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Afghanistan. Una “casa” in cui tornare, intervista ad Ariana Delawari

Musicista, cantante, ballerina e regista. La vita di Ariana Delawari, giovane artista multimediale afghano-americana, si dipana tra questo bisogno continuo di esprimere la propria creatività e quello di indagare e mostrare al mondo le bellezze e le complessità della terra di suo padre, che ora è diventata anche la sua seconda casa. 

 

 di Anna Toro

 

 

Un coinvolgente film-documentario di un’ora e 20 minuti, intitolato “We came home”, (“Siamo tornati a casa”), in cui la registrazione del primo album musicale di Ariana diventa il punto di partenza per raccontare la storia della sua famiglia, profondamente intrecciata con la Grande Storia dell’Afghanistan: dall’invasione sovietica al regime talebano, fino ad un presente di transizione, dagli orizzonti spesso cupi e incerti. 

 

Minimo comune denominatore: la musica, onnipresente, punto di incontro di culture e lingue diverse, di generazioni opposte che decidono di annullare le distanze e di produrre qualcosa insieme che possa restare, frutto del linguaggio universale dell’arte e della speranza di un futuro di pace.

 

 

 

Come nasce la passione per l’Afghanistan e l’idea di questo documentario? 

 

E’ stato un processo naturale e organico. Sono nata a Los Angeles nel 1979, lo stesso anno in cui i sovietici hanno invaso l’Afghanistan. Mio padre, nato a Kabul, aveva lasciato il suo paese alla fine degli anni ’60 ma ogni singolo giorno ci parlava della sua terra e lottava da lontano per la sua liberazione, dai sovietici prima e dai talebani poi.

 

La nostra casa era sempre piena di ospiti afghani, i miei organizzavano feste con musica dal vivo tradizionale, perciò sono cresciuta respirando quella cultura. Poi è arrivato l’11 settembre, che ha cambiato la nostra vita. I miei hanno venduto tutto e sono tornati a Kabul, per aiutare il loro popolo nella ricostruzione del paese.

 

 

E tu li hai raggiunti…

 

Appena pochi mesi dopo la laurea all’USC School of Cinematic Arts, anch’io ero su un aereo diretto a Kabul. Da quel momento sono iniziati i miei viaggi avanti e indietro tra l’America e l’Afghanistan per 10 anni, ho iniziato a filmare e fotografare tutto ciò che vedevo, anche se ancora non avevo nella mente l’idea di farne un documentario.

 

Nel 2007 ho deciso di registrare proprio a Kabul il mio primo album con due amici musicisti di Los Angeles e tre ‘Ustads‘ afghani, i maestri anziani e massimi esperti di musica tradizionale. Abbiamo deciso di documentare anche il “making of”, la realizzazione dell’album, ed è stato solo allora che ho realizzato che potevo farne un film.

 

Così, ho continuato per anni a filmare e fotografare, a cercare vecchie foto e bobine sulla storia dei miei genitori, ho raccolto un mucchio di materiale dal passato e dal presente, e da questa mole immensa di testimonianze e immagini è nato il mio documentario. 

 

 

L’infanzia di Ariana

 

 

Come hai vissuto la tua prima esperienza nella terra di tuo padre?

 

Mi ha cambiato la vita. Non appena ho scorto le montagne afghane dal finestrino dell’aereo, per la prima volta ho capito che questo era il motivo per cui volevo essere un’artista: per raccontare la storia del mio popolo. Era tutto così familiare…

 

Non badavo ai fori di proiettile e alle macerie lasciate dalla guerra. Era il 2002, avevo 22 anni, ero troppo giovane per vedere i potenziali pericoli di fronte a me. Pensavo solo: ecco l’Afghanistan finalmente libero!

 

Contemporaneamente, tutto mi sorprendeva. Anche se la mia famiglia era afghana e avevo sentito tante storie su quel paese e visto così tante fotografie, dal vivo era un’altra cosa… E’ sorprendente quanto sia “asiatico”, non si riesce a comprendere questa caratteristica fino a quando non la si vede con i propri occhi. Ho incontrato i nomadi Kuchis e preso il tè nelle loro tende, ho fatto amicizia con i bambini nelle strade e nelle province, ho viaggiato in Bamiyan e Band-e-Amir, i posti più belli che abbia mai visto. 

