Con il 2014 si è conclusa anche la missione Isaf-Nato nel paese, tuttora alle prese numerose questioni ancora irrisolte: un governo diviso, un esercito nazionale fragile e a rischio, un clima di insicurezza diffusa, tra attacchi talebani e perfino voci di infiltrazioni da parte dell’Isis.
Il 1° gennaio del 2015 è stato infatti il giorno del passaggio di consegne – accompagnato da un’ampia risonanza mediatica – di tutto il comparto militare dalla coalizione internazionale alle Forze di sicurezza afghane che da ora in poi saranno le sole responsabili della difesa e della sicurezza del paese.
Non si tratta, però, di un vero e proprio abbandono, in quanto sul territorio permarranno circa 12.000 truppe straniere, tra cui quasi 10.000 soldati americani, col compito di addestramento e supporto dell’esercito locale, come sancito dalla missione Resolute Support, approvata e firmata a settembre dello scorso anno.
“Dopo 13 anni di sanguinoso conflitto, la guerra più lunga nella storia americana è venuta a una conclusione responsabile” ha detto in una nota stampa il presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
Non che ci si aspettassero altre parole, nonostante l’equilibrio del paese non sia mai stato così fragile, in tutti i settori: militare, politico, economico, sociale. Autobombe, esplosioni e scontri armati tra soldati e insorti sono infatti all’ordine del giorno, mentre le forze di sicurezza nazionale afgana, nonostante l’apparente autonomia appena acquistata, restano a corto di professionalità, fondi e attrezzature, e di fatto dipendenti dagli Stati Uniti in materia di logistica, di intelligence, di supporto aereo e molto altro ancora.
“L’Isaf ha ammainato la sua bandiera in un clima di fallimento e delusione, senza aver ottenuto nulla di sostanziale o tangibile”, ha detto il portavoce talebano Zabihullah Mujahid il giorno dopo il “ritiro” ufficiale delle truppe internazionali.
Parole anche queste prevedibili, nonostante proprio la sicurezza, dopo fior di miliardi spesi nel comparto militare, sia uno dei più grandi fallimenti di questa guerra mascherata da una delle tante “esportazioni della democrazia”.
Basti pensare che, secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), il 2014 è stato l’anno più sanguinoso per i civili afghani da quando l’organizzazione ha iniziato a monitorare i dati nel 2009, con oltre 3000 uccisioni di civili (tra cui 29 solo il giorno prima del passaggio di consegna militare tra Usa e Afghanistan, quando le forze afghane hanno lanciato un razzo che per errore è esploso nel bel mezzo di una festa di nozze a Sangin, nella provincia di Helmand).
Le violenze si sono ripercosse anche sull’informazione, facendo del 2014 l’anno più sanguinoso anche per i giornalisti afghani.
Un report uscito pochi giorni fa dell’Afghan Journalists’ Safety Committee (AJSC) parla di un totale di 129 casi di violenza (+69% rispetto al 2013) con 8 giornalisti che hanno perso la vita durante lo svolgimento del proprio lavoro.
“Ogni mezzo di informazione indipendente nel paese deve affrontare sfide enormi per quanto riguarda la sicurezza dei propri giornalisti e la propria sostenibilità finanziaria – si legge nel report – L’instabilità politica, un clima di impunità e una mancanza di sicurezza in crescita hanno fatto salire a nuovi livelli le violenze contro i nostri giornalisti “.
Se si tiene conto che i maggiori responsabili delle violenze, in questi casi, sono funzionari, signori della guerra e forze internazionali, si capisce come anche l’instabilità politica sia una grossa gatta da pelare in un paese che ha aspettato ben tre mesi dalla nomina del presidente prima di presentare le prime nomine di governo.
In realtà le elezioni stesse si sono svolte in un clima di diffidenza e tensioni che hanno richiesto, dopo un tumultuoso ballottaggio e successivo riconteggio dei voti, la mediazione del segretario di stato americano John Kerry. Si è arrivati così a un governo di unità nazionale che vede la nomina di Ashraf Ghani come presidente e del suo rivale Abdullah Abdullah come amministratore delegato (figura con funzioni riconducibili a quelle di primo ministro).
Una forma di condivisione del potere del tutto estranea alla storia e alla cultura politica afghana, e che vede le due parti tutt’oggi diffidenti l’una verso l’altra e rende lunga e tesa qualsiasi decisione e approvazione di strategia.
Tanto che fra molti elettori regna oggi la sfiducia: Sad Roz, ad esempio, che significa “100 giorni”, è un’iniziativa nata sul web per monitorare l’operato di Ghani nei suoi primi cento giorni di governo.
Ebbene, delle 110 promesse elettorali che il presidente aveva stilato nel suo ambizioso progetto di questi primi 3 mesi di governo, secondo il sito solo quattro sono state mantenute, 23 sarebbero in corso, mentre sulle restanti 83 il lavoro non sarebbe nemmeno iniziato.
Certo il portavoce di Ghani ha respinto queste accuse, sostenendo che tre mesi non sono un tempo sufficiente. Il problema è che è difficile parlare di unità nazionale in un paese ancora dominato da tensioni etniche e tribali, e in cui la corruzione – florida nel periodo Karzai – è tutt’altro che scomparsa.
Si tratta di un processo lungo, che l’Afghanistan dovrà affrontare questa volta senza ingerenze esterne. Cosa più facile a dirsi che a farsi dato che il paese sembra essere da sempre al centro di interessi economici e strategici da parte di tutti, dagli Usa – che comunque in Afghanistan ci rimangono – alla Russia, fino alla Cina e a tutti i paesi confinanti.
Alla luce di queste che sono in realtà delle osservazioni generali, la “conclusione responsabile” della guerra di cui parla Obama desta qualche perplessità. Lungi dall’aver sconfitto i talebani, il quadro rischia di complicarsi ulteriormente con le voci su un presunto intervento dell’Isis-Daesh anche in Afghanistan.
“Ci sono rapporti che affermano che il gruppo terroristico dell’Isis stia reclutando in Afghanistan e Pakistan – scrive la studiosa Florance Ebrahimi su Khaama Press – L’Isis avrebbe iniziato ad operare nell’Afghanistan meridionale, in particolare nella provincia di Helmand, pochi mesi dopo il ritiro dalla regione delle truppe da combattimento britanniche”.
“L’ex comandante talebano Mullah Abdul Rauf Khadim si è occupato attivamente di reclutare combattenti per i gruppi, che sventolano bandiere nere e che, secondo alcune fonti, avrebbero avuto scontri con i militanti talebani”.
Insomma, più che un vero e proprio intervento dell’Isis, sembra si tratti soprattutto dell’acuirsi delle divisioni all’interno degli stessi combattenti talebani e le voci raccolte tra la popolazione sono discordanti.Non bisogna dimenticare che l’ideologia e gli obiettivi dei talebani sono sempre stati per lo più concentrati a livello locale, e ben distinti dalle finalità internazionali dei gruppi jihadisti.
Le voci, però, continuano a rincorrersi, tra conferme e smentite (compresa quella dello stesso governatore di Helmand).
“I Talebani – scrive ancora Ebrahimi – hanno giurato fedeltà al Mullah Omar e hanno una filosofia e ideologia diversa da quella ISIS, ma, potenzialmente, ci sono persone che sono scontente di loro, che da anni non vedono il loro leader, o vogliono operare in un modo diverso”.
Foto: Daniel Wilkinson (U.S. Department of State) via Wikimedia Commons
January 25, 2015di: Anna ToroAfghanistan,
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