Afghanistan. Luci e ombre di una condanna per stupro

In primo grado, erano stati condannati a morte tutti e sette i sospettati. Le accuse: rapina a mano armata e “zina”, ovvero il reato di adulterio. In realtà, più che di adulterio si è trattato di un vero e proprio stupro di gruppo, brutale e violento, ai danni di quattro donne che la sera del 23 agosto stavano tornando da un matrimonio nel distretto di Paghman, poco fuori Kabul.

 

 

 

Snobbato all’inizio, il reato di violenza sessuale è stato infine riconosciuto nella sentenza d’appello pronunciata due giorni fa, in cui la pena capitale è stata confermata  per cinque imputati, mentre gli altri due sono stati condannati a 20 anni di carcere a testa.

Un segnale positivo verso un reale cambiamento nel campo dei diritti e della tutela delle donne? Forse, se ad essere messi in discussione non fossero ora i diritti in generale, così come l’intero apparato giudiziario del paese.

“Fin dall’inizio, il caso è stato caratterizzato da gravi carenze nelle indagini di polizia, in un processo che ha violato le norme internazionali del giusto processo, nonché le spettanti tutele ai sensi del diritto afghano e della costituzione” scrive l’organizzazione non governativa Human Rights Watch all’indomani della prima sentenza.

Il processo di primo grado, infatti, avvenuto il 7 settembre, è durato appena due ore, ed è stato indetto a meno di una settimana dall’arresto degli uomini ritenuti implicati nello stupro. Il ché, secondo l’Ong, non avrebbe permesso agli avvocati d’ufficio di preparare una qualsiasi strategia di difesa.

“I miei clienti sono analfabeti e ignoranti – si era limitato a dire l’avvocato Mir Hazar durante il processo – Questo è il motivo per cui sono stati tentati da Satana, ma ora sono pentiti delle loro azioni”.

Human Rights Watch parla anche di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, e di pressioni forti sui giudici, dovute all’intervento del presidente Hamid Karzai e dei media.

Per la prima volta, infatti, il processo è stato trasmesso da tutte le Tv afghane, con un altissimo coinvolgimento dell’opinione pubblica, tanto che sia a Kabul sia in altre città moltissimi cittadini e associazioni per i diritti delle donne sono scesi in piazza invocavando a gran voce l’esecuzione dei colpevoli.

Questo mentre il presidente, subito dopo l’arresto dei sette sospetti avvenuto il 2 settembre, rilasciava una dichiarazione in cui chiedeva che i responsabili del crimine ricevessero “la sentenza più pesante nel più breve tempo possibile”, annunciando che stavolta avrebbe “firmato immediatamente la condanna a morte per questi criminali” (in Afghanistan per condannare un imputato alla pena capitale è necessaria la firma del presidente).

Durante un incontro televisivo con gli attivisti per i diritti delle donne, Karzai è stato ancora più esplicito: “Sono fermamente contrario alle esecuzioni – aveva detto – ma chiedo ugualmente all’onorevole capo della giustizia che vengano condannati”.

“Le dichiarazioni del presidente hanno minato la presunzione di innocenza degli imputati – scrive ancora HRW – ai sensi del diritto afghano e internazionale e il loro diritto a un processo equo, interferendo con l’indipendenza della magistratura”.

Per la prima volta, poi, i giornalisti hanno potuto assistere al procedimento di identificazione degli aguzzini da parte delle vittime, cosa che secondo Hrw avrebbe messo le vittime a rischio, oltre a scoraggiare quelle future a farsi avanti.

 

 

Una violenza efferata

Ma cos’è successo esattamente la notte del 23 agosto?

I funzionari di polizia raccontano che i sette uomini accusati, vestiti con uniformi della polizia e armati di fucili d’assalto Kalashnikov, hanno fermato due vetture che rientravano a Kabul. Hanno poi costretto i passeggeri a scendere dalle loro auto rapinandoli dei soldi e dei gioielli.

Mentre gli uomini della carovana sono stati immobilizzati, hanno violentato le quattro donne, una delle quali era in stato di gravidanza, sul lato della strada (una di loro morirà in seguito in ospedale).

