“Non credo che i nostri militari fermeranno gli scontri fino a quando non si placheranno le offensive dell’altra parte”. A parlare così è il capitano Avham al-Kurdi, del Free Syrian Army (Fsa). Appare ormai chiaro che mancano le premesse per rispettare il piano per il cessate il fuoco messo a punto da Kofi Annan.
di Pierpaolo Ciancio
L’Occidente, i paesi del Golfo e le più quotate organizzazioni internazionali hanno intimato a Bashar al-Assad di imporre al suo esercito e alle forze di sicurezza la fine degli scontri e delle violenze.
Ma in questa sfida il presidente è solo. Anzi, appare quasi osteggiato.
La vicina Turchia ospita l’intelligence sia del Fsa che del gruppo d’opposizione più ‘quotato’, il Syrian National Council (Snc).
Da parte loro, Arabia Saudita e Qatar continuano a finanziare o quantomeno a fare pressioni per inviare armi e munizioni ai ribelli, auspicando (meglio, invocando) la caduta del regime.
Usa, Francia e Gran Bretagna accusano Russia e Cina del veto alla precedente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, additando i due paesi per favoreggiamento della repressione armata dei dissidenti pacifici. E tralasciamo per mancanza di informazioni il ruolo giocato nella partita da Israele.
Intanto il piano di Kofi Annan per il cessate il fuoco sembra destinato al fallimentio.
La sua road map stabiliva infatti delle precondizioni necessarie alla sua implementazione entro il 10 aprile, giorno in cui i militari di Damasco avrebbero dovuto abbandonare ogni centro abitato e ritirare armi pesanti e veicoli armati.
Nelle successive 48 ore sarebbe dovuto scattare il cessate il fuoco. Successivamente le parti avrebbero dovuto avviare dialoghi per una soluzione politica.
“Il mondo sta guardando con occhi scettici le tante promesse mancate del governo siriano”, ha dichiarato da Ginevra il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che giovedì 19 aprile sentenziava sulla violazione degli accordi siglati con le autorità di Damasco.
L’Onu decide quindi di accelerare i tempi per una nuova risoluzione, confezionata ed inviata ai rispettivi governi per il nullaosta venerdì 13. Lo stesso giorno le opposizioni accusano Damasco di aver aperto il fuoco su un corteo di manifestanti.
A dispetto dei timori, e dopo alcuni ritocchi imposti dal delegato russo, sabato 14 la risoluzione viene votata all’unanimità.
Approderanno in Siria più di 30 osservatori disarmati (il primo team di otto è al lavoro già da domenica 15 agli ordini di un colonnello marocchino) che riferiranno alle Nazioni Uniti rispetto alla situazione nel paese: sulla base del resoconto il Consiglio di sicurezza potrà incrementare il numero degli osservatori fino a circa 250.
“Al primo team della missione deve essere permesso di visitare luoghi come Homs oggi stesso. Il governo deve fermare i bombardamenti e ritirarsi. E può farlo oggi stesso”, ha affermato l’ambasciatrice statunitense presso l’Onu Susan Rice.
“Il Consiglio di sicurezza può autorizzare la missione nella sua completezza domani, ma senza poter visitare i luoghi cruciali degli scontri … non sarà efficace”.
Cosa accadrebbe se l’esercito siriano si ritirasse immediatamente la Rice preferisce non spiegarlo, come d’altronde tralascia qualsiasi commento sulla legittimità delle forze armate antagoniste al regime, sui canali di reperibilità (o se preferiamo di fornitura segreta) di armi, nonché su abusi e violenze ai danni dei civili, aspetti sottolineati invece (e in più occasioni) da organizzazioni internazionali per i diritti umani come, tra le altre, Human Rights Watch.
Tutelare governo, opposizioni e civili per preparare le ormai vicine elezioni (in calendario a maggio) non sembra essere una priorità dell’Onu, della Lega Araba o degli autoproclamati “Amici della Siria”.
Molto meglio destabilizzare il prima possibile la situazione per eliminare lo ‘Stato canaglia’.
Il portavoce siriano al Palazzo di Vetro afferma di gradire esclusivamente osservatori del Brics, una richiesta in linea con la decisione di Assad di non considerare Washington come un interlocutore valido (e viste le esperienze irachena, afghana e libica a ragione), peraltro viziato in partenza dal suo indiscusso ruolo di ‘scudo israeliano’.
Proporre Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa appare un giusto quanto necessario aggiornamento dello scacchiere politico.
Ma c’è anche Hassan Nasrallah, leader Hezbollah, che in un’intervista rilasciata a Julian Assange, fondatore di Wikileaks, si propone come intermediario nella crisi siriana. Probabilmente sarebbe di parte né più né meno dei leader occidentali e del Golfo.
April 21, 2012
Siria,Articoli Correlati:
- Israele-Siria: una pace impossibile?
- La Siria e la ‘partita’ dei profughi iracheni
- Perché la Siria non è la Libia
- Siria, entra in gioco Wikileaks
- Siria, “Ho tre ragioni per difendere Assad: Afghanistan, Iraq e Libia”
- Chi arma i ribelli anti-Assad?
- Siria, l’UNHCR lancia l’allarme-fondi per i rifugiati
- La Siria tra elezioni e attentati
- Siria. L’esodo è “incontrollabile”
- Curdi: dall’inferno siriano a quello iracheno
- Si scrive Iraq, ma si legge Siria. Hashimi atterra in Turchia
- L’Iraq è pronto ad ospitare il vertice sul programma iraniano. Parola di Teheran
- Iraq. Chi fa affari con Baghdad?
- I curdi iracheni e le “tentazioni” della questione siriana
- Iraq. C’è anche la Cina nel “grande gioco mesopotamico”.