 

 

Incontro con i Kuchis

 

 

La collaborazione con i tre ‘Ustads’ nella creazione del disco è una delle parti più coinvolgenti del documentario: l’88enne maestro di dilruba Ustad Almruddin, il grande suonatore di tabla Ustad Mohammad Wali, il maestro di rabab e harmonia Ustad Ghulam Hussain, con cui i ragazzi trovano un incredibile feeling musicale, e il prodotto finale ne è la prova. 

 

Collaborare con dei musicisti afghani era per me il sogno di una vita. La decisione di registrare il disco a Kabul è nata una mattina, nel febbraio 2007, quando mia madre mi chiamò da lì dicendomi che le cose stavano peggiorando: c’era stato un attentato, i talebani stavano riguadagnando terreno.

 

Sentivo dal tono della sua voce che la situazione era davvero grave. Appena riattaccato, ho proposto subito al mio compagno di band, Max Guirand di andare a registrare in Afghanistan. Se i talebani fossero tornati davvero, forse non avremmo mai più avuto un’altra occasione. Max (chitarrista) e la mia amica Paloma (violinista) hanno accettato subito ed è iniziata l’avventura musicale.

 

 

In cui siete riusciti a fondere in un modo tutto vostro la tradizione con la modernità.

 

Sono cresciuta ascoltando fin da bambina un sacco di musica tradizionale afghana così come Madonna, Willie Nelson, Johnny Cash, Ravi Shankar, John Lennon, Jimi Hendrix, Nirvana. Le influenze sono tantissime, e in realtà la musica è sempre stato il mio amore più profondo.

 

 

Nel tuo documentario si percepisce nettamente la gioia dei primi anni dopo la caduta del regime talebano, che però viene pian piano soppiantata da una preoccupata incertezza. Come vedi oggi la situazione del paese? Secondo te la società sta cambiando?

 

I giovani afghani mi danno grande fiducia e speranza. Sono intelligenti, innovativi, eccitati, hanno fede nel loro paese, insomma, questa nuova generazione è molto diversa dalle precedenti. Certo, spesso i ragazzi hanno paura di chiedere ciò che meritano e di vivere come vorrebbero. Le cose non sono perfette, ma i cambiamenti ci sono stati.

 

Restano degli enormi pericoli, primo fra tutti il ritorno dei talebani. Spero e prego che i giovani istruiti di Kabul riescano a connettersi maggiormente con quelli delle province in modo da diventare abbastanza forti per contrastare l’estremismo con intelligenza e unità. 

 

Con il prossimo ritiro della comunità internazionale c’è anche il pericolo di una guerra civile, eventualità tutt’altro che remota se la vecchia generazione, i signori della guerra e i leader corrotti, resteranno bloccati nei soliti vecchi modi di agire e danneggiandosi reciprocamente.

 

Ma queste non sono le uniche minacce. L’Afghanistan sta diventando in qualche modo un centro d’affari e i giovani stanno diventando intraprendenti. Mi auguro che non lascino che il paese diventi come Dubai, con centri commerciali e alberghi a cinque stelle dappertutto. Questo tipo di sviluppo potrebbe davvero uccidere lo spirito di questa terra. Basti pensare alle estrazioni minerarie cinesi che stanno distruggendo gli antichi siti buddhisti del Bamiyan.

 

 

L’11 settembre ha generato tutta una serie di paure e pregiudizi in occidente. Da afghana-americana come hai vissuto questa situazione? 

 

Gli americani da quel tragico giorno hanno iniziato a vivere nella paura. Ci si sentiva in qualche modo più limitati e confinati, e sono nate molte idee sbagliate. In tanti sono diventati islamofobi, ci sono stati crimini legati all’odio e comportamenti ignoranti di ogni tipo, ma è lì che ho capito che avrei dovuto giocare un ruolo importante nel mettere in luce la nostra bella cultura.

