Centinaia, migliaia. Nascosti nelle aree industriali del porto di Patrasso, nella vecchia stazione di Corinto, nei ‘buchi urbani’ di Atene. Sono i migranti che ha conosciuto e fotografato Alessandro Penso, vincitore del World Press Photo 2014, in viaggio da Bari a Bruxelles in questi giorni.
Via dei Fori Imperiali, Roma. Nella strada affollata di turisti, sotto il sole estivo, spunta un camion, dalle proporzioni insolitamente grandi per affiancare l’Altare della Patria e il Colosseo. Impossibile non notarlo, difficile resistere all’invito ad entrare, soprattutto dopo aver letto a caratteri cubitali “The european dream. Road to Bruxelles” che si staglia sul fianco.
Di che sogno si tratta? E poi, un sogno in un tir? A Bruxelles non è più comodo arrivarci con l’aereo?
Domande leggere che assumono una forma più interessante una volta entrati. Ed è in questo momento che si scopre di cosa si tratta.
Una mostra fotografica itinerante con le foto di Alessandro Penso, vincitore del World Press Photo 2014, allestita in un tir che si muove dall’Italia verso la capitale dell’Unione Europea, facendo tappa in otto città: realizzata dal fotografo, in collaborazione con il Festival internazionale di fotografia Cortona on The Move e con l’UNHCR, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, “The European Dream. Road to Bruxelles” è partita lo scorso 17 giugno da Bari, si è fermata ad Ancona ed è giunta nel centro di Roma, all’inizio dei Fori Imperiali, dove è rimasta fino a giovedì 26 giugno.
In questi giorni proseguirà verso il Nord Italia, sostando a Firenze, Milano, Ginevra, Strasburgo, per arrivare a Bruxelles. Tutto, sottolinea Penso, “grazie agli sforzi economici e materiali di privati, a partire dai giovani di Cortona e dal Fai Service, cooperativa che eroga servizi nel settore dell’autotrasporto. Le istituzioni non ci sono, ad eccezione dell’UNHCR, fondamentale per raggiungere le grandi piazze.”
Le foto sono poche, ma bastano per trasmettere il senso di questo “sogno”. E meritano assolutamente una discussione più ampia, più approfondita con il loro autore. Osservatorio Iraq lo contatta subito. Il fotografo, con grande disponibilità, ci concede un’ora nella quale parliamo tanto e di tante cose. Della mostra, della situazione a Patrasso, della percezione delle migrazioni nella nostra società, del “sogno”. Di seguito, vi riportiamo le sue #ParoleDautore .
Perché la scelta del tema delle migrazioni, da portare in giro su un tir, in Italia fino alle capitali dell’Unione Europea?
Sono ormai diversi anni che seguo le condizioni dei rifugiati in Europa, scoprendo in un primo momento le realtà di Malta e successivamente la situazione lavorativa dei migranti in Italia, in particolare quella nel settore agricolo. Quando scoppiò il caso Rosarno, di cui i media parlarono come di uno scontro “etnico, culturale”, ho sentito il bisogno di partire e andare a vedere cosa stesse succedendo realmente, e soprattutto parlare con le persone.
Questo per introdurti al fatto che la mia attenzione, quando parlo di migrazioni, è sempre posta agli aspetti umani, ordinari, nel senso di tornare a parlare di cose semplici della vita, sia quella dei migranti che di coloro che cercano di accogliere in Europa e in Italia.
Questo tuo ultimo lavoro parla di un sogno. Quale sogno hai cercato di raccontare?
La parola “sogno”, o il verbo “sognare”, sono per me centrali nel significato di migrazione. Se io dovessi descrivere che cos’è un migrante, indipendentemente da tutti i problemi e le diverse sovrastrutture mentali di ognuno di noi, ecco, secondo me il migrante è un sognatore. E’ ovvio che se parliamo di un migrante che scappa da una guerra definirlo “sognatore” può stonare.
Però in realtà se andiamo a pulire tutti gli aspetti, negativi e positivi, di una migrazione, troviamo che una persona che si mette in viaggio è una persona che sogna. Sogna una vita migliore, felice, anche se il viaggio è duro e terribile, come nell’Odissea, in cui il viaggiatore sa che è faticoso ma alla fine spera in un arrivo più facile. In fin dei conti un migrante sogna una cosa molto semplice: vivere una vita serena e tranquilla.
Questo aspetto nel mio lavoro è molto importante, soprattutto, nella mia ricerca della semplicità, come dicevo prima, per presentare alle persone un linguaggio semplice, che sia in grado di raggiungere e far riflettere tutti. Da quando ho scelto le migrazioni come soggetto delle mie foto ho deciso che volevo togliere tutti i filtri del mondo professionale a cui appartengo, dove spesso ci si concentra più ai dettagli tecnici che alle storie che si intende raccontare in una foto.
Volevo pulire molto il linguaggio, così come le foto, farle nel modo più pulito possibile. Avevo voglia di parlare di sogni, di vita semplice, di giovani ragazzi in viaggio. Infatti le foto della mostra fanno parte di un lavoro più grande che ho intitolato “Giovinezza negata”, anche per non utilizzare la parola “migrante”. Volevo mostrare che in una parte del mondo ci sono ragazzi che stanno perdendo la possibilità di vivere la parte migliore della loro vita.
