Gli Emirati Arabi Uniti hanno sviluppato una strategia ambiziosa per uscire dalla dipendenza petrolifera, ma inapplicabile senza la mano d’opera straniera, tanto indispensabile quanto umiliata. Una situazione che le organizzazioni non governative continuano a denunciare.
Sono una trentina, in piedi, davanti al supermercato Gheysar Ali Dornadeh. Guardano una partita di cricket, lo sport nazionale del loro paese, sullo schermo della televisione in vetrina.
Prima, alcuni di loro hanno partecipato alla grande preghiera del venerdì nell’imponente moschea Cheikh Zayed. Mentre i cittadini locali lasciavano il luogo con gli occhiali neri sul naso, il cellulare in mano e l’aria disincantata, loro si sono messi in posa per le foto ricordo, meravigliati dalla maestosità della costruzione, prima di rientrare nel loro quartiere con un piccolo bus beige e verde.
Questi uomini – pachistani, bangladesi, nepalesi – si possono incontrare ovunque ad Abou Dhabi e a Dubai. Rimangono discreti, ma è difficile non accorgersi di loro, con i loro abiti meno curati se confrontati a quelli dei ricchi del posto, che indossano dishdashas di un bianco immacolato, ghoutra o smakh sulla testa e sandali di cuoio impeccabili.
Abou Dhabi è il più ricco degli Emirati Arabi Uniti, ma la sua opulenza dipende da questi uomini ombra che rappresentano l’88,5% della popolazione (2.120.000 abitanti). Si ritrovano soprattutto nella zona industriale di Mussafah, a venti minuti d’auto dalla scintillante moschea.
Le organizzazioni non governative continuano a dare l’allarme sulle condizioni di vita e di lavoro di questi schiavi dei tempi moderni, in totale contraddizione con l’ambiente e i mezzi di cui dispongono i cittadini emiratini.
A Mussafah gli edifici sono bassi, vecchi e la moschea modesta. Si è lontani dalle torri slanciate e dai grandi centri commerciali. Hussein, tassista di un impresa privata, esplode: “siamo tutto il tempo sotto pressione”.
Il suo volto è segnato, il suo corpo, fragile. Ha 34 anni. Sembra ne abbia dieci di più e lo fa notare: “la pressione mi ha fatto invecchiare” dice, accusando le attenzioni eccessive riservategli dal suo datore di lavoro.
“E’ un paese solo per i ricchi”, constata – afflitto ma non invidioso – questo padre di due bambini. “Li vedo una volta all’anno. Sono rimasti con mia moglie, in Pakistan”. Prima di arrivare qui, Hussein era già un tassista. “Abbiamo tutto in Pakistan ma i dirigenti sono pessimi, la situazione instabile e non c’è lavoro”. Il suo stipendio qui? 600 euro al mese, con commissioni. Il suo discorso è impetuoso, come quello dei suoi compagni di sorte.
A perdita d’occhio, soltanto uomini. Pakistani, indiani, bengalesi, giovani o meno giovani, più o meno logorati dal lavoro se ne stanno dinanzi al complesso residenziale Icad – che di residenziale ha solo il nome.
Tutti vogliono testimoniare. Si interrompono l’uno con l’altro, si sovrappongono, le parole si mescolano ma si assomigliano tutte: vogliono far conoscere la loro situazione, si lamentano, accompagnando le loro frasi con gesti inequivocabili. La maggior parte non parla né arabo né inglese, o assai poco.
“Tutto è troppo costoso: gli affitti, i trasporti per andare al lavoro. […] ci aspetterebbero almeno due o tre mesi di ferie”, afferma con tono pacato Kassir, 21 anni, arrivato dal Pakistan cinque anni fa. “Siamo dieci per stanza; in tutto, nel palazzo, ci sono 72 camere”, afferma Tulbahadur, un nepalese di 28 anni, mentre mostra il suo alloggio.
Nel cortile, dei vestiti sospesi su un filo: “li abbiamo appena stesi. Facciamo tutto da soli, nelle nostre camere: cuciniamo, laviamo” esclama un uomo dalla t-shirt senza maniche e le braccia tatuate.
