad appena un anno dalle dimissioni del vecchio rais) vinse principalmente grazie al voto di protesta contro i militari, proprio un esponente del vecchio regime (Shafiq) ottenne poco meno del 50% dei voti.
Esclusi dunque i Fratelli, esiste una figura nelle fila del 30 June Front in grado di catalizzare un pari consenso? Hamdeen Sabbahi potrebbe teoricamente rispondere al profilo giusto, ma siamo per ora nel campo della pura ipotesi.
L’esperienza del National Salvation Front dovrebbe insegnare qualcosa. Anche in quel caso, la composizione della piazza, dei movimenti e dei partiti che lo sosterrebbero sarebbe così variegata da risultare probabilmente – sebbene non certamente – instabile.
Instabile come è il paese in queste ore, impaurito da un profondo senso di insicurezza che inizia a respirarsi per le strade dopo le feste, i fuochi di artificio e le danze.
July 05, 2013di: Marco Di DonatoEgitto,Articoli Correlati:
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