Nonviolenza, laicità, diritti, convivenza. L’Iraq non è solo terrorismo e attentati, ma è capace di essere altro. Ce lo racconta Martina Pignatti Morano, presidente di Un Ponte Per…, che ha partecipato all’Iraqi Social Forum 2013 di Baghdad.
E’ ormai da un anno che le notizie provenienti dall’Iraq parlano quasi esclusivamente degli attentati che stanno mettendo in ginocchio il paese. Un susseguirsi di cifre che riportano oltre 5mila morti e decine di migliaia di feriti dall’inizio dell’anno, secondo l’ultimo bollettino di guerra congiunto di Al-Jazeera e AFP, e che fanno affiorare nelle menti irachene i ricordi della sanguinosa guerra civile del biennio 2006-2007.
Ma l’Iraq è capace di essere anche altro.
Dal 26 al 28 settembre scorso Baghdad ha ospitato oltre 3mila persone che hanno partecipato all’Iraqi Social Forum (ISF), il primo nella storia del paese.
Sostenuto dalla coalizione internazionale dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), il Forum si è incentrato soprattutto su convivenza, nonviolenza, lavoro, legalità. E lo ha fatto oltrepassando le tante differenze che caratterizzano una delle società più variegate del mondo arabo, sfidando il diffuso clima di paura e dimostrando che, come recita il titolo del manifesto dell’ISF, “Un altro Iraq è possibile”.
Significativa è stata anche la presenza di attivisti internazionali, provenienti da Bangladesh, Palestina, Tunisia e non solo.
Dall’Italia era presente anche la presidente dell’associazione Un Ponte Per… Martina Pignatti Morano, attiva all’interno di Rete Disarmo e Tavolo Interventi Civili di Pace, e che a livello internazionale sostiene il Forum Sociale Mondiale tramite la rete Alternatives International. OsservatorioIraq l’ha intervistata.
Come è possibile e cosa significa organizzare un social forum in un paese martoriato dagli attentati e dallo spettro della guerra civile?
Prima di tutto significa rivendicare il fatto che le lotte sociali irachene si inseriscono all’interno di una visione globale di una società diversa, che rifiuta il modello di organizzazione economica capitalista, imperialista e neoliberista. Una società che immagina alternative basate sul rispetto dei diritti umani e sulla giustizia sociale, nella quale associazionismo e sindacati abbiano un ruolo primario.
L’Iraqi Social Forum ha proiettato le idee dei movimenti iracheni in uno scenario globale. Non era scontato che la società civile irachena volesse organizzare questo grande evento laico e progressista, sulla scia dello stesso processo iniziato nel 2001 a Porto Alegre. Lo ha fatto anche perché incoraggiata dalla forza del Forum Sociale di Tunisi del 2013, in cui si è assistito ad una grande autoaffermazione dei movimenti sociali in una società in transizione come quella tunisina. Così facendo gli attivisti iracheni hanno cercato di portare i venti di cambiamento anche nel loro paese.
In secondo luogo significa coraggio, perché gli iracheni erano consapevoli che sarebbe stato molto difficile interagire con le loro istituzioni, molto diverse da quelle tunisine: nonostante le difficoltà politiche che si osservano a Tunisi, il livello di autoritarismo, controllo e minaccia da parte del governo iracheno e dei suoi ministeri nei confronti degli attivisti è più alto.
E’ stata infine una sfida lanciata alla politica e al terrorismo in un periodo di crescente tensione: mettere in piedi un evento del genere è stata una reazione al timore della guerra civile e all’escalation di violenza che attraversa il paese dall’inizio dell’anno.
Da chi è rappresentata la società civile irachena? Chi ha reso possibile il Social Forum?
La società civile irachena è composta da molte associazioni, spesso ispirate dai valori della sinistra araba, forze sindacali e movimenti giovanili. C’è stata anche una vastissima partecipazione giovanile: si tratta di ragazzi che spesso vivono il loro attivismo principalmente sui social network. Molti di loro hanno partecipato alle manifestazioni del 2011, quando si è sviluppata una brevissima ‘Primavera irachena’ subito messa a tacere dalla repressione. Spesso sono movimenti destrutturati, composti da ragazzi che si riuniscono clandestinamente nelle università, data la proibizione di svolgere in quegli spazi qualsiasi attività che non riguardi la didattica. Per loro l’ISF è stata una possibilità per uscire alla luce del sole.
Quali sono state le tematiche che hanno caratterizzato i tre giorni del Forum?
Nel momento in cui è stato lanciato, il manifesto dell’evento prevedeva come temi principali la convivenza tra le minoranze, il rispetto dei diritti umani nel senso più ampio (diritti civili e politici, libertà di espressione e di associazione), la ricerca di modalità nonviolente per condurre processi di trasformazione sociale per costruire un nuovo Iraq e la promozione di uno Stato laico. Questo perché nel paese il confessionalismo viene usato strumentalmente per estremizzare i conflitti e le divisioni all’interno della società. Grazie ad un metodo di lavoro orizzontale è stato possibile vivere direttamente la convivenza tra minoranze: non se ne è discusso, ma è stata praticata.
