Israele. In arrivo nuove misure contro gli ‘infiltrati’

Privati della libertà per il solo fatto di essere tali, i migranti africani vengono considerati ‘infiltrati’, e i reati minori di cui si macchiano vengono puniti con maggiore severità rispetto ai cittadini israeliani. Nel carcere di Saharonim, intanto, prosegue lo sciopero della fame. 

 

266 km di barriera di filo spinato al confine con il deserto del Sinai per dare loro il benvenuto, una detenzione (immediata) della durata minima di 3 anni: chi oltrepassa quella linea per entrare in Israele viene automaticamente considerato un “infiltrato”. A ciò va aggiunto che le recenti modifiche alla legge sulla prevenzione dell’infiltrazione  vietano la possibilità di inviare denaro alle famiglie nei paesi di origine, oltre a limitare la somma che possono portare con sé al momento del ritorno.

Queste le misure in vigore e che rendevano di fatto già impraticabile l’accettazione di una richiesta di asilo politico.

Eppure, non erano ancora sufficienti: per contrastare “l’emergenza immigrazione”, le autorità israeliane hanno agito nuovamente. Questa volta per via diplomatica, e in nome “dell’ordine pubblico”. 

 

Diplomazia e giustizia

Risale a pochi giorni fa la notizia che Tel Aviv sarebbe vicina a siglare un accordo con alcuni Stati africani per la fornitura di armi, addestramento militare  e aiuti nell’ambito dell’agricoltura in cambio dell’accettazione di “decine di migliaia di migranti”. Una novità rispetto a quanto trapelava già lo scorso mese dalle pagine di Haaretz, che il 3 giugno riportava diversamente i termini dell’intesa, consistenti nell’acquisto da parte dei paesi africani (al costo di 8mila dollari a persona) di migranti “adeguatamente formati in tecniche agricole”.

Dunque, nella nuova formulazione non verrà scambiato nulla, ma si concretizzerà il desiderio di Israele di espellere i migranti attraverso un flusso unidirezionale di persone, merci e servizi. Tutto a spese dello Stato. 

Secondo il quotidiano Yedioth Aharonoth, Hagai Hadas, consulente personale di Netanyahu e responsabile dei negoziati, sarebbe in procinto di risolvere gli ultimi dettagli con almeno tre paesi, di cui non è stata resa nota l’identità.  

Una possibilità che si inserirebbe nel solco di quanto già accaduto lo scorso febbraio quando, come riporta Haaretz, Israele aveva rimpatriato circa mille cittadini sudanesi grazie alla collaborazione di uno Stato terzo – anche in questo caso rimasto anonimo – e senza informare l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), contrariamente a quanto previsto dalla Convenzione Onu sullo status dei rifugiati, cui Israele aderisce. 

La  notizia di questa mossa diplomatica, che in caso di esito positivo potrebbe ridurre notevolmente la presenza dei migranti africani in Israele – circa 55mila, di cui 2.400 rinchiusi nel carcere di Saharonim a sud del Negev –, non è l’unica a rendere ancora più precaria la loro protezione. 

La scorsa settimana il Procuratore generale Yehuda Weinstein ha infatti indicato le nuove procedure per quanto riguarda le pene per i reati minori commessi dai migranti, che potranno essere arrestati per “periodi prolungati” di un minimo di 2 anni anche senza evidenza di reato.

Un inasprimento della pena rivolto ad una specifica comunità che, secondo Weinstein, sarebbe dovuto ai crescenti timori registrati in alcune aree urbane in cui i migranti sono concentrati, per quelli che sono stati definiti “reali pericoli per l’ordine pubblico”. Come ad esempio i furti di cellulari o biciclette o ancora la falsificazione dei documenti necessari per ottenere il permesso temporaneo di protezione. 

