Lontano dall’immagine monolitica che erroneamente accompagna le petrolmonarchie, il rapporto di forza nella regione – proteso nell’ultimo decennio a favore del Qatar – sembra ora tornare in equilibrio, permettendo alla casa saudita di riprendere l’iniziativa.
Il 3 luglio 2013 Mohammed Morsi, primo presidente egiziano eletto democraticamente, viene deposto dall’esercito in seguito ad un movimento di protesta che mobilita alcuni milioni di persone nelle piazze del paese. Sebbene la cifra reale della contestazione sia stata esagerata, rimane che una parte non trascurabile della popolazione ha espresso, alla fine del giugno scorso, una crescente esasperazione figlia del biasimo accumulato nei confronti del partito della Fratellanza musulmana, giunta al potere un anno prima.
Il colpo di Stato militare effettuato dal generale Abdelfatah al-Sisi è stato sostanzialmente ben accolto dalle cancellerie occidentali. Da Stati Uniti ed Ue le condanne restano timide e, nonostante qualche esitazione, il nuovo governo viene rapidamente riconosciuto. Al di là delle capitali europee, alcuni gioiscono apertamente della caduta di un esecutivo dominato dagli islamisti. Bashar al-Asad e il premier israeliano non perdono tempo per dichiararsi sollevati e felicitare l’esercito egiziano per il suo colpo di mano.
Ma è dal Golfo che arriva un ulteriore sostegno, tanto massiccio quanto inatteso. Capitanate da Riyadh, l’insieme delle petrolmonarchie elogia il cambio di regime apportando assistenza finanziaria, appoggio politico e supporto mediatico.
L’unanimità regionale è infranta però dall’atteggiamento del Qatar che, pur riconoscendo la nuova dirigenza del Cairo, esprime tutto il suo distacco di fronte alla destituzione di un governo con cui aveva tessuto solidi legami.
Il ritardo con cui è avvenuto il riconoscimento, d’altronde, è sintomo del malessere vissuto dalle autorità qatariote nel constare il fallimento della loro strategia diplomatica, pazientemente confezionata negli ultimi anni e in cui l’Egitto di Morsi rivestiva un ruolo centrale. Lo scossone ha acquisito ulteriore peso data la concomitanza della caduta del presidente egiziano con l’abdicazione dell’emiro Hamad Ben Khalifa al-Thani in favore del figlio Tamim, attuale guida del paese.
E’ quindi in un contesto di forte agitazione politica che bisogna collocare il putsch egiziano, il quale ha permesso di accendere i riflettori sulla cesura che attraversa le monarchie del Golfo.
Lontano dall’immagine monolitica che accompagna le petrolmonarchie, ritenute “unite” da una stessa visione rigorista dell’islam, la crisi egiziana sembra così aver innescato un riposizionamento regionale che – dall’avvento delle “primavere” – sembrava propendere indiscutibilmente a favore del Qatar.
L’emirato aveva saputo trarre profitto dagli sconvolgimenti in atto nella regione grazie ad un impegno diplomatico serrato al fianco dei nuovi governi che ha fatto di Doha un punto di riferimento per tutto il mondo arabo. E’ proprio questo dinamismo ad aver subito una battuta d’arresto con la destituzione di Morsi, fatto che allo stesso tempo ha permesso all’Arabia Saudita di riprendere in mano l’iniziativa ponendosi al centro dei principali dossier. Tale rottura tra le due monarchie è l’illustrazione di un antagonismo ideologico e diplomatico più profondo, di cui è necessario tracciare le cause e gli antecedenti.
L’opposizione ideologica e la concorrenza nella leadership
E’ ormai noto che l’ascesa al potere di Hamad al-Thani nel giungo del 1995 aveva irritato non poco la famiglia reale saudita. Riyadh aveva intrattenuto, fino ad allora, relazioni solide e amichevoli con il suo piccolo vicino, che accettava senza battere ciglio di delegare il ruolo di leadership regionale ad uno Stato che si presentava “naturalmente” come un peso massimo.
Ma il ruolo di satellite non corrispondeva ai sogni di grandezza dell’emiro Hamad, che ha preso le redini del paese animato da un disegno differente: far uscire il Qatar dall’orbita saudita e incarnare un nuovo modello.
Le relazioni si fanno subito tese e il fallimento del tentativo di colpo di Stato, nel febbraio 1996, appoggiato dai sauditi contribuisce a radicalizzare le posizioni del giovane emiro che da allora intraprende una politica di confronto permanente con il “fratello maggiore”. Che si tratti della postura adottata con l’Iran, il rapporto con Israele o l’utilizzo del canale satellitare al-Jazera come strumento di opposizione, il panorama regionale del Golfo – durante la prima decade del 2000 – è perennemente occupato da questo duello, che vede emergere Doha come un attore sempre più in primo piano nel confronto.