Come sono stati affrontati gli altri temi?
La questione dei diritti civili e politici è stata affrontata soprattutto dal punto di vista legale. I sindacati hanno dedicato la loro attività principale a una discussione critica sulla bozza del nuovo Codice del lavoro, che allo stato attuale non rispetta gli standard internazionali, mentre il settore della stampa si è concentrato sulla “legge sulla protezione dei giornalisti”, lavorando sulla proposta di emendamenti dal momento che limita fortemente la libertà di espressione.
La scelta di adottare un approccio legale è stata in realtà obbligata. In Iraq in questo momento è difficile percorrere altre strade. Chi ha tentato strategie più politiche, ad esempio organizzando proteste, scioperi o manifestazioni, ha subito minacce, intimidazioni, è stato arrestato, o nel peggiore dei casi è stato ucciso.
In un paese in cui il confessionalismo viene presentato come la principale causa delle violenze, in che modo si è parlato di laicità nel SF?
Ciò che è emerso è che da parte degli iracheni c’è l’assoluta convinzione che la religione venga strumentalizzata nelle lotte tra gruppi politici.
A questo proposito bisogna dire che le responsabilità vanno distribuite tra tutte le principali fazioni nel conflitto. Anche se, come spesso accade, chi ricorre al terrorismo è la parte più debole, che ha pochi strumenti a sua disposizione e diventa preda del fondamentalismo, mentre le fazioni più forti hanno a disposizione diverse opzioni. Come ad esempio delle milizie, con le quali possono intimidire e minacciare prima ancora di attaccare fisicamente la controparte.
La conseguenza è che nella società si diffonde un grande senso di paura, alla quale però il Social Forum ha contrapposto una altrettanto grande volontà di superare le divisioni e di convivere.
Secondo te c’è anche una responsabilità dei media internazionali che, oltre a raccontare generalmente la situazione irachena come affetta unicamente da violenze settarie, hanno dato poco risalto a un evento così importante?
Sì, nei nostri paesi il peso di questa responsabilità è grande. I media sono tra i principali responsabili della barriera che si è creata anche tra la società civile internazionale e quella irachena.
E’ come se ci fosse paura di dare spazio alle buone notizie. Alcuni giornalisti sembravano credere che scrivere di Iraqi Social Forum fosse una mancanza di rispetto verso le vittime degli attentati di Baghdad il primo giorno dei lavori, ad esempio. Questa situazione non sorprende ma rattrista.
Nonostante le buone notizie, alla fine dell’ISF c’è stato l’attentato di Erbil, zona in cui non se ne registravano da 6 anni. Quanto ha pesato il clima di paura che viene diffuso da episodi del genere?
In realtà l’unico, vero tentativo di intimidazione si è verificato quando le istituzioni irachene hanno negato agli attivisti dell’ISF di accedere al teatro nazionale di Baghdad, inizialmente concesso per la cerimonia di apertura, che è stata organizzata rapidamente nel campus dell’università di Baghdad. Nei giorni seguenti oltre 3mila persone hanno preso parte alle attività dell’ISF.
Al di là di questo episodio, che leggo come un chiaro tentativo di danneggiare l’evento da parte dell’intelligence irachena, al clima di paura la gente ha reagito con grande coraggio. Purtroppo è innegabile che i timori abbiano influito nello svolgimento dei lavori, ad esempio scoraggiando la partecipazione di molti attivisti che avrebbero voluto arrivare dal resto del paese.
Qual è il messaggio principale che l’ISF manda alla politica e alla comunità internazionale?
Quello diretto alla politica irachena è un messaggio chiarissimo di presenza e forza della società civile locale: “Dovete avere il coraggio di relazionarvi con noi e ascoltare le nostre proposte per costruire un’altra società”. Questo “noi” rappresenta tutti i movimenti sociali che hanno partecipato al Forum, che hanno dimostrato di avere capacità di mobilitazione e di agire attraverso modalità nonviolente. Ma soprattutto sono capaci di immaginare e costruire un altro Iraq. Anche la politica deve avere il coraggio di dialogare con questa realtà, che rifiuta in modo netto la logica delle violenze settarie e che, al contrario, al Social Forum si è presentata unita e coesa nelle sue modalità di azione.
Alla comunità internazionale intesa come politica e organizzazioni inter-governative il messaggio che l’ISF manda è analogo: ricordate che in Iraq non ci sono solo interlocutori istituzionali.
Mentre ai movimenti sociali internazionali gli iracheni chiedono di essere coinvolti nelle grandi mobilitazioni per la giustizia sociale, la pace e la salvaguardia dell’ambiente. Nonostante gli incubi della guerra, dell’occupazione americana e del terrorismo, la società irachena sta voltando pagina ed è riuscita ad organizzare il Social Forum nazionale più partecipato in tutto il mondo arabo.
*La foto di copertina è di Ahmed Alsamaraie, che ringraziamo per la gentile concessione.
October 28, 2013di: Stefano Nanni Iraq,Articoli Correlati:
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