Si chiama Mazen, ha 40 anni ma non li dimostra, è molto alto ed ha il volto scavato. Le sue mani sottili hanno qualcosa di innaturale e, insieme alla sua magrezza, rivelano qualcosa di lui: Mazen è un sopravvissuto, un uomo che ha attraversato il girone più terrificante dell’inferno in terra e ne è uscito vivo.
Era l’aprile del 2011 quando Mazen è stato arrestato dai servizi segreti del regime di Bashar al-Asad e da lì è iniziato il suo calvario durato 1 anno e 7 mesi.
Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato la sua storia mentre era qui a Roma per l’inaugurazione della mostra “Nome in codice Caesar” presso il museo MAXXI. Si tratta di 30 foto scelte dall’archivio di 55.000 scatti trafugati dal fotografo forense della polizia militare siriana conosciuto, appunto, con il nome di Caesar.
Immagini di corpi straziati, affamati e torturati fino alla morte nell’ospedale n° 601 di Mezze (Damasco).
I volti pietosamente censurati dagli allestitori, nelle foto si vedono chiaramente i numeri dietro cui si celano le identità dei prigionieri, quello che indica la struttura detentiva e quello relativo all’ospedale. I numeri sono scritti sulla pelle o su biglietti attaccati alle fronti dei cadaveri.
Le foto di Caesar sono scattate presso l’ospedale militare di Mezze, la famigerata branca 601, e Mazen è passato proprio di là durante la sua detenzione.
“Molti di quei ragazzi erano con me, compagni di cella” ci dice “quando ero lì ho promesso ai miei compagni di prigionia che, se Dio mi avesse concesso una seconda vita fuori di là, avrei speso ogni attimo ed ogni energia a denunciare questi crimini, non mi sarei fermato finché questo regime criminale non fosse portato alla sbarra della Corte Penale Internazionale”.
E Mazen sta mantenendo la sua promessa, lo fa con tutto l’impegno possibile.
A Roma era arrivato dopo essere partito alle 4 di mattina da Amsterdam, dove ha trovato rifugio dopo aver lasciato la Siria, e fin dal mattino si è dedicato la rilasciare interviste, ha ripetuto la sua testimonianza con entusiasmo, mimando le torture subite, le posizioni in cui era stato costretto a dormire o in cui era stato legato, raccontando i dettagli decine di volte senza mai prendere una pausa.
Qualche volta, mentre descriveva come era stato appeso per i polsi per giorni, i ferri roventi infilati nelle carni delle gambe, le costole rotte, le umiliazioni, le lacrime gli solcavano il viso, soprattutto al pensiero dei suoi compagni ancora prigionieri e ai 4 suoi familiari da anni dispersi nell’inferno di Asad: l’ultimo cadavere di un suo cugino glielo avevano riconsegnato solo una settimana prima.
Lo sguardo dei giornalisti mentre lo ascoltavano si faceva grave, imbarazzato quando Mazen senza esitazioni raccontava di quella volta che gli hanno applicato una morsa sul pene e continuavano a stringere finché lui non credeva di essere stato evirato. O degli stupri subiti, racconti che non ti aspetti di sentire da un uomo arabo, figlio di una cultura machista in cui simili affronti alla propria virilità si seppelliscono nella profondità della memoria, sono motivo di vergogna.
Nel sentire i suoi racconti, le percosse subite anche in ospedale e persino dal personale medico, i cadaveri dei compagni di prigionia lasciati nelle celle sovraffollate o gettati nell’immondizia – “questa è l’unica fine che meritate, questo è quanto valete maledetti terroristi!” dicevano i secondini – la domanda che non si può evitare di porsi è come Mazen abbia fatto a sopravvivere ed a uscirne così lucido, equilibrato.
“Il corpo è sopravvissuto, ma la mia anima è morta lì…” ci dice. Come la maggioranza dei detenuti politici in Siria, Mazen in realtà non è mai stato un terrorista, anzi non è mai ricorso alla lotta armata. Lui era un ingegnere petrolifero di Deir Al Zour, città al confine con l’Iraq, e la sua era una famiglia di comunisti.
