Tensioni sociali in Marocco. Ritorno a Sidi Ifni

Enclave spagnola fino agli anni ’60, la piccola città di pescatori era stata teatro di duri scontri tra la popolazione locale e le forze di sicurezza marocchine nel giugno 2008. Dopo 4 anni, gli Ifnaouis sono pronti a riprendere la lotta mentre lo scenario socio-economico si annuncia ancor più esplosivo.

 

 

 

 

di Jacopo Granci da Rabat

 

Nel regno alawita cresce il malessere e la contestazione sociale. La grave crisi economica (spinta dall’indebitamento e dal saldo negativo della bilancia commerciale) che sta attraversando il paese ha costretto nei mesi scorsi il governo ad adottare misure impopolari quali l’aumento del costo del carburante e la soppressione della Caisse de compesantion – strumento finanziario a disposizione dell’esecutivo per calmierare i prezzi dei prodotti di base, il cui intervento fu determinante nel 2011 per arginare la “primavera marocchina” ed assicurare la pace sociale.

Queste misure, in mancanza di una effettiva redistribuzione della ricchezza e dell’incidenza delle “politiche di sviluppo” annunciate dalle autorità, sono destinate ad aggravare la condizione delle fasce più fragili e marginalizzate della popolazione.

Una popolazione, tuttavia, che non sembra più disposta a nuovi sacrifici o a barattare la propria dignità.

Lo dimostra la tenace resistenza degli abitanti di Imider accampati sul monte Alebban (sud-est) e la ripresa ad oltranza delle manifestazioni da parte dei diplomés-chomeurs (laureati-disoccupati), quotidianamente in marcia nelle strade della capitale dopo la promessa – disattesa – di nuove assunzioni.

Lo dimostrano anche le sollevazioni registrate la scorsa settimana a Tangeri e a Sidi Ifni.

Nell’ex città internazionale gli abitanti del quartiere popolare Ard Doula, scesi in strada  mercoledì 2 ottobre per impedire lo sfratto di una famiglia inadempiente, sono stati attaccati dalle forze di polizia.

Dopo gli scontri, il padre della famiglia sotto sfratto è deceduto all’ospedale (apparentemente a causa delle inalazioni di gas lacrimogeno) mentre i figli e la moglie sono stati arrestati.

Il quartiere ha così conosciuto una nuova ondata di contestazione e rappresaglie di cui tuttora non si conosce l’esito.

Anche a Sidi Ifni, città già teatro di duri scontri tra le forze di sicurezza e la popolazione nel 2008, è stato l’arresto di alcuni attivisti ad innescare sit-in e cortei, sedati solo dopo l’intervento violento degli agenti e gli ennesimi fermi.

Le proteste contro la marginalizzazione economica e lo sfruttamento delle risorse locali da parte delle grandi compagnie (senza effettive ricadute sul territorio), dopo quattro anni, proseguono senza che niente sia realmente cambiato.

La disoccupazione, la mancanza di infrastrutture e prospettive restano le stesse ferite di allora. Ferite che continuano a sanguinare.

Ritorno, con un reportage scritto nel giugno del 2010 ma tuttora di attualità, su una “primavera” soffocata e dimenticata troppo in fretta.

 

 

 

La lenta agonia di Sidi Ifni

 

Le onde dell’oceano si infrangono rumorose sulla spiaggia rossastra. Appena qualche metro di sabbia separa l’Atlantico dalla parete rocciosa su cui è adagiata Sidi Ifni, una cittadina colorata e all’apparenza sorniona, duecento chilometri a sud di Agadir.

La pioggia caduta negli ultimi giorni non sembra aver scoraggiato le carovane di surfisti in rotta verso Dakhla e le rive del Sahara. 

Alle dieci del mattino le vie del centro sono già affollate. E’ domenica, giorno di mercato. Mentre gli uomini se ne stanno seduti nelle terrazze dei bar, quasi intorpiditi dai primi tiepidi raggi di sole, le donne, cariche di borse, provvedono agli acquisti.

Nel mio girovagare senza meta mi imbatto in una piazza circolare, ben curata, su cui si affaccia il municipio e una vecchia chiesa oggi convertita in Palazzo di giustizia. E’ Place Hassan II, ma tutti la ricordano ancora come Plaza de España, il fulcro dell’attività politica ed economica durante il periodo coloniale.

