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Algeria. Le radici di un profondo malcontento sociale

Solo un anno fa, le mobilitazioni facevano presagire una ‘primavera’ sul modello tunisino. Oggi quelle aspettative di cambiamento sembrano solo un lontano ricordo. Forse. Perché in realtà la situazione sociale e politica resta esplosiva. Ecco la prima parte di una riflessione sull’Algeria di oggi, a cinquant’anni da un’indipendenza che aveva fatto tremare la Francia.

 

 

 

di Anthony Santilli

 

Forse perché l’Algeria è costantemente associata alle immagini di una guerra di liberazione che, unica nel panorama mediterraneo, è riuscita a scardinare attraverso la guerriglia armata il potere coloniale occidentale. O forse per il ruolo di leader del fronte terzomondista che il paese ha assunto negli anni successivi.

Fatto sta che, quando nel gennaio del 2011 le proteste di massa si sono estese anche alle città di Algeri, Orano, Costantina, in perfetta continuità con quanto stava accadendo in Tunisia, molti analisti, nel mondo arabo come in Occidente, hanno creduto possibile un reale mutamento della situazione nel paese.

Così non è stato. Almeno sino ad oggi.

 

 

Un paese ricco, ma per chi?

 

L’Algeria è un paese con una crescita che negli ultimi anni si attesta intorno al 4% annuo del PIL. E’ tra i principali esportatori di idrocarburi al mondo, e i proventi entrano in gran parte direttamente nelle casse dello Stato, visto che la loro gestione è affidata a compagnie a totale partecipazione pubblica.

Una rendita che è aumentata sensibilmente negli ultimi mesi, grazie all’innalzamento a livello globale dei prezzi di petrolio e gas naturale.

Verrebbe da chiedersi come mai nel gennaio 2011 un paese così “ricco” abbia sofferto una crescita media del prezzo dei prodotti di sussistenza (zucchero, farina e cereali) pari al 30%, al punto da spingere la popolazione a protestare in maniera molto accesa.

Un malcontento generalizzato, che in realtà nasce da un’iniqua distribuzione delle enormi risorse detenute dal sistema-paese. Accentuata dal lento e inesorabile sgretolamento di quello stato sociale che, all’epoca di Ben Bella all’inizio degli anni Sessanta, era considerato il cardine dell’Algeria indipendente.

Un disagio che ha preso progressivamente piede già prima dello scorso gennaio. Il noto giornalista Noureddine Khelassi, citando fonti della Gendarmerie nationale, ricorda come solo nel 2010 si siano registrate più di mille mobilitazioni a carattere sociale e che, nella prima metà del 2011, le mobilitazioni si siano susseguite nell’ordine di un centinaio al mese.

Per comprendere questa ondata di proteste è necessario fare tuttavia un passo indietro. Perché la storia delle mobilitazioni della popolazione algerina è un continuo crescendo sin dalla metà degli anni Ottanta.

 

 

Una primavera precoce

 

Il nuovo corso improntato al liberalismo economico dell’allora presidente Chadli Benjedid aveva innescato proteste che, frammentate e discontinue nei primi tempi, fecero da apripista all’enorme mobilitazione del 1988 che coinvolse tutti gli strati della popolazione.

Il binomio FLN (Fronte di Liberazione Nazionale)-esercito, che aveva dominato il paese sin dall’indipendenza, era oramai in crisi.

Era la fine del sistema del partito unico. Le autorità furono costrette a promettere “libertà di espressione e di associazione”. La sua primavera, l’Algeria la stava vivendo in quel periodo, vent’anni prima rispetto al resto del mondo arabo.

Questo importante percorso di emancipazione fu tuttavia interrotto dalla guerra civile che ha insanguinato il paese negli anni Novanta, a seguito dell’interruzione del processo elettorale (il primo nella storia algerina) e del successivo colpo di Stato del 1992 ad opera dei militari.

Le vittime furono decine di migliaia. Una cicatrice ancora lontana dal rimarginarsi.

Considerato tuttavia nell’ottica del processo di emancipazione della classi subalterne, quel decennio ha visto nascere anche importanti fenomeni di aggregazione.

Sfruttando l’effimero atteggiamento di apertura delle autorità algerine verso la società civile, proprio in quel periodo sono nati i primi sindacati autonomi.

 

 

I Sindacati autonomi

 

Per sindacati autonomi intendiamo delle sigle che hanno deciso di nascere sganciandosi completamente dalla Union Générale des Syndicats algériens (UGTA) l’organizzazione che, al servizio del partito unico del FLN sin dal 1963, ha sempre svolto un’azione di cooptazione delle spinte che venivano dal basso.

Almeno inizialmente, questi sindacati autonomi hanno avuto un ruolo importante nel rivelare le reali rivendicazioni di alcune fasce del mondo del lavoro in Algeria.