La semplicità in effetti si riscontra molto nelle foto. Eppure, le condizioni in cui si ritrovano a vivere i migranti in Grecia sono tutt’altro che facili…
Assolutamente, ma è proprio perché sono così complesse le condizioni, le leggi, le strutture di accoglienza e di respingimento che ci sono in Europa che adotto un approccio di questo tipo. Per me l’importante è avvicinarsi alla gente comune, che non si interessa a questi temi per lavoro o in modo approfondito. E questo lo puoi fare incuriosendo le persone, mostrando loro aspetti ordinari, che danno in un secondo momento lo slancio per farsi e fare delle domande.
Da lì si può partire per affrontare i problemi reali e in questo modo andare a smentire le categorie di un certo linguaggio politico populista che gioca su di essi, quali “invasione”, “la gente che viene a rubare il nostro lavoro”, il mito secondo cui “in Italia accogliamo tutti, e ne accogliamo troppi”, mentre tantissimi sono deportati e sempre più se ne vanno dal nostro Paese.
L’invito alla semplicità sembra venire anche dal tir che ospita la mostra, che inevitabilmente, posizionato nelle strade principali delle grandi città che sta toccando, incuriosisce le persone ad entrare. Ma perché il tir? Cosa rappresenta?
Il primo significato che ha, e che all’inizio probabilmente sfugge per poi essere chiaro una volta usciti dalla mostra, è che il tir è il mezzo più utilizzato per entrare e spostarsi in Europa. Sempre più migliaia e migliaia di persone evadono le leggi che limitano la migrazione attraverso un tir, spesso al suo interno, al buio nel container.
Soltanto questo fatto all’inizio sembra un paradosso: perché nell’Europa libera, unita, dell’Erasmus e della sola carta d’identità per spostarsi bisogna nascondersi? Perché dalla Grecia per arrivare in Italia devo rischiare la vita dentro o addirittura sotto un camion?
Da qui l’idea, o meglio la provocazione, di mostrare in modo legale una realtà per l’Europa illegale. E poi chi si immaginerebbe un tir di queste dimensioni in Via dei Fori Imperiali, a Roma, o nel centro di Firenze? Le città previste dalla mostra, infatti, oltre al fatto di ripercorrere in parte il tragitto dei migranti, sono state scelte perché permettevano di raggiungere più persone possibili, anche gli stessi turisti.
Un’altra ragione per cui è stato scelto il tir è per mostrare l’importanza di chi lo guida e delle ditte di appartenenza per i migranti. Non è un caso infatti che il Fai Service, ma anche altre ditte di autorasposrto come Petra, Menci, abbiano dimostrato grandissima sensibilità nel sostenerci. Ci si dimentica infatti che anche loro sono vittime del sistema di non-accoglienza europeo: quando la polizia ferma i camion alla frontiera e vi trovano i migranti spesso i conducenti e le ditte sono accusate di favoreggiamento dell’immigrazione.
Sempre a proposito del tir, c’è una foto della mostra che colpisce particolarmente: ritrae appunto un tir in marcia e dei giovani in corsa che tentano di aggrapparvisi …
Oltre a quella ne ho fatte altre che ritraggono questo gesto, che trasmette già da solo il senso della mostra. Tantissimi giovani muoiono provando a fare questo salto, altri perdono la vita perché rimangono schiacciati dal tir stesso quando sale sulla banchina dei traghetti. D’altro parte sono altrettante quelle persone che riescono ad uscire dalla Grecia in questo modo, oppure riuscendo ad entrare.
Ci sono infatti dei punti sottostanti al tir dove c’è abbastanza spazio per “ospitare” una persona. Tuttavia questi punti vanno conosciuti e studiati attentamente, perché basta una manovra poco precisa che può essere fatale. Una delle cose che più mi ha colpito visitando Patrasso e Corinto è che in alcune fabbriche dove si rifugiano i migranti ci sono i fogli illustrativi delle sagome dei tir che mostrano in dettaglio le aree “sicure”.
Ma perché dunque la Grecia?
C’è stato un momento, nel 2011, in cui ho sentito il bisogno di andare in Grecia, ovvero quando, dopo essere stato a Malta e Rosarno, ho scoperto che punto centrale di transito delle migrazioni in Europa si trovava proprio lì. Oltre l’80% dei migranti che arrivano in Europa passano per la Grecia. Sempre nel 2011, a fronte di questi dati, sono state rifiutate quasi tutte le richieste di asilo – per l’esattezza il 99,5%.
Questi numeri andavano indagati e studiati da vicino, anche se negli ultimi anni sono cambiati, e proprio a causa di rifiuti nel rilasciare i permessi e di leggi più restrittive i flussi migratori hanno interessati altre rotte, pur restando la Grecia un punto fondamentale.
Quanto tempo è durato il tuo lavoro e qual è stato il rapporto avuto con i protagonisti delle tue foto, i migranti?