Con l’irruzione delle rivolte arabe questa affermazione si consolida. Doha riconosce la congiuntura favorevole, l’onda da cavalcare senza esitazioni.
A differenza dell’Arabia Saudita, la dinastia al-Thani non teme l’estensione delle sollevazioni sul proprio territorio, vista anche la scarsa presa delle opposizioni che non minacciano le fondamenta del regime. Diversa è la situazione del grande vicino, che dalla prima guerra del Golfo ospita al suo interno una fronda dissidente, destinata ad espandersi con l’avvicinarsi del vento rivoluzionario alla penisola.
Remissiva di fronte ad un movimento dalla portata storica che in poche settimane si è sbarazzato di governi autoritari e repressivi di Ben Ali e Mubarak, Riyadh non può che constatare l’ascesa del Qatar, che approfitta dei vuoti causati da questo movimento per presentarsi come leader del mondo arabo.
Tuttavia, questo momento storico non è destinato a durare a lungo.
Fin dall’inizio dell’offensiva in Libia si assiste ad un sovvertimento della percezione e l’emirato degli al-Thani si vede accusare da una parte dell’opinione pubblica araba di fungere da suppletivo ad una campagna militare occidentale, da molti assimilata ad una moderna “crociata”.
In Siria, il rapido sostegno ai rivoluzionari sommato alle dichiarazioni dell’emiro che invoca un intervento armato per mettere fine al bagno di sangue, contribuisce a piazzare il Qatar nella lista dei “falchi”. In Egitto il sostegno economico di Doha, che vola in soccorso al governo guidato dai Fratelli musulmani vincitori delle diverse consultazioni elettorali, fa apparire l’emirato come il finanziatore per eccellenza degli islamisti a discapito delle altre forze politiche. La stessa immagine gli viene accordata in Tunisia dove esistono saldi legami tra una parte dell’apparato di Ennahda e le autorità qatariote.
Di fronte a questo attivismo che relega la casa saudita al ruolo di spettatore, Riyadh decide di uscire dall’impasse a partire dall’inizio del 2013. L’evoluzione della crisi siriana e l’inversione del rapporto di forze sul terreno, materializzatosi con l’intrusione massiccia delle milizie di Hezbollah e dei pasdaran iraniani, offre l’occasione all’Arabia Saudita di riprendere in mano l’iniziativa a spese del Qatar.
La postura diplomatica degli al-Saud, dal compimento della rivoluzione iraniana, è letteralmente ossessionata dal “pericolo sciita” e dalla possibilità di vedere l’esperienza di Teheran esportata in altre zone della regione.
Dopo il trauma iracheno che ha visto Baghdad avvicinarsi all’orbita iraniana, le autorità saudite sperano di vedere il regime di Asad – chiave di volta dell’arco sciita che va da Teheran al Libano – sprofondare sotto i colpi dell’opposizione. Ma il sodalizio di Damasco con le forze sciite libanesi ed irachene – oltre a quelle iraniane – nel contrattacco repressivo, costituisce un punto di svolta inatteso.
Riyadh prende coscienza del pericolo costituito da una riabilitazione del regime di Bashar, da interpretare come una nuova vittoria del rivale iraniano. Da questo momento l’Arabia Saudita rende noto agli Usa che è imperativo concedere armamenti pesanti all’opposizione, nell’obiettivo di ristabilire l’equilibrio militare.
Reticente, poiché intimorito dalla possibilità che i carichi raggiungano i gruppi jihadisti antioccidentali, Washington cede comunque alle richieste di Riyadh, che rimpiazza dall’estate 2013 il Qatar nella veste di “padrino” dell’opposizione siriana. E’ a questo punto che Ahmed Jabra – “l’uomo degli al-Saud” – prende il comando delle forze anti-Asad e i ribelli vengono riforniti di armi sofisticate.
La dimensione religiosa di una rivalità politica
Contemporaneamente, il ritorno in forze saudita è evidente anche nel contesto egiziano. Di fronte ad un equilibrio regionale che vede l’irresistibile ascesa dell’Iran e dei suoi alleati, viene messo in piedi un fronte di forze sunnite simbolizzato dalla repressione del movimento di protesta in Bahrein, dove le truppe qatariote – assieme a quelle locali – sono pronte a dar man forte ai corpi di spedizione sauditi. La coalizione non nasconde una chiara colorazione confessionale.
Portato al parossismo dalla crisi siriana, l’antagonismo tra sciiti e sunniti sembra diventare, purtroppo, uno dei fattori più importanti nell’equazione strategica dello scenario mediorientale. Ma se su questo punto esiste una convergenza tra tutte le petrolmonarchie del Golfo, diversa è la situazione quando si parla di gestione degli spazi interni al mondo sunnita.