Principalmente attivi nei settori della sanità, dell’insegnamento e dell’amministrazione pubblica, le nuove sigle autonome hanno saputo mostrare tutte le contraddizioni che partiti e sindacati tradizionali hanno messo in piedi negli ultimi anni, avallando le politiche economiche dei diversi governi.

Secondo lo studio condotto negli ultimi anni dal professor Ahmed Bouyacoub, economista dell’Università di Orano, nel 1985 il consumo procapite dell’Algeria era superiore a quello di paesi come il Marocco, l’Egitto, la Tunisia, l’Iran e alla maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Da quel momento in poi l’inesorabile declino.

Questo perché il ‘nuovo corso liberale’ ha prodotto nel tempo un’economia che ignora la crescente marginalizzazione sociale delle classi subalterne, soprattutto delle nuove generazioni. Di qui il ritmo incalzante delle mobilitazioni popolari. 

Rispetto a quelle degli anni Ottanta, quelle attuali mostrano un’accresciuta capacità organizzativa, alla quale è corrisposta un altrettanto efficace attività repressiva da parte del regime.

Emblematici i tentativi di destabilizzazione dell’attività dei sindacati autonomi. Dopo i primi successi degli anni Novanta, l’azione repressiva del DRS (letteralmente: Département de Renseignements et de Sécurité ; la polizia politica militare) non si è fatta attendere.

 

 

Inedite strategie repressive

 

Arresti e licenziamenti arbitrari, così come è sempre più frequente la sospensione dei salari degli esponenti più politicizzati. Ma come ha descritto efficacemente il Comitato internazionale di sostegno al sindacalismo autonomo algerino (CISA) in un dossier del 15 novembre 2009, l’azione denigratoria nei confronti di questi organismi è stata (ed è tuttora) molto più sottile.

Sul modello di quanto avvenuto in passato anche nel sindacalismo autonomo europeo, il regime cerca infatti di incoraggiare la formazione di correnti dissidenti all’interno di queste sigle. Una dissidenza volta a denigrare l’operato della classe dirigente.

Una volta create divergenze interne alle organizzazioni, si creano delle strutture “clone” che, con lo scopo di confondere la base, arrivano addirittura a costruire delle iniziative ultraradicali di breve respiro, mediaticamente importanti ma destinate a fallire.

Emblematico l’esempio del Sindacato nazionale autonomo del personale dell’amministrazione pubblica (SNAPAP). Quando nella primavera del 2004 lo SNAPAP aveva dichiarato di non voler sostenere la ricandidatura di Bouteflika alle presidenziali, subito è nato un sindacato-clone che ha convocato un congresso, ottenendo il sostegno finanziario dell’apparato statale.

E mentre la base era disorientata da un dualismo prima sconosciuto, la classe dirigente dello SNAPAP veniva stata sostanzialmente emarginata.

Nonostante questo, i sindacati autonomi hanno costruito delle interessanti mobilitazioni unitarie, volte a smantellare quell’ottica corporativistica che aveva in parte minato la loro azione.

Da questo punto di vista, lo sciopero unitario dell’aprile del 2008 ha avuto un impatto enorme, non solo per la significativa partecipazione registrata.

Ha infatti mostrato come fosse possibile scardinare quella dialettica regime/sindacati filo-istituzionali che non ha prodotto sino ad oggi nessun risultato significativo.

 

 

Un malcontento solo sociale?

 

La strategia del regime algerino per fronteggiare questo profondo malcontento e minare le pratiche di autorganizzazione è abbastanza chiara.

Nel 2011 un budget di circa 4 miliardi di euro è stato previsto per un incremento generalizzato dei salari. Altri tre miliardi sono stati destinati invece a calmierare i prezzi dei beni di grande consumo.

In questo modo le autorità tentano di minare alla base tutta una serie di proteste e mobilitazioni che, da strettamente sociali, stanno rapidamente assumendo un carattere politico.

Nel giugno scorso ad esempio, il segretario del Sindacato autonomo dell’educazione e della formazione (SATEF), Boualem Amoura, è arrivato a chiedere la dissoluzione dell’attuale Parlamento e la creazione di un’assemblea costituente entro la fine dell’anno.

E’ questa, oggi, la principale preoccupazione del regime algerino.

Grazie alle risorse che il paese ha a disposizione dai proventi di petrolio e gas naturale, sarà possibile nei prossimi mesi continuare a placare la piazza attraverso un’importante politica assistenziale.

Tutto, purché non si tocchino gli ingranaggi politici che regolano le relazioni di potere.

Emblematica in proposito la dichiarazione riportata da France24 di Abdelhamid Si Afif, deputato del FLN, e membro dell’Alleanza presidenziale che regge oggi il paese: “Non vedo alcuna valida ragione che potrebbe spingere il popolo [algerino NdR] a scendere per strada. Potrebbe manifestare contro la disoccupazione, la corruzione e la riduzione del potere d’acquisto dei salari, ma non di certo per delle ragioni politiche”.

 

February 28, 2012

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