Il modo di lavorare è stato quello di cui ho parlato: ho cercato di essere lontano dalle istituzioni, sia per quanto riguarda le autorità locali che i centri di accoglienza, sia le associazioni e le organizzazioni non governative che lavorano in favore dei migranti. Mi sono ovviamente rapportato con loro, perché il mio è stato anche un lavoro giornalistico, ma l’obiettivo era stare con i ragazzi, capire le loro condizioni, le loro ragioni, capire cosa mangiavano, come e dove dormivano.
Era importante trasmettere a loro che non volevo fare un reportage “mordi e fuggi”, ma capire davvero com’è la vita di un migrante in Grecia. Questo mi ha permesso di entrare in intimità con i giovani, con i quali si è instaurato un rapporto di fiducia. Alcune scatti fatti ai migranti da molto vicino sono stati possibili grazie a questo rapporto, altrimenti a Patrasso fotografarli mentre saltano sui tir o sui traghetti è molto facile da lontano, perché scene simili si ripetono molto spesso.
Non sono mancati momenti di diffidenza o di scontro. Io però ho insistito nel far capire che il mio obiettivo era stare con loro, perché solo così potevo capire le loro vite. Per questo la cosa più bella, dopo un anno di lavoro e con il progetto che prendeva piega, è stata quando la macchina fotografica era scomparsa fisicamente tra me e loro, e loro mi dicevano: “Alessandro, guarda questo o quello” e non “Fotografo questo o quello”.
Ciononostante sulla questione delle migrazioni la parte che continua a fare più notizia è il barcone di Lampedusa, ancor di più se affonda. Perché?
I barconi fanno più notizia perché, secondo me, c’è sempre quest’ipocrisia di voler mostrare disdegno e compassione di fronte alla morte.
Lo faceva già Berlusconi vent’anni fa quando andava a piangere sui barconi degli albanesi, mentre poi ha firmato l’accordo con la Libia per respingere i migranti. Anche il barcone dunque diventa uno strumento di comunicazione, seguito poi da atti politici, come la richiesta all’Europa di aiuto da cui però scaturisce un’operazione militare come Mare Nostrum. Con questo non voglio dire nulla contro la nobiltà dell’operazione che sta salvando tantissime vite umane, ma ciò non toglie che si stia usando uno strumento militare mentre si rifiuta di aprire un corridoio umanitario. Sarebbe molto più interessante ed efficace, probabilmente, se parte di questi soldi vengano usati per dare istruzione, case, accoglienza ai migranti.
Perché poi d’altro canto ci si indegna quando un migrante compie un gesto folle ammazza con un piccone un italiano, dimenticando spesso i motivi che possono indurre le persone a fare gesti folli, che hanno a che vedere con le loro condizioni di vita. Il politico, in quanto tecnico, deve porsi la domanda: cosa faccio fare a queste persone ora che sono in Italia? Se queste persone vengono lasciate in strada, e mi riferisco in particolare ai migranti forzati, non a quelli economici, senza nulla e abbandonate a se stesse allora forse mi dovrò aspettare che ci possano essere dei problemi…
Quali sono state fino ad ora le reazioni da parte del pubblico? Come giudichi la percezione culturale sui migranti all’interno della società italiana?
Le reazioni sono state diverse e tutte interessanti. In particolare ricordo una ragazza che esordì dicendo: “Io non sono razzista, ma…”, con la quale ho avuto un dialogo molto intenso, anzi una vera e propria discussione. Questo mi ha fatto pensare che in un contesto di crisi economica, guardando i messaggi populistici di Grillo o della Lega, qui in Italia, ma anche in Grecia, e in generale nei paesi del Mediterraneo, secondo me si sta inserendo nel modo di pensare delle persone la paura della povertà altrui. Ed è ovviamente una paura su cui certi politici giocano, in modo perfido.
Perché dietro lo slogan “ci rubano il lavoro”, c’è un messaggio che passa sempre in secondo piano, ovvero la voglia di lavorare, mentre risalta la paure dal termine “rubare”. Se si insistesse sul fatto che ci sono persone che vogliono lavorare non si trasmetterebbe un messaggio più positivo? Da qui si potrebbe partire con un altro approccio, considerando che di lavoro ce n’è poco in generale in Italia – cosa che non ho smesso di ripetere ai migranti in Grecia – e magari sviluppare un minimo di solidarietà. Senza considerare che sempre più persone non vogliono rimanere qui, anche se non se ne parla mai nei mezzi di informazione convenzionali. Così come non si parla dei tanti soldi che l’Unione Europea da all’Italia per gestire le migrazioni, della Convenzione di Dublino, di Dublino II, di quella di Ginevra.
Per fortuna però ci sono movimenti, gruppi, realtà politiche indipendenti e nate dal basso, come Melting Pot, azioni come No Borders Train, lavori cinematografici come quelli di Paolo Martino, che sono mossi dalla semplicità e dall’empatia di persone che vogliono fare qualcosa per risolvere certi problemi. E soprattutto che hanno la lucidità di portare avanti battaglie per i diritti dei migranti che le istituzioni ignorano o non vogliono garantire.
June 29, 2014di: Stefano Nanni