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Afghanistan. Guerra, corruzione, censura: giornalisti (e giornaliste) nel mirino

La caduta dei Talebani nel 2001 ha portato alla rinascita di decine di stazioni radio e TV, e al diffondersi di centinaia di nuove testate giornalistiche e agenzie. Eppure i reporter afghani, soprattutto le donne, continuano a essere oggetto di violenze e minacce, e temono per il loro futuro.

 

 

di Anna Toro

 

I giornalisti afghani sembrano essere vittime di un fuoco incrociato: da una parte la guerra tra talebani e soldati, che mina la sicurezza di tutti, dall’altra il governo e le istituzioni, che spesso non aiutano gli operatori dei media a svolgere al meglio il proprio lavoro. Al contrario, mettono loro i bastoni fra le ruote.

L’ultimo episodio è di pochi giorni fa. Giovedì 17 gennaio sei talebani si sono fatti esplodere a Kabul, di fronte al quartier generale delle Nds, le forze d’intelligence locali, provocando una trentina di feriti.

I giornalisti accorsi a coprire l’evento non solo sono stati allontanati dalla polizia con la forza, ma tre di loro sono stati brutalmente picchiati.

“Hanno distrutto la mia macchina fotografica e la videocamera e hanno cercato di arrestarmi” racconta all’agenzia Wakht News, Sayed Sabawoon, che lavora per Radio Azadi.

“Mi volevano sparare” ha detto Ghulam Hussain Seerat, un altro giornalista, che oltre ad esser stato percosso dagli agenti, alla fine non nemmeno è riuscito a procurarsi le foto e i report per il suo giornale. La terza vittima è una donna, che non ha voluto fornire il suo nome.

Le violenze sono state condannate dal Nai, una delle principali associazioni che si occupa di supportare la libertà dei media in Afghanistan, e dalla South Asian Free Media Association (SAFMA).

“Così come le forze di sicurezza hanno il dovere di proteggere i cittadini, i giornalisti hanno la responsabilità di informarli” ha commentato Seddiqullah Tawhidi, presidente del Nai, che ha definito l’azione delle forze di sicurezza afghane come “anticostituzionale”.

 

Per le donne, l’ennesimo “campo minato”

 

Secondo le associazioni, la recente richiesta di revisione della legge sui media, ha confermato poi il tentativo da parte del governo afghano di stringere le maglie del controllo dell’informazione e dell’intrattenimento, facendo fare al paese un enorme passo indietro.

Tra le proposte: la limitazione della diffusione di prodotti radio e TV stranieri come le soap opera turche e i film di Bollywood, che promuoverebbero una visione più liberale delle donne e dell’amore; l’obbligo, per le giornaliste che lavorano in TV, di indossare il velo quando sono in onda.

Tutto questo, probabilmente per compiacere i Talebani, con i quali il presidente Karzai sta cercando di portare avanti dei negoziati di pace molto delicati.

“La presenza femminile nei media è calata del 10% negli ultimi anni – afferma ancora Tawhidi del Nai – e ciò potrebbe essere dovuto sia alle difficili condizioni lavorative, sia al sempre maggiore deterioramento della sicurezza in vista del ritiro internazionale del 2014”.

Soraya Sobrang, dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission, parla ad esempio di ambiente pericoloso, barriere culturali, competenze inadeguate, contratti di lavoro discriminatori, e perfino molestie sessuali, che avrebbero smorzato l’interesse e l’entusiasmo (all’inizio altissimo) da parte delle donne afghane verso questo settore.

Negli ultimi 12 anni sono state uccise tre giornaliste, e decine sono state minacciate di morte e costrette a lasciare il lavoro.

Tra loro, c’è però chi resiste. Come Nahid Nazari, che lavora per la TV privata MBN, e che ha ricevuto diverse intimidazioni. 

“Ma sono l’unica che porta il pane in casa – commenta in un’intervista all’Afghan Journalists Safety Committee (AJSC) –  Se non continuo a lavorare, chi darà da mangiare ai miei figli?”

“Una volta sono stata seguita da un uomo sconosciuto – racconta la giornalista Meena Habib –. Ho chiamato la polizia, ma mi hanno detto che dovevo presentare una denuncia ufficiale scritta. In caso contrario, non avrebbero fatto nulla per me. Ma come pretendono che io scriva una lettera ufficiale mentre qualcuno mi sta inseguendo?”

Nonostante le difficoltà, e le numerose lettere minatorie ricevute, anche lei ha deciso di non cedere: “Perchè credo nel valore della mia professione – afferma – e perchè questo per me è l’unico modo per battermi per la giustizia delle donne”.

 

Violenze impunite

 

Come abbiamo visto, nemmeno per gli uomini la situazione è rosea. Una speciale classifica del CPJ (il Comitato di protezione dei giornalisti) mette l’Afghanistan al 7° posto tra quei paesi in cui i delitti e le violenze contro i giornalisti restano impunite.

Almeno 22 reporter sarebbero stati uccisi da quando è iniziata l’invasione internazionale nel 2001, e secondo il Nai, nel 2012 ci sono stati ben 69 casi di violenze contro operatori dell’informazione, che alla fine non sono stati perseguiti dalle autorità.

Tra attentati talebani, scontri etnici, reti criminali, signori della guerra e della droga – senza contare che l’Afghanistan ha uno dei governi più corrotti al mondo – sono in molti a temere che l’azione dei media come “cani  da guardia del potere” dopo il ritiro del 2014 sarà sempre più difficile.  

“Più il governo negozia con i Talebani, più la libertà di stampa viene sacrificata” commenta un membro dell’Afghan Journalists’ Safety Committee.

Che aggiunge: “Iniziamo a chiederci se l’esplosione dei media dopo la caduta dei talebani non sia dovuta ad altro se non alla pressione dell’occidente e al tentativo di compiacere i donatori internazionali, invece che a un genuino interesse nel supportare la libertà di espressione da parte del governo di Karzai”.

 

January 23, 2013

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