di Claudio Bertolotti
Un recente report dell’Onu confermerebbe la correlazione tra la scarsa assistenza all’agricoltura e la coltivazione dell’oppio: i villaggi più ‘abbandonati’ ne produrrebbero di più rispetto a quelli che avrebbero ricevuto incentivi. Nel complesso, le province di Farah, Baghdis e Nimroz sono quelle in cui è stato registrato un incremento moderato nella produzione di oppio, mentre un aumento significativo ha caratterizzato la provincia di Herat (area di Shindand). In sintesi, riporta lo studio dell’Onu, le aree rurali classificate come “meno sicure” hanno una probabilità maggiore di coltivare l’oppio di quelle con migliori condizioni di sicurezza. Le comunità rurali periferiche, dovendo scegliere tra il debole governo afghano e gli insorti, sulla base dei benefit e delle politiche adottate dall’uno e dagli altri, tenderebbero ad optare per la parte che è davvero in grado di sostenere l’economia locale. I talebani si sarebbero così avvicinati alla popolazione civile con fine ed efficace azione di convincimento e propaganda, ma anche attraverso delle risposte concrete ai bisogni immediati di comunità ai margini di uno Stato a rischio di fallimento. I numeri di questo fronte non secondario del conflitto afghano ci descrivono una situazione molto critica, tanto sul piano della sicurezza quanto su quello del disagio sociale. L’Afghanistan produce il 90% di tutte le droghe oppiacee al mondo, sebbene sino a tempi recenti non ne fosse un importante consumatore. Al contempo, in un anno la produzione di eroina è aumentata del 18%, portando da 131.000 a oltre 154.000 gli ettari di terreno agricolo dedicati alla coltivazione del papavero da oppio. Secondo l’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), i talebani sarebbero attualmente in grado di ricavare economicamente dalla droga più di quanto non lo fossero durante il regime del loro Emirato islamico negli anni Novanta: un business che garantirebbe all’insurrezione entrate più che necessarie a sostenere una “macchina da guerra” funzionale ed efficace, tanto sul piano militare quanto su quello politico-economico. Secondo stime della Nato, metà dei fondi a disposizione dell’insurrezione proverrebbe proprio dal narcotraffico.
Oggi l’economia afghana dipende, quasi esclusivamente, da due fonti di reddito: gli aiuti concessi dalla comunità internazionale e il traffico dell’oppio. Il paese, con una popolazione teorica di 35 milioni di abitanti, presenta un preoccupante livello di tossicodipendenza: oltre un milione di individui – poco meno della metà (40%) sarebbero donne e minori. Le ragioni di questo fenomeno?
Data l’elevata quantità, l’oppio è un diversivo a buon mercato – meno di cinque euro/grammo (il prezzo dell’oppio grezzo è di poco superiore ai 200 euro al chilogrammo): domanda e offerta si incontrano sostenendosi vicendevolmente. Se il ministero degli Interni afghano ha dimostrato incapacità nel contrasto del narcotraffico, il collega alla Salute non ha potuto fare di meglio finanziando complessivamente non più di 100 centri di riabilitazione e disintossicazione, per un bacino di utenza di 2500 assistiti e un budget inferiore ai tre euro/anno per ognuno dei soggetti in cura. E’ evidente l’inefficacia dello strumento sanitario, così come è evidente l’assenza di una volontà strategica di limitare produzione e commercio della materia prima. Senza contare che sul piano dei vantaggi commerciali e dell’investimento in tecnologie e attrezzature per la produzione, il papavero non ha eguali. Questo avrebbe portato due milioni e mezzo di persone, per lo più contadini con le loro famiglie, a vivere oggi del raccolto di oppio; una condizione destinata a rimanere invariata anche nel 2013. A poco, o nulla, sono serviti i numerosi tentativi di sostituirlo con altri prodotti agricoli: al fine di limitare la produzione di oppio, nella seconda metà del 2010 sono state distribuite oltre 50 tonnellate di bulbi di zafferano (a cura del Provincial reconstruction team italiano di Herat), destinate alla coltivazione di almeno trenta ettari. I risultati sono stati tutt’altro che soddisfacenti:-produzione, lavorazione e mercato dello zafferano non sono stati sviluppati in maniera coordinata;-l’assenza di specifici processi di trattamento – causa della perdita di colore e profumo dello zafferano – ne ha precluso la vendita all’estero (a fronte di una sostanziale assenza di mercato interno);-le vie di accesso ai mercati regionali e internazionali sono limitate e di difficile praticabilità;-gli aiuti economici promessi ai coltivatori afghani sono stati disattesi – convincendo molti di questi a proseguire o a riavviare la coltura dell’oppio. In sintesi, “l’offensiva dello zafferano” è fallita.
Anche sul piano politico-finanziario non sono stati ottenuti risultati soddisfacenti, avendo mancato di raggiungere un obiettivo di rilevanza strategica: il taglio del flusso di denaro – correlato al narcotraffico – dalle organizzazioni criminali ai gruppi insurrezionali. Circa il 15% del PNL afghano dipende dall’esportazione di droga, per un totale di 2,4 miliardi di dollari l’anno (fonte Onu). E così, all’evidente impossibilità da parte della comunità internazionale di contrastarne la produzione e il commercio, si unirebbe l’interesse di alcuni istituti finanziari internazionali nella gestione del denaro derivante dai traffici illeciti. L’incremento nella produzione, incentivato anche dall’aumento del prezzo di mercato, suggerisce che gli afghani starebbero concentrandosi sui traffici illegali in previsione della probabile crisi economica che potrebbe derivare dal disimpegno dei contingenti militari stranieri alla fine del 2014. Il rischio potenziale – a fronte del disimpegno internazionale a cui farà seguito il passaggio di responsabilità alle impreparate forze di sicurezza locali e al debole stato afghano – è che l’Afghanistan si trasformi nel medio termine un ‘narco-stato’. Foto by Magnus Manske (Own work.) [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
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