Le elezioni presidenziali si avvicinano e la temperatura politica sale. Cresce anche il controllo e la (re)pressione sui media, come testimoniano gli ultimi processi avviati contro giornalisti, caricaturisti e semplici internauti.
Nelle scorse settimane il ventiquattrenne Abdelghani Alaoui – alias Malik Liberter per i frequentatori dei social network – è stato arrestato con l’accusa di “oltraggio al Presidente della Repubblica, a corpo costituito dello Stato” e “apologia del terrorismo”.
La sua colpa? Aver diffuso su Facebook alcune caricature di Bouteflika e del premier Sellal, accompagnate da commenti caustici sull’ipotesi di un quarto mandato del Presidente in carica.
Il giovane – di modesta estrazione sociale, cresciuto nella banlieue di Tlemcen – si trova in carcere ad Algeri dal 25 settembre scorso. Il processo è ancora in corso, rischia una condanna fino a 10 anni di prigione.
Per questo alcune Ong locali e internazionali si sono subito mobilitate in favore della sua scarcerazione e dell’abbandono del procedimento giudiziario. “Le autorità algerine sembrano voler soffocare le critiche in questo periodo di incertezza che precede le elezioni presidenziali, previste per la prossima primavera”, ha dichiarato in un comunicato Philip Luther, responsabile dell’area MENA di Amnesty International.
La continuità di potere assicurata da un’eventuale rielezione di Abdelaziz Bouteflika sembra infatti minacciata, in primis, dalle sue precarie condizioni di salute e dalla scarsa credibilità che la malattia e le lunghe assenze conferiscono al Capo dello Stato.
D’altro canto, la preparazione dell’appuntamento elettorale lascia già trapelare i crescenti contrasti sulla “successione” maturati in seno ai clan militari, che detengono – dietro le quinte – il vero controllo sull’apparato politico e sulla gestione delle risorse economiche (idrocarburi) del paese. Le guerre intestine al FLN (Front de libération national, primo partito in Parlamento) e le recenti accuse formulate dal suo segretario all’indirizzo della polizia politica ne sono una palese testimonianza.
E’ in questo clima di tensione che deve essere collocata una vicenda all’apparenza marginale, come quella che ha coinvolto Abdelghani Alaoui, ma che in realtà denota la tendenza “paranoica e repressiva” a cui può giungere il governo, fanno sapere alcuni giornalisti locali.
Nel suo documento di denuncia, Amnesty ha inoltre invitato le autorità algerine “a rivedere le leggi che trasformano la diffamazione in reato penale e a mettere fine al ricorso alla legislazione anti-terrorismo – troppo vaga e strumentalizzabile – per sanzionare le critiche non violente”.
La procura della capitale e buona parte dei media di servizio, invece, insistono sulla pericolosità del giovane internauta, sottolineando la sua possibile vicinanza alle reti dell’estremismo religioso: Alaoui avrebbe inviato, sempre sui social network, un appello al jihad. Ma anche in questo caso, la reazione degli attivisti non scagiona la deriva delle autorità.
“Se Abdelghani è stato arrestato per aver incitato al jihad, perché non si adottano le stesse misure contro Ali Belhadj [noto leader islamista, nda] che effettua liberamente questo tipo di appelli tutti i venerdì? Se invece sono le caricature di Bouteflika a dar fastidio, cosa si dovrebbe fare ai disegnatori Hic e Dilem che pubblicano correntemente vignette sul Presidente, perfino sulla stampa straniera?”, afferma il blogger Amarouche Nedjaa.
Un altro cyber-attivista, 7our, rincara la dose: “il giovane Alaoui è un detenuto d’opinione. Possiamo non essere d’accordo con le sue idee, ma ad essere messa in causa – con il suo arresto – è la libertà di espressione. Io stesso considero stupidi alcuni suoi propositi, ma certamente non una minaccia all’ordine pubblico. Del resto, se dovessimo mettere dentro tutti quelli che pronunciano discorsi assurdi, questo paese assomiglierebbe ad un enorme gulag”.
Non è la prima volta, in Algeria, che un internauta finisce nel mirino delle autorità.
Nel maggio 2012 Tarek Mameri era stato condannato ad otto mesi con la condizionale e ad una multa di 100 mila dinari (circa mille euro) per aver invitato in rete a boicottare le elezioni legislative. Nel luglio dello stesso anno, l’attivista Saber Saidi era stato accusato di “apologia del terrorismo” per aver diffuso alcuni video delle “rivoluzioni arabe”; è stato rilasciato e prosciolto lo scorso aprile, dopo nove mesi di carcere preventivo.