A pochi passi di distanza in direzione del mare si trova la Barandilla, una balaustra in marmo che costeggia il ciglio del promontorio, dove gli Ifnaouis vengono a passeggiare la sera in attesa del tramonto.

Nella toponomastica della città come del resto nella sua architettura, si celano le tracce di un passato non troppo lontano che la popolazione locale fatica a dimenticare.

 

 

 

C’era una volta Santa Cruz del Mar Pequeña

 

Raggiunte le isole Canarie nel XV secolo, gli Spagnoli cercarono a più riprese di conquistare un approdo sicuro nella costa nordafricana. Gli abitanti della regione, i bellicosi Ait Baamrane, resistettero a lungo, prima di cedere alla superiorità iberica nel 1859.

Gli occupanti, che presero possesso del territorio solo nel 1934, trasformarono le poche case sparse lungo il litorale nella “ridente” Santa Cruz del Mar Pequeña.

Questo il nome scelto per il piccolo borgo, costruito in puro stile moresco, oggi conosciuto come Sidi Ifni.

Nella memoria dei vecchi Ifnaouis è ancora scolpita la frase che il generale José Vega Rodriguez pronunciò nel 1969, al momento di rimpatriare le ultime truppe: “Qui lasciamo il meglio di ciò che la Spagna poteva offrire”.

In effetti, al tempo dell’occupazione iberica, Santa Cruz aveva acquisito un ruolo di primaria importanza nella gestione dei domini coloniali nel Maghreb occidentale.

Dalla piccola cittadina dipendeva il controllo politico e militare dell’intera regione del Sahara. La sede del governatore dettava ordini e direttive agli avamposti di Laayoune, Smara e Dakhla.

L’aeroporto permetteva un collegamento costante con le vicine Canarie e l’ospedale della città “era uno dei più efficienti di tutta l’Africa del nord”, come ricordano ancora con vanto gli abitanti del posto.

“Avevamo una radio locale, cinema, scuole reputate e perfino un casinò”, rammenta Makhjuba, una vecchia Ifnaoui dal volto scuro, solcato da rughe profonde.

I suoi stivali di gomma calpestano ogni giorno la poltiglia di fango e pesce marcito che ricopre la banchina del porto.

Dà una mano al mercato dei grossisti, in cambio di qualche orata che rivende poi in paese.

“Al tempo degli Spagnoli la città era dinamica, viva, gli abitanti non subivano discriminazioni e il lavoro non mancava. Quando se ne sono andati, a Ifni non è rimasto nulla”.

Oggi anche i giovani sembrano avere nostalgia per un’epoca che non hanno vissuto. La città, una volta passata in mano marocchina, è stata messa da parte, dimenticata.

Chiuso l’aeroporto, oggi una tetra spianata di rovine e immondizia, scomparsi gli impieghi pubblici e tagliati i fondi per l’ospedale. Dietro la facciata decrepita, su cui si fatica a leggere la scritta “urgenze”, non è rimasto neanche uno specialista.

Solo un giovane medico, affiancato da una manciata di infermieri.

“Lavoriamo in condizioni impossibili: i macchinari sono pochi e obsoleti, a volte non abbiamo nemmeno la benzina per utilizzare l’ambulanza”, confessa il dottore che lamenta l’impotenza della struttura sanitaria.

Quali le ragioni di questo brusco cambiamento? Ismail, seduto su una cassetta di legno all’ingresso del molo, sembra avere una risposta.

“Gli abitanti della zona, appartenenti alla tribù degli Ait Baamrane, sono storicamente considerati dei ribelli. Prima di cedere alla conquista spagnola, i capi della tribù non hanno mai riconosciuto apertamente l’autorità del sultano alawita. Tra gli Ait Baamrane e la monarchia ci sono sempre stati dei rapporti conflittuali”.

Allo stesso tempo bisogna però riconoscere che la tribù dei Baamrane si è battuta a lungo contro gli occupanti iberici, riuscendo perfino ad imporsi sul terreno militare.

Se nel 1969 gli accordi di Fes restituirono al Marocco l’enclave di Sidi Ifni, mentre i domini del Sahara rimasero sotto il controllo di Franco per altri sei anni, fu anche per merito della resistenza.

“Rabat ci ha ringraziato costringendoci all’isolamento e ad una lenta agonia”, precisa Ismail fissando la scogliera schiaffeggiata dalle onde. Oltre ai vecchi rancori, nuovi eventi sopraggiungono a complicare le relazioni già tese tra l’autorità centrale e la lontana Ifni.

