Trionfo a Cannes per il regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, che dedica il premio “alla bella gioventù francese” e a quella della “sua Rivoluzione”. Tra le maglie di una storia d’amore omosessuale, la voglia di uguaglianza e giustizia di una “generazione maltrattata”.
di Cecilia Dalla Negra
Nelle stesse ore in cui, nel centro di Parigi, migliaia di persone manifestavano contro la legge sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, e in Tunisia si infiammava la protesta intorno al ‘caso Amina’ – la giovane ‘Femen’ perseguitata per aver usato la nudità come strumento di battaglia politica – il 66° Festival del Cinema di Cannes assegnava la Palma d’Oro 2013 a un film destinato a suscitare polemiche, e ben oltre i confini francesi.
È “La Vie d’Adèle“, del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, lungometraggio che racconta la storia d’amore e di passione tra due giovanissime donne, rappresentate sul grande schermo da Adele Exarchopoulos e Lea Seydoux.
Pochi gli anni descritti in oltre tre ore di pellicola, seppur cruciali: quelli dell’adolescenza di una quindicenne che conosce se stessa, e insieme la sessualità, la gioia di vivere, la scoperta e la perdita dell’amore. E poco dovrebbe contare se è quello che la lega a un’altra donna.
Dovrebbe, ma così non è (e non sarà), in un’inedita convergenza tra le due patrie di questo regista – di origine tunisina ma sbarcato ancora bambino a Nizza – e dunque tra un Occidente che si vorrebbe aperto e un Maghreb alle prese con una transizione densa di dibattiti e contraddizioni.
Forse anche per questo il film, successo di critica a Cannes e vero ‘caso’ cinematografico che ha appena iniziato a far discutere, viene da più parti definito una “bomba a orologeria” pronta a deflagrare.
Per mettere in discussione, prima di tutto, concezioni e stereotipi ancora ben saldi in immaginari collettivi che concepiscono l’amore fisico tra due donne come aberrazione, quando non relegato alla sfera, a tratti voyeristica, della pornografia.
Ed è intorno alle scene che non fanno segreto della carnalità che esplode la polemica: tra la consapevolezza delle difficoltà che incontrerà la pellicola nell’essere presentata in Tunisia, e le criticità avanzate da Julie Maroh, autrice del cartone animato “Le bleu est une couleur chaude“, riadattato per il grande schermo da Kechiche.
Rese pubbliche attraverso il suo blog, in cui accusa il regista di aver troppo indugiato “su scene di sesso che hanno l’effetto di avvicinarsi più alla pornografia classica che all’amore tra donne”.
Kechiche, che la migrazione e il senso di alterità al proprio contesto l’ha vissuto sulla pelle, ha voluto dedicare il premio “alla bella gioventù di Francia da cui ho imparato lo spirito di libertà. Ma anche a un’altra gioventù, quella della Rivoluzione tunisina, per la sua aspirazione a vivere liberamente, esprimersi liberamente, amare liberamente”.
Ed è qui che l’attualità entra prepotentemente in una pellicola che, in un altro tempo e in un altro luogo, avrebbe potuto raccontare semplicemente una storia d’amore.
“Anche se immaginiamo a fatica il nostro ministro della Cultura del governo Ennahda felicitarsi con il regista”, scrive Mag14, “il film rischia di suscitare ben altro che una polemica legata al ‘sessismo’ se verrà proiettato nelle nostre sale. Soprattutto in un contesto tunisino in cui lo stesso campo che si definisce ‘modernista’ s’indigna (ancora) per la vicenda di Amina”.
Un sospetto subito confermato dalle dichiarazioni di Brahim Chioua, direttore generale di Wild Bunch, casa produttrice del film, che dalle pagine di Elle ha fatto sapere: ‘sarà distribuito e proiettato in Europa, in Russia e fino in Australia’.
Ma “La Vie d’Adèle” arriverà in Tunisia e più in generale in Medio Oriente “per la diffusione riservata ai festival, e non alle sale cinematografiche” e in versione leggermente censurata, ‘liberata’ da qualche scena di sesso troppo esplicita.
“L’opinione pubblica tunisina è divisa”, spiega Nawaat: “Alcuni pensano che, ancora una volta, perché un arabo ottenga un riconoscimento internazionale sia necessario ‘provocare’ trattando un tema delicato. Altri invece si dicono fieri di un ‘figlio del paese’ che ha dedicato il suo premio alla nostra gioventù”.
In realtà “si tratta di un soggetto ancora tabù per molte società occidentali, che dire quindi della nostra, arabo-musulmana, conservatrice e machista?”.
Eppure, la vera chiave di lettura sembra andare ben oltre la sessualità esplicita o l’amore carnale tra due donne. È quella che parla di ‘diversità’, che sia imposta dalla società o interiorizzata da chi la vive, ben rappresentata dalla scena in cui la protagonista rivela all’amata che il suo cognome, in arabo, significa ‘giustizia’.
“Sembra quasi di vedere quello che è sempre mancato a questo giovane regista tunisino: il trattamento paritario da parte delle istituzioni di un bimbo sbarcato in Francia dall’altra parte del Mediterraneo”, scrive nella sua critica Jeune Afrique.
“Di qui forse la sua ricerca attraverso il cinema di una verità e un’umanità nascosta dietro maschere e apparenze, per ritrovare un barlume di speranza, come un balsamo per le ferite di una gioventù violata”. Da una parte e dall’altra del Mediterraneo.
Foto by Bex Walton (Flickr) [CC-BY-2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons
2 giugno 2013