L’affitto si aggira tre i 60 e gli 80 euro al mese. Dal 2002 lavora nell’edilizia e guadagna 300 euro al mese, ma si rifiuta di lamentarsi: “Almeno, vengo pagato”. Perché negli Emirati non è una certezza. “Un dirham vale 30 rupie! E’ molto per la mia famiglia in Nepal!”.
In mezzo a tutti questi uomini si trova Jubipalishan, 30 anni. Camicia a quadri con le maniche corte, jeans, capelli neri lunghi, questa cassiera di un piccolo supermercato è arrivata dalle Filippine nel 2010 per raggiungere sua sorella. Guadagna 230 euro al mese, deve percorrere un tragitto di due ore per andare a lavorare e vede la sua famiglia ogni due anni. Non è confortata dall’essere l’unica donna fra tutti questi uomini ma “non ha scelta”.
Tra le tante persone ammassate nel quartiere c’è chi è appena arrivato e chi ormai ci vive da una decina di anni. Un caposquadra nel settore edile si fa largo tra la folla. E’ negli Emirati da 22 anni. “Lavoriamo sei giorni a settimana, dalle dieci alle dodici ore al giorno e il mio stipendio è passato dai 200 euro iniziali ai 400 odierni”.
Muhammad ha quasi 60 anni. Ha lasciato il Bangladesh per gli Emirati nel 1988. L’uomo ha un andatura fiera e parla perfettamente inglese. “Ero ingegnere elettronico”, afferma. Padre di due ragazze e due ragazzi vuole rapidamente trovare un occupazione: “non posso ritornare subito nel mio paese”. E senza lavoro, non può restare.
“Di solito i datori locali che necessitano di manodopera fanno domanda presso le autorità e si incaricano delle pratiche amministrative. Le condizioni per l’ottenimento del visto sono molto severe. Sono soggette alle regole della kafala o del patrocinio, un sistema di controllo migratorio che lega la presenza di uno straniero sul territorio al conseguimento di un contratto di lavoro stipulato con un’impresa, un’amministrazione o un cittadino emiratino” spiega il ricercatore Claire Beaugrand.
Un uomo si presenta timidamente. Racconta che la polizia ha arrestato cinquemila lavoratori e che lui stesso è stato fermato. “Siamo immigrati legali, ma occupavamo un posto di lavoro illegale”, afferma.
Estrae un documento dal suo portafoglio, con l’intestazione del Ministero dell’Interno e poi lo sistema, ansioso. Alcuni suoi compagni hanno passato un mese in prigione e sono stati scarcerati dopo aver pagato una multa di oltre 1000 euro. Gli arresti di massa vengono denunciati costantemente dalle ong, come pure la repressione sugli operai che scioperano, anche loro incarcerati e poi espulsi.
Per un ex diplomatico, che ha accettato di rispondere in forma anonima, la presenza di tanti stranieri “è oggetto di grande preoccupazione”. “E’una minaccia all’identità nazionale”, sostiene quest’uomo di 60 anni, che esprime la posizione della maggioranza dei cittadini emiratini nei confronti dei lavoratori immigrati, che devono affrontare il razzismo, gli abusi e le violenze.
Si stanno preparando espulsioni di massa, come in Arabia Saudita? Quali relazioni hanno questi operai con i locali? “Nessuna”, rispondono all’unisono l’ex diplomatico e i lavoratori.
La popolazione emiratina è incoraggiata a sposare altri compatrioti e ad avere “numerosi bambini” per invertire il rapporto di forza demografico. “Queste famiglie beneficiano di ampie agevolazioni statali: istruzione, cure e alloggi gratuiti”, afferma con orgoglio.
“Temo però che i nostri giovani diventino pigri. Prima, i nostri cittadini facevano tutti i tipi di lavori, ora non è più così” conclude l’ex diplomatico, che ha visto questo pezzo di deserto trasformarsi radicalmente in qualche decennio. Grazie a chi continua a lavorare e ad essere sfruttato, nell’ombra.
* Per leggere la versione in lingua originale, pubblicata sul sito Orient XXI, clicca qui. Traduzione a cura di Chiara Angeli.
February 10, 2014di: Warda Mohamed per Orient XXI*Emirati Arabi UnitiArticoli Correlati:
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