“Nel 1971, in occasione della visita reale, qualcuno tentò di uccidere Hassan II mentre stava attraversando in auto il quartiere di Colomnine. Da quel momento il sovrano ce l’ha giurata a morte”.

Come se non bastasse, dopo la partenza degli Spagnoli dal Sahara Occidentale e l’inizio del confronto tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario, alcune famiglie degli Ait Baamrane si sono schierate in difesa della RASD (Repubblica araba saharawi e democratica), sostenendo il governo di Tindouf.

L’ennesimo affronto mal digerito dalla monarchia.

 

 

 

Dal Collettivo al blocco del porto

 

 

All’interno del Café Chez Fatima, a qualche passo da Plaza de España, lo stereo diffonde le note di una lenta melodia gnawa.

Le foto esposte sulle pareti ritraggono la città in bianco e nero all’inizio del secolo scorso: l’imbarcadero utilizzato dagli sagnoli per trasferire merci ed equipaggi sulla terraferma, la scalinata in pietra che dalla Barandilla scende verso la spiaggia e il campo di volo.

“L’unica risorsa a disposizione di Sidi Ifni, una volta tornata sotto il controllo marocchino, era la pesca”, esordisce Fares Hafifi, pescatore e membro della sede locale di Attac.

Il piccolo porto, incastonato tra le rocce del promontorio e le correnti dell’Atlantico, è riuscito per anni a tenere in piedi l’economia dell’intero borgo.

I proventi di una sola barca bastavano ad assicurare la sopravvivenza di due o tre famiglie. Almeno fino alla fine degli anni Novanta.

Poi l’arrivo dei grandi pescherecci provenienti dal nord ha ridotto i marinai della zona in miseria.

Il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli stellari e per molti l’emigrazione è rimasta la sola via d’uscita.

“Chi possiede documenti spagnoli, un caso non raro a Ifni, tenta la traversata in mare fino alle Canarie. Anche con le nostre barchette sgangherate, servono appena tre giorni di navigazione”, spiega Hassan, un disoccupato in possesso dei diplomi di informatico e elettricista.

La città si sta spopolando, sono sempre più quelli che decidono di partire.

“Nel 2005, di fronte all’indifferenza delle autorità, gli abitanti hanno reagito con la formazione di un Collettivo locale”, interviene Mohamed Salah, rimasto in silenzio fino a quel momento. Il Collettivo, di cui fanno parte formazioni politiche, sindacati e associazioni, chiede la fine della marginalizzazione imposta alla regione. “Volevamo far pressione sul governatore perché si preoccupasse dello sviluppo economico e sociale del territorio – conferma Mohamed, uno dei fondatori – così abbiamo organizzato i primi scioperi, avanzando una lista di rivendicazioni indispensabili per il futuro della città”.

Tra le richieste, il completamento dei lavori al porto, la riattivazione dell’ospedale e la costruzione di una via di collegamento tra Ifni e Tan-Tan, cittadina alle porte del Sahara situata cento chilometri più a sud.

“Ci parlano di risorse turistiche, ma di fatto viviamo ancora in una condizione di isolamento. La strada mal ridotta che arriva da Tiznit si trasforma in un sentiero sterrato appena varcato il paese”.

Nell’agosto 2005 la prima mobilitazione, repressa dalla polizia. Le dimostrazioni del Collettivo proseguono, con il sostegno aperto della popolazione. Le autorità prendono tempo, fanno promesse, ma nessun cambiamento sembra concretizzarsi.

“Lo Stato ha continuato ad ignorare le nostre esigenze”, puntualizza Mohamed Salah.

Mentre il Collettivo preferisce non rinunciare al dialogo, pescatori e disoccupati scelgono un’altra via per far sentire la propria voce.

Il 30 maggio 2008 rompono gli indugi e bloccano l’accesso al porto. I camion in partenza verso Agadir non possono lasciare il molo e ai pescherecci è proibito uscire in mare.

La scelta, per quanto drastica, riceve ancora una volta la solidarietà dei cittadini, stanchi delle promesse di Rabat e del declino che costringe centinaia di Ifnaouis all’emigrazione. “La protesta è andata avanti una settimana”, ricorda Fares. Oltre alle vecchie rivendicazioni, i manifestanti reclamavano la creazione di fabbriche per la lavorazione del pesce in loco.