 

Alla fine, un elemento positivo c’è stato: quella tragedia ha portato molte persone ad aprire gli occhi sul resto del mondo. Negli ultimi dieci anni gli occidentali sono diventati più preparati sull’Afghanistan. Forse l’impulso per questa educazione è stata la paura, ma per quelli dalla mentalità più aperta il risultato è stato positivo. Chi invece continua a vedere l’Afghanistan solo come un covo di estremisti, si sta purtroppo perdendo qualcosa di molto bello.

 

 

A proposito di estremisti, il video della tua canzone “Be gone Taliban” è straordinariamente evocativo. 

 

E’ nato tutto da un sogno: i talebani mi stavano inseguendo, ma io stavo volando in alto sopra la terra, una terra così antica che, mi rendevo conto, nessun gruppo o nessuna nazione avrebbe mai potuto reclamare come propria.

 

Così ho scritto la canzone, che vuole anche essere una sorta di preghiera. Il mio compagno di band ha lavorato sulla parte di chitarra, mentre in Afghanistan, come si vede anche nel film, gli Ustads hanno aggiunto gli strumenti. L’arrangiamento d’archi ha infine portato la canzone a un altro livello. 

 

E a quel punto era diventata la colonna sonora di un’immagine che mi si era formata in testa: una sorta di trasformazione della donna dalla crisalide di un burqa azzurro a una splendida farfalla blu che volteggia libera. Continuavo a vedermi questo mini-film nella mente, così ho messo insieme un fantastico gruppo di artisti per realizzare la mia “visione”.

 

Mi sono seduta con il mio coreografo e costumista, e abbiamo pensato a come rendere davvero questa trasformazione, i colori, le texture, il movimento. E’ stata una bellissima esperienza.

 

 

La canzone fa parte del tuo primo album “Lion of Panjshir”, uscito per l’etichetta del grande regista David Lynch, che compare anche nel tuo film. 

 

David è venuto al mio primo spettacolo in assoluto. Mi aveva detto subito che voleva produrre il mio album, ma io non ci avevo mica creduto. Così ho iniziato la registrazione del disco a Kabul, e sono tornata a finirlo a Los Angeles.

 

Tempo dopo, a cena David mi dice: ‘Avrei dovuto produrre io il vostro album. Avresti dovuto bussare alla mia porta’. Così ho risposto: ‘Allora perchè non facciamo una canzone insieme?’

 

L’idea gli è piaciuta, così abbiamo registrato il brano “Suspend Me” insieme. Lavorare con lui è stato fantastico. E alla fine l’album è uscito con il suo marchio.

 

 

Ti senti mai divisa tra i tuoi due paesi, l’America e l’Afghanistan? 

 

Ci sono stati momenti in cui ho provato questo sentimento, soprattutto durante le prime visite in Afghanistan. Ma oggi viaggio così spesso che ormai sento di appartenere a entrambi. In realtà, adoro così tanto vedere luoghi e culture diverse che per me tutto il mondo è la mia casa.

 

 

Nelle tue radici c’è anche un po’ di Italia. Hai in programma una tappa qui da noi, magari un tour del film o un concerto?

 

Mia madre è metà afghana e metà siciliana, una combinazione di fuoco! Dalla sua parte siciliana ho ereditato molto del mio temperamento inquieto, che spesso devo combattere per domare. Gli afghani, seppur visti come orgogliosi e guerrieri, sono in realtà molto pacifici, ma trovo che le due culture siano molto molto simili, entrambe incentrate sull’amore, il calore, la famiglia, la lealtà, il cibo, la musica, la celebrazione. Per ora non è prevista una mia visita in Italia, ma mi auguro davvero di poterci venire al più presto. Vedremo che cosa le stelle hanno in serbo per noi.

 

 

 

 

La foto di Ariana è di Raphel Lugassy, mentre per le altre immagini si ringrazia Ariana Delawari.

 

 

 

 

26 maggio 2013 

Afghanistan,Video: 

Redazione

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