Tante voci, un solo verdetto: la transizione democratica irachena è fallita e la crisi siriana potrebbe travolgere quel che resta del paese, sempre più dilaniato dagli appetiti regionali.
Mentre la comunità internazionale si mostra quasi indispettita dinnanzi a quelli che considera dei ‘ritardi’ nel processo di transizione in Tunisia ed Egitto, l’Iraq continua a non dover mai rendere conto dei suoi fallimenti.
Nelle parole dello scrittore e giornalista tunisino Khaled Chouket – una delle voci citate dal dossier pubblicato dal sito Mesop – quello iracheno è “un regime malato, destinato a spegnersi non appena gli verranno staccati i respiratori artificiali”, laddove esiste una “sala di rianimazione” – la Green Zone – “dotata dei più moderni strumenti americani e stranieri per mantenere in vita una democrazia già arrivata allo stato terminale”.
Nel frattempo, “i proventi del petrolio non fanno che accelerare la corruzione dei costumi, trasformando il processo politico in un meccanismo per la distribuzione del bottino”.
Perché “come in tanti altri Stati falliti, anche qui la guerra si è trasformata in un’economia, una vera fonte di profitto a vantaggio dei paesi stranieri”.
“Dal 2003, gli iracheni sono stati trattati come fazioni in lotta tra loro, da usare a vantaggio dei poteri regionali che continuano a sfruttare le differenze confessionali ed etniche del paese”, nella visione di Mina al-Oraibi del giornale Asharq Alawsat, che ricorda come il “sabotaggio di organismi importanti – quali la magistratura, i sindacati e gli organismi di controllo indipendenti – abbia portato ad una mancanza di controlli e di equilibri istituzionali”.
Le continue lotte interne hanno permesso alle potenze regionali, soprattutto all’Iran e alla Turchia, di approfittare della vulnerabilità di molti partiti, che altrimenti non avrebbero il sostegno politico e finanziario necessario a mantenere il potere.
Secondo J. Henri Barkey, professore di relazioni internazionali alla Lehigh University, la condotta del primo ministro sciita Nouri al-Maliki non può che portare alla deflagrazione del paese: “Lo stile conflittuale e sempre più dittatoriale del premier ha alienato persino i curdi, che a differenza dei sunniti erano riusciti ad avere riconosciuta – nella Costituzione irachena – la loro regione federale con tanto di governo”.
Ed è il suo collega Gareth Stansfield a fare il punto sui rapporti (tesi) tra Baghdad ed Erbil, sostenendo che in questo nuovo confronto con i sunniti, Maliki non può più contare sul sostegno dei curdi, sempre più solidali nei confronti delle proteste nell’Anbar e orientati a rafforzare le loro relazioni con la Turchia e gli Stati arabi del Golfo, per sviluppare le proprie risorse petrolifere.
Tra i (tanti) motivi che separano il governo centrale da quello regionale, le velleità del KRG di includere nella sua regione autonoma gran parte dei territori tuttora contesi e ricchi di quel petrolio che ha già innervosito il premier e il ‘suo’ esercito, le forze irachene di sicurezza (ISF).
Diversi infatti gli scontri già registrati tra i militari di Baghdad e i peshmerga curdi, la cui esistenza – insieme ad altri requisiti fondamentali previsti dalla dottrina – è già prova di uno Stato che di fatto è indipendente, o che comunque potrebbe diventarlo a breve.
A esasperare ulteriormente gli animi, la creazione del Comando Operativo Tigri, a ovest di Kirkuk, la cui direzione è stata affidata al generale Abdulamir Zaidi, accusato dai curdi di essere coinvolto nella campagna genocida di Anfal, compiuta dal regime Ba’ath alla fine del 1980.
Consapevole che potrebbe presto ‘perdere’ il nord del paese, il premier appare oggi impegnato nel consolidare il suo controllo sulle regioni sciite e su Baghdad, nonostante la vera sfida da affrontare – secondo Barkey – riguardi la crisi siriana e il possibile arrivo in territorio iracheno di una marea di combattenti sunniti intenzionati a riaccendere la guerra civile.
Così come Stansfield non appare sorpreso nel vedere che a Fallujah, Ramadi, Tikrit, Mosul sventolano le bandiere della rivoluzione siriana accanto a quella dell’Iraq di Saddam. A suo avviso, i legami che uniscono le popolazioni dell’Anbar alle aree sunnite siriane sono stati forgiati nel fuoco della guerra civile irachena del 2005-2007.
April 02, 2013di: Francesca ManfroniIraq,Siria,Articoli Correlati:
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