Il controllo della rete da parte del governo, o di alcuni suoi apparati, è una realtà consolidata. Esiste un apposito organismo incaricato di questo compito, il Groupement de contrôle des réseaux, che fa capo ai servizi di sicurezza ministeriali.
Un esempio del lavoro compiuto dal Gcr, il blocco dei social network in alcune regioni – con l’obiettivo di disturbare l’organizzazione delle manifestazioni – durante le settimane di contestazione vissute in Algeria ad inizio 2011.
Oggi come allora, seppure per motivi diversi, la situazione nel paese sembra essere assai delicata. Gli equilibri di potere sono fragili e le conseguenze sul piano della libertà di espressione potrebbero portare a misure drastiche.
“Con un uditorio a dir poco confidenziale – appena 130 mi piace sulla sua pagina facebook – e disegni piuttosto infantili, che senso possono avere le accuse pesanti rivolte contro uno sconosciuto come Abdelghani Alaoui, se non quello di mandare un messaggio a tutta la sua generazione? Non è altro che un’intimidazione..”, continua il blogger 7our.
Le nuove nomine alla testa dei pervasivi servizi militari (DRS) e le recenti ritorsioni attuate contro i giornalisti non lasciano sperare niente di buono in questo senso. Nelle scorse settimane un cronista del quotidiano El Khabar è stato apertamente minacciato di denuncia per diffamazione dal Ministero della Difesa, che non ha gradito l’articolo su una conferenza stampa tenuta dal vice-ministro. Un corrispondente del sito di informazione Kabyle.com, invece, ha visto confermata in appello la condanna a due mesi con la condizionale, per un pezzo scritto in occasione delle elezioni locali tenute lo scorso anno.
Provvedimenti che hanno il sapore del regolamento di conti, in un settore come quello della carta stampata, dove i giornali faticano a difendere (in pochi casi) o trovare (in tanti altri) la propria indipendenza.
Il primo ostacolo è di carattere legislativo: sebbene il nuovo codice dell’informazione non preveda più pene detentive, l’autorità giudiziaria continua ad applicare gli articoli del codice penale per reati a mezzo stampa, disconoscendo il principio della preminenza della legge specifica su quella generale.
Inoltre, nonostante la fine dell’esclusiva statale sul settore risalga al 1989, per poter comparire nelle edicole i nuovi titoli devono tuttora ricevere un’autorizzazione governativa. Ancor più grave in materia di controllo, tuttavia, il monopolio mantenuto dall’esecutivo sulla ripartizione degli introiti pubblicitari, senza contare il passaggio pressoché obbligatorio, per i giornali, attraverso le tipografie e i canali di diffusione pubblici.
Solo i quotidiani El Watan ed El Khabar, infatti, dispongono di un polo di stampa e distribuzione autonomo; non a caso sono tra i più colpiti dai provvedimenti repressivi delle autorità. Un simile contesto “riduce sensibilmente il margine di manovra dei giornalisti e condiziona la linea editoriale delle pubblicazioni che spesso ricorrono all’autocensura”, si legge nel rapporto annuale di Reporters sans frontières.
Proprio come è successo nei giorni scorsi al caricaturista Djamel Ghanem, denunciato dallo stesso direttore del giornale (La voix de l’Oranie) per una vignetta raffigurante Bouteflika non ancora pubblicata.
“La grande miseria dei paesi sottosviluppati non sta nella pancia ma nella testa. Nella suscettibilità con cui il dittatore cerca di salvaguardare l’immagine di se stesso. Si tratta della stessa malattia che blocca l’apertura al pluralismo del settore audiovisivo, che impone il rigido controllo delle raffigurazioni, la chouroukizzazione delle linee editoriali [Al Chourouk è uno dei quotidiani di riferimento del regime, nda] e la tenuta di questi processi grotteschi”, è il commento del giornalista e scrittore Kamel Daoud in merito alla stretta autoritaria – in tema di libertà di espressione – esercitata dall’esecutivo nelle ultime settimane.
Per l’attivista 7our l’avvio di “una caccia alle streghe, agli internauti, ai blogger e ai commentatori” sarebbe controproducente per le stesse autorità.
“Significherebbe, sul piano internazionale, il passaggio dell’Algeria da un regime di semi-libertà ad uno Stato di polizia. Mentre sul piano interno, più la pressione del potere è forte, più l’esplosione popolare – una volta finita la manna della rendita petrolifera – rischia di essere violenta”.
November 14, 2013di: Jacopo GranciAlgeria,Articoli Correlati:
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