“Tutto il pescato di Ifni se ne va all’estero, in seguito al passaggio nelle industrie di Agadir.

Di questa immensa ricchezza a noi non restano che le briciole”, conclude il pescatore, tra i protagonisti del blocco. Sabato 7 giugno, dopo otto giorni di sit-in, la polizia interviene per soffocare il malcontento.

Per la città si apre uno dei capitoli più neri della sua storia.

 

 

 

Il “sabato nero”

 

L’operazione comincia alle prime luci dell’alba. “La mia casa si trova all’ingresso del paese. Alle cinque di mattina ho sentito i rumori delle camionette e dei mezzi blindati che stavano circondando la città”, riferisce Elkhalil Rifi, membro di Attac.

I vertici militari di Rabat hanno dispiegato circa diecimila agenti per infliggere una punizione collettiva ai “ribelli” di Ifni.

Una prima colonna penetra nelle vie del centro, passando al setaccio casa per casa e seminando il terrore tra gli abitanti. Una seconda colonna imbocca la strada che scende al porto. Lo scontro è inevitabile.

Tuttavia, la sproporzione delle forze in campo rende vano ogni tentativo di resistenza cittadina.

“Il 7 giugno 2008 è ricordato da tutti come il sabato nero. Le forze di polizia hanno picchiato e distrutto a loro piacimento, senza obiettivi precisi.

La loro furia si è scagliata perfino contro le donne, gli anziani e i bambini. Solo chi è riuscito a barricarsi dietro a porte di ingresso ben salde ha potuto impedire il saccheggio e scampare alle violenze”, ricorda Brahim Barra, portavoce della ong.

La sede locale di Attac, una delle prime organizzazioni a schierarsi al fianco dei grevistes, si trova nel centro della città, a metà strada tra il mercato e la moschea.

Al suo interno una decina di attivisti confabulano animatamente, attorno a un tavolo di legno guarnito con thé e pasticcini. “Continuano a ripeterci che gli anni di piombo sono finiti e che il Marocco rispetta i diritti dell’uomo.

Ma il 7 giugno 2008 Ifni ha riassap rato le atrocità di Derb Moulay Cherif (centro di tortura segreto in cui transitavano i detenuti politici fino ai primi anni novanta, nda)”, esclama Rifi voltandosi di scatto.

Miriam, seduta al suo fianco, conferma l’inferno di quelle ore: “Sono stata sequestrata mentre camminavo in strada. Non ne sapevo niente di ciò che stava succedendo. All’interno del commissariato mi hanno presa a schiaffi e manganellate. Poi alcuni agenti mi hanno spogliata…”.

La ragazza si blocca, il volto coperto dalle mani che si rifugiano nervose sotto il foulard portato con eleganza.

Al termine della giornata si contano centinaia di feriti, le scuole della città sono evacuate e trasformate in caserme: nel commissariato non c’è posto per tutti i fermati e gli arresti proseguono per settimane.

“La città è rimasta sotto occupazione militare fino al settembre 2008”, precisa Brahim.

Intanto il dramma di Sidi Ifni fa il giro del mondo. Amnesty International e Human Rights Watch cercano di fare pressione su Rabat. All’interno del regno si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà.

Anche i media ne parlano: al-Jazeera manda in onda i filmati delle violenze.

Dopo tre mesi il Palazzo è costretto ad allentare l’assedio. Richiama i militari e allo stesso tempo cerca di salvare la faccia, scaricando tutte le responsabilità sui “ribelli”.

“La stampa di regime ci ha dipinto come pericolosi terroristi – spiega Barra – ma, al contrario delle accuse che ci sono state rivolte, non abbiamo mai avuto obiettivi separatisti. Vogliamo soltanto veder riconosciuti i nostri diritti di cittadini”.

Nel momento in cui viene tolto l’embargo dalla città, undici persone si trovano ancora in carcere.

Ci sono membri del Collettivo locale, di Attac e dell’associazione dei laureati-disoccupati. Su di loro pendono gravi capi di imputazione.

Nel marzo del 2009 il tribunale di Agadir li riconosce colpevoli, tra le altre cose, di “tentato omicidio, costituzione di banda criminale e armata, manifestazione non autorizzata e distruzione dei beni pubblici”.