Anche il padre in passato aveva assaggiato le carceri degli Asad, mentre lui fin dalla prima ora aveva preso parte alle manifestazioni anti-governative ed era stato arrestato due volte prima di quell’aprile del 2011: una volta era stato riconosciuto dalle foto scattate durante una manifestazione e quindi prelevato da casa: un’altra mentre tornava da Homs gli avevano trovato dei pamphlet del partito comunista in macchina ad un posto di blocco.
La detenzione più lunga l’ha subita quando invece lo hanno trovato con dei cartoni di latte in polvere destinati al sobborgo ribelle e sotto assedio di Douma.
“Dopo quei 19 mesi mi hanno finalmente portato davanti ad un giudice, sapevo che mi avrebbe condannato a morte o, peggio, a 20 anni di carcere. Io mi sono spogliato e gli ho mostrato i segni di tortura e per fortuna era uno di quei pochi giudici che ancora hanno un po’ di coscienza e che fanno quel che possono per alleviare le sofferenze della gente: mi ha liberato”.
Quando è stato preso la rivoluzione in Siria era ancora nonviolenta, tanto che quando, dopo 1anno e 7 mesi, è tornato nella sua città, è rimasto scioccato: “Quando mi hanno preso ballavamo in piazza per rivendicare libertà e dignità, stavamo aprendo giornali indipendenti e ci sembrava che la democrazia fosse dietro l’angolo. Quando sono arrivato a Deir Al Zour ho visto sventolare le bandiere nere e ai posti di blocco mi perquisivano per controllare che non avessi sigarette…”.
Durante la sua assenza infatti, la sua città, una tra le prime a rivoltarsi e cacciare il regime, era stata conquistata da Daesh che aveva iniziato a sfruttarne i campi petroliferi. Mazen allora è scappato prima in Turchia, da lì ha intrapreso la rotta balcanica e dalla Grecia è sbarcato in Italia per poi proseguire verso nord e stabilirsi in Olanda, dove ha ottenuto lo status di rifugiato in virtù delle evidenze che era stato detenuto e torturato da Asad.
Oggi studia l’olandese e dalla sua casa di Amsterdam tiene i contatti con gli attivisti che conosce in ogni parte della Siria: “Ogni mattina mi alzo alle 6, mi preparo il the e comincio a chiamare provincia dopo provincia. Raccolgo informazioni e poi faccio la mia oretta di diretta video attraverso i social network, spesso poi sono i giro per raccontare la mia storia ad ogni Ong che si occupi di diritti umani e ad ogni giornale che mi dia spazio”.
Ogni giorno Mazen tuona contro i bombardamenti russi, contro il regime di Asad, ricorda le centinaia di migliaia di detenuti e desaparecidos della Siria, dà voce alle istanze della gente che vive nelle aree assediate, ma non manca anche di denunciare i signori della guerra che si arricchiscono sulla pelle della gente, le milizie che mettono i propri interessi ed il compiacere i loro finanziatori stranieri sull’interesse del popolo e della rivoluzione siriana.
Mazen è instancabile ed osservando l’energia che esprime e la sua passione nel ribadire la causa della rivoluzione, la sua origine nonviolenta e le rivendicazioni che avevano portato la gente in piazza, la forza delle sue denunce e della sua testimonianza la risposta alla domanda che ci ponevamo prima – come avesse fatto a sopravvivere – diventa evidente: dietro quell’aria fragile, quel fisico scheletrico, c’è l’animo indomito di un uomo reso indistruttibile dalla sua fede e determinazione per la sua causa.
Dalla missione che si è dato il giorno in cui l’hanno rilasciato, quando salutando i suoi compagni di prigionia gli prometteva di non fermarsi finché non avrebbe visto Asad alla sbarra e la bandiera rivoluzionaria sventolare dal parlamento di Damasco.
October 29, 2016di: Fouad Roueiha Siria,