Tutti commessi dagli “infiltrati”, termine giuridico reiterato nel comunicato della Procura, e ribadito anche dal ministero della Giustizia, che ha definito le nuove procedure un adeguato equilibrio tra “la necessità di una risposta pubblica all’attività criminale della popolazione degli infiltrati” e il crescente “sentimento di insicurezza dei cittadini israeliani”. 

Di tutt’altro avviso è il direttore della Ong Hotline for Migrant Workers, Asaf Weitzen, secondo cui queste misure confermano “l’abbandono dello Stato di diritto in Israele”.

“Se lo Stato intende davvero tutelare i diritti umani – ha affermato Weitzen – o non ha alcuna idea di cosa siano i diritti o di cosa sia umano”.

Parole condivise da Natasha Roth, ricercatrice presso l’African Refugee Development Center, organizzazione no-profit nata nel 2004 a partire dall’iniziativa di alcuni migranti africani e cittadini israeliani per assistere i richiedenti asilo nel paese, che definisce la situazione degli ‘infiltrati’ un vero e proprio “teatro degli orrori”. In un articolo pubblicato dal sito di informazione indipendente +972 mag, Roth riporta che in una sola settimana le nuove procedure della Procura hanno sortito l’arresto di almeno 500 migranti africani accusati di reati minori. 

 

Intanto, nel deserto…

Intanto, nella prigione di Saharonim, a pochi chilometri dal confine con l’Egitto, i funzionari dell’Administration of Border Corssing hanno iniziato ad applicare un altro tipo di misura, questa volta in materia di rimpatrio dei migranti. 

Annunciate da oltre due mesi e autorizzate soltanto due settimane fa, consistono nel proporre ai migranti a cui viene negata la richiesta di asilo due possibilità: rimanere in carcere o essere “volontariamente” rimpatriati, firmando un documento ufficiale in cui viene espressa esplicitamente la loro volontà di tornare al proprio paese di origine.

Opzione, questa, che fino ad oggi avrebbero scelto già  “centinaia di detenuti” e contro la quale si erano scagliate organizzazioni per la protezione dei diritti umani, tra cui a Hotline for Migrant Workers e Amnesty International. 

A loro parere infatti non ci sarebbe niente di volontario dal punto di vista dei prigionieri. Perché  l’idea di tornare nel proprio paese a spese dello Stato ospitante viene presentata come l’unica possibilità per uscire dal carcere e dalla condizione di illegalità che li caratterizza per il solo fatto di aver richiesto ospitalità e protezione. E davanti alla quale il rimpatrio appare piuttosto come una scelta obbligata.

Una condizione insostenibile contro cui alcuni dei 2.400 detenuti di Saharonim hanno deciso di reagire attraverso l’unico mezzo a loro disposizione: il loro corpo.

Da circa due settimane infatti 353 tra sudanesi ed eritrei – nazionalità che compongono la quasi totalità dei migranti in Israele – sono entrati in sciopero della fame contro quella che è a tutti gli effetti una detenzione amministrativa, un arresto senza un processo. Un’azione che probabilmente ha colto di sorpresa le autorità israeliane che, a partire dal 30 giugno, stanno vietando l’accesso alla prigione di Saharonim a tutti i non autorizzati, mezzi di informazioni e rappresentanti di Ong inclusi. 

In base alle ultime notizie, riportate da un inviato del quotidiano Haaretz, Yaniv Kubovich, il personale dei servizi carcerari israeliani avrebbe trasferito gli scioperanti della fame in un’altra ala della prigione in modo da impedirgli qualsiasi contatto con l’esterno e con gli altri detenuti. In questo modo alcuni (113) avrebbero ripreso a mangiare dopo due giorni, ma altri (230) avrebbero iniziato a dire ‘no’ a cibo e acqua per protestare contro la decisione del trasferimento. 

 

Foto by Beeri.omri (Template:Physicians for Human Rights-Israel) [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

 

July 12, 2013di: Stefano NanniIsraele,Articoli Correlati: 

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