Custode dei due principali luoghi santi, il regno saudita punta da tempo ad accaparrarsi il monopolio della rappresentazione simbolica dell’islam mondiale. Pretesa tanto più sentita dopo la rivoluzione iraniana, la cui dialettica cerca di scalfire questo monopolio a vantaggio di un islam più rivendicativo di obbedienza sciita. All’interno del panorama sunnita, invece, tale ambizione è veicolata attraverso la dottrina rigorista wahabita.
Diffusa all’esterno della penisola sotto le spoglie del salafismo, l’agenda religiosa del regno saudita ha dovuto far fronte, dalla prima guerra del Golfo (1990), all’interpretazione difesa dai Fratelli musulmani.
Questa rivalità occupa una parte essenziale dell’offerta sunnita e la strumentalizzazione che ne viene fatta dai differenti regimi della regione sembra tradurre in termini religiosi una concorrenza fondamentalmente politica. Bisogna ricordare, infatti, che proprio dalla guerra del Golfo l’Arabia Saudita e i suoi alleati non hanno mai perdonato alla Fratellanza il posizionamento a sostegno di Saddam Hussein. Questo allineamento è stato considerato come un tradimento, dal momento che durante i decenni passati erano state proprio le monarchie del Golfo a dare asilo ai membri della confraternita perseguitati in patria (sotto Nasser e Hafez al-Asad).
La dura condanna espressa dal principe Najef, ministro dell’Interno saudita nel 2002, che descrive i Fratelli musulmani come “la principale causa dei problemi nella regione”, illustra perfettamente la posizione di Riyadh e Abu Dhabi in materia. E ancora. In un discorso tenuto su una televisione privata – disponibile in internet -, il capo della polizia di Dubai Dhahi Khalfan, figura conosciuta per la sua militanza anti-Fratellanza, ha addirittura piazzato la confraternita al primo posto delle minacce per il mondo arabo, davanti a Israele e all’Iran.
Posizioni come queste sono correntemente diffuse sugli schermi dal canale al-Arabiya, braccio audiovisivo del regime saudita e dei suoi alleati emiratini, che non ha esitato ad amplificare le contestazioni contro il presidente Morsi e a trasmettere continuamente le voci dei suoi oppositori.
D’altro canto, in un contesto di piena guerra mediatica per interposti canali, nei mesi scorsi al-Jazera ha offerto un’ampia copertura delle manifestazioni indette dai sostenitori della “legalità istituzionale”. L’influenza del canale qatariota, conosciuta e temuta dai militari egiziani, è stata arginata grazie ad un dispositivo velocemente messo in atto per minimizzare l’impatto delle notizie. Decine di giornalisti sono finiti in arresto, i locali e il materiale sequestrati e la ricezione del segnale satellitare disturbata.
In questo confronto, però, il Qatar può avvalersi di una carta non trascurabile: lo shaykh Yussuf al-Qardhawi. Personalità controversa, che funge da mufti ufficioso dell’emirato, Qardhawi detiene un notevole capitale simbolico su due livelli.
In primis la sua presenza a Doha dall’inizio degli anni sessanta permette al regime di trarre profitto dalla sua statura per fornire legittimità religiosa al governo degli al-Thani. In una regione dove il fattore religioso è alla base della costruzione di un’identità nazionale, questo elemento di identificazione riveste un’importanza sostanziale.
Inoltre, nella logica del confronto con i sauditi, lo shaykh è stato utilizzato per traslare su un registro religioso una rivalità già esistente sul piano politico e mediatico. Una situazione intensificatasi con il cammino intrapreso dalle rivolte arabe.
Riguardo alla Tunisia, all’Egitto, alla Libia e ancor di più alla Siria, il discorso religioso di al-Qardhawi ha puntualmente sorretto le posizioni diplomatiche assunte dal governo di Doha. Una convergenza che dura fino ad oggi, almeno per quanto riguarda i contesti egiziano e siriano.
Questa visione è puntualmente combattuta dall’establishment saudita, che fin dall’inizio ha ostentato prudenza quando non aperta ostilità nei confronti delle sollevazioni. Al momento del colpo di Stato in Egitto del luglio scorso questa dicotomia sembra aver raggiunto il suo apice, un fatto tuttavia che non ha mancato di suscitare rumori all’interno del “clero” saudita, dove si stanno aprendo incrinature e contrasti – situazione inedita – in maniera sempre più evidente.
* Clicca qui per accedere alla rivista Afkar/Idées. Solo alcuni per alcuni dei contenuti è possibile accedere alla versione integrale in lingua francese e spagnola. La traduzione è a cura di Jacopo Granci.
March 05, 2014di: Nabil Ennasri per Afkar/Idées*Arabia SauditaEgitto,Iran,Qatar,Siria,Articoli Correlati:
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