La barbarie del crimine ha suscitato una diffusa condanna pubblica in Afghanistan, e per giorni l’argomento è stato dibattuto anche sui social media, tanto da creare un hashtag apposito, #Paghman che campeggiava sui tweet di quasi tutti gli account afghani.

Un caso più unico che raro in un paese dove la stigmatizzazione dello stupro porta raramente le persone a discuterne apertamente.

Ancora più rare, poi, sono le vere e proprie condanne giudiziarie dei colpevoli, dato che in genere ad essere messe in prigione erano – e spesso ancora sono – soprattutto le donne, accusate di “crimini morali“.

Il timore che la storia si ripetesse è emerso dopo condanna in primo grado, in cui non si era fatta menzione dello stupro ma solo del reato di “zina“, che in teoria coinvolge entrambe le parti. Per questo, le proteste degli attivisti e delle associazioni per i diritti delle donne all’indomani della prima sentenza non si erano fatte attendere.

In Afghanistan, infatti, lo stupro è diventato un crimine solo nel 2009, dopo che Karzai, sotto la spinta dei donatori stranieri, aveva firmato la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne (Evaw).

Salutata come una grande vittoria simbolica per i diritti femminili, non è mai stata presa sul serio né attuata da polizia, giudici e i pubblici ministeri, e ha subito numerosi attacchi perfino di recente in Parlamento.

Eppure, alla fine, anche il reato di “stupro” è stato inserito nella sentenza d’appello. Cos’è cambiato stavolta?

 

Contraddizioni 

Secondo molti commentatori, la singolarità del caso è data dal fatto che gli aggressori non conoscevano le vittime, mentre nella maggior parte dei casi le violenze contro le donne sono attuate in ambito familiare, da parenti e mariti, e spesso e volentieri sono messe a tacere.

“Il caso ha ricordato agli afghani la brutalità della guerra civile degli anni ’90, quando la legge e l’ordine erano crollati di fronte alle guerre fra le fazioni rivali per il controllo di Kabul, e assalti del genere erano molto più comuni” scrive HRW.

Inoltre, sebbene ci siano comunque stati numerosi casi di stupri di gruppo nel paese, il caso Paghman è stato particolarmente brutale.

“E’ successo a meno di 10 chilometri dal palazzo presidenziale e nei pressi di una popolare area ricreativa dove la gente va per fare pic-nic di famiglia e trascorrere il tempo libero” dice Aziz Rafe, il presidente dell’Afghanistan’s Civil Society Association, a Rferl. E sebbene abbia visto la reazione al caso come un segno positivo, anche lui aveva criticato la sentenza di primo grado che non aveva tenuto conto dell’Evaw.

Critica condivisa dall’attivista afghana Wazhma Frogh, secondo cui la ragione di tutto questo trambusto e pioggia inedita di condanne era stata fatta semplicemente per ripristinare l’onore degli uomini, quelli che sono stati immobilizzati mentre le loro donne venivano violentate accanto a loro.

Per altri, invece, solo il fatto che le famiglie delle vittime stavolta abbiano collaborato per assicurare i criminali alla giustizia è stato di per sé un passo avanti enorme.

Altri ancora, HRW in testa, criticano comunque tutto l’iter che ha portato alle sentenze, a partire dalla stessa pena di morte, che vorrebbero vedere cancellata dal sistema penale afghano.

Contraddizioni forse inevitabili, almeno in questo momento. Queste luci ed ombre riflettono infatti la confusione di un paese che, a mesi dalle elezioni presidenziali, ancora non è riuscito a nominare un vincitore, alle prese con accuse di brogli, frodi e antiche rivalità tribali.

Un paese che, nonostante una ritrovata vitalità della società civile, rischia di precipitare in un’instabilità ancora peggiore a meno che non si trovi nel più breve tempo possibile una via d’uscita  da quest’empasse politico e – di conseguenza – economico e sociale.

 

Foto via Wikimedia Commons.

 

 

September 17, 2014di: Anna ToroAfghanistan,

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