Mohamed Issam, membro del Collettivo e militante del CMDH (Centro marocchino per i diritti umani), ha lasciato il carcere di Inezgane il 7 gennaio scorso. “Sono le mie prime settimane di libertà”, puntualizza con un sorriso ironico e lo sguardo chino sul pavimento polveroso.

“Durante il processo alcuni poliziotti hanno testimoniato contro di me. Stando alle loro parole, avrei tentato di ucciderli. Ma io quel sabato ero scappato sui boschi prima dell’inizio dell’operazione”.

Mohamed ha trascorso un anno e mezzo nel penitenziario di Agadir. A lui è toccata la pena più gravosa.

“Le celle traboccavano di gente, ottanta detenuti in uno spazio di circa trenta metri quadrati. Niente docce, solo secchi d’acqua fredda”, riferisce il giovane ifnaoui, che dopo una breve pausa conclude il suo racconto: “per dormire non c’erano materassi e la superficie a disposizione non bastava per tutti. Eravamo costretti a stenderci di lato, uno appiccicato all’altro”.

Il prossimo 24 marzo è atteso il processo in appello. Se la sua condanna venisse aggravata, Issam sarebbe costretto a tornare in prigione. L’incubo di Inezgane continua a tormentarlo.

 

 

 

La “mafia di Tiznit”

 

La brezza dell’oceano soffia leggera sul molo semideserto. Un fitto drappello di barche, lunghe al massimo tre o quattro metri, ondeggia seguendo il ritmo incalzante dei flutti trascinati dall’alta marea.

I pescatori di Ifni non sono usciti in mare, troppo minaccioso per i piccoli scafi a causa della burrasca abbattutasi sulla costa durante la notte.

“Solo i grandi battelli hanno preso il largo dopo il tramonto”, mi informa Fares Hafifi, indicando due pescherecci attraccati sul lato opposto della banchina.  

La grande disponibilità di risorse ittiche e l’eccellente qualità del prodotto presente nelle acque della zona ha attratto le grandi flotte provenienti da Casablanca, Safi ed El Jadida, che dalla seconda metà degli anni novanta si sono impadronite del porto.

Le reti hanno sostituito gli ami e la pesca a strascico ha massacrato i fondali, dove la gran parte delle specie si rifugia durante la riproduzione.

“I pescherecci utilizzano tecniche illegali, come le reti piombate e quelle a maglie minuscole, che catturano tutto il pesce, compreso quello di piccola taglia la cui vendita sarebbe proibita”, spiega Fares.

Chi dovrebbe controllare, la Delegazione dei porti, preferisce chiudere un occhio, poiché parte integrante di quel circuito d’affari che in paese chiamano “la mafia di Tiznit”.

“Un apparato clientelare che ruota attorno all’autorità politica della regione, il governatore di Tiznit – precisa il pescatore – è lui a concedere i permessi agli armatori delle grandi flotte e a lasciare campo libero ai grossisti, che rivendono le sardine di Sidi Ifni ad un prezzo dieci volte maggiore rispetto a quello di acquisto”. Non è solo il mancato guadagno a preoccupare Fares.

“A questo ritmo le nostre acque si spopoleranno. Già oggi non sono più pescose come un tempo. Con i loro metodi l’ecosistema marino rischia di venire compromesso”.

Di fronte a questa eventualità i marinai non escludono nuove mobilitazioni.

Dopo la rivolta sfociata nel “sabato nero”, erano molte le aspettative maturate in seno alla popolazione.

Nonostante la repressione e le condanne, infatti, i membri del Collettivo sono riusciti a conquistare la maggioranza in consiglio comunale alle elezioni del 2009. 

Ma i poteri della giunta restano fortemente limitati dall’autorità del governatore, rappresentante in loco del ministero dell’Interno.

In concreto nulla sembra essere cambiato, come conferma il membro di Attac: “la situazione al porto è ancora drammatica. Per rinnovare l’attrezzatura i pescatori si sono coperti di debiti, che impiegheranno anni a colmare con i loro magri guadagni”.

La lezione impartita dal regime a colpi di manganello non spaventa i “ribelli” di Sidi Ifni, che si dicono “pronti a riprendere la protesta, se necessario con un nuovo blocco”.

La città è ormai stanca di aspettare un futuro che da quarant’anni tarda ad arrivare.

 

 

9 ottobre 2012 

 

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