Yemen: se il gioco delle influenze esterne ostacola la riconciliazione nazionale

Dopo lunghe attese e incertezze, lo Yemen è chiamato a disegnare il futuro assetto dello proprio Stato. Tensioni interne e influenze esterne rischiano tuttavia di ridimensionare le prospettive di riuscita del ‘dialogo nazionale’.

di Ludovico Carlino

Nonostante nello Yemen “Dialogo Nazionale” sia il termine più in voga in queste ultime settimane, l’aria che si respira nel paese è ben diversa.

Il movimento secessionista del Sud, Herak, continua a rimanere fermo nella sua richiesta di autodeterminazione e secessione, con una persistente campagna di disobbedienza civile che ogni settimana – ad Aden, Mualla, Mukalla e Lahji – viene repressa con la forza dalle armi.

Nella capitale non accenna a fermarsi la campagna di assassinii ai danni di leader tribali, esponenti del movimento Houthi e funzionari del governo che sta contribuendo a radicalizzare gradualmente le posizioni delle fazioni presenti nella conferenza.

Nella provincia di Abyan e di Hadramawt il quadro appare ancora più complesso, con i militanti di al-Qaeda nella Penisola Araba che mantengono alta la pressione sull’autorità centrale con attacchi quotidiani di cui è la popolazione locale in definitiva a pagarne il prezzo finale.

È vero che non si tratta di problemi nuovi per lo Yemen, ma la crescente tensione che sta accompagnando il cammino del Dialogo Nazionale chiarisce che la conferenza non può essere in questo momento la panacea per i mali del paese.

Riunire 555 delegati provenienti da segmenti differenti della società yemenita rappresenta senza dubbio un elemento di positività dopo 30 anni di governo autocratico.

Tuttavia il problema concreto risiede nel fatto che non tutte le parti coinvolte sembrano avere un interesse reale nella riuscita di questo processo.

Per i leader del Sud, continuare a lanciare appelli per una separazione significa perdere di vista le reali necessità e sfide che lo Yemen intero è chiamato ad affrontare.

In parte significa anche sfruttare per il proprio interesse la disaffezione della popolazione locale nei confronti del governo centrale.

Perché è vero che gli squilibri tra le due parti del paese sono evidenti e che le fratture della guerra civile del 1994 non sono mai stati ricuciti (sia a livello politico, sia sociale), ma è altrettanto vero che una divisione nel contesto attuale sarebbe una catastrofe economica e politica tanto per San’a quanto per Aden.

Il sud, dominato dalle faide tribali e militanti, avrebbe scarse possibilità di gettare in questo modo le basi per una realtà più equa e funzionale, finendo al contrario per creare il terreno propizio per nuove lotte intestine che andrebbero ad intaccare direttamente il tessuto sociale delle province meridionali.

Del resto, come alcuni osservatori yemeniti hanno correttamente suggerito, è stato in gran parte nel nord che si è lottato per la caduta del passato regime, ed è da queste premesse che si dovrebbe trovare un punto di condivisione per la creazione di un nuovo sistema.

Questa distanza è poi approfondita dall’attitudine stessa dell’esecutivo yemenita, che sembra quasi evitare di riconoscere l’esistenza di una questione meridionale, associando con troppa linearità le problematiche legate alla sicurezza, la crescente influenza di attori esterni, e le rivendicazioni del Sud nei confronti dell’assenza di governance nelle proprie province.

La questione delle influenze esterne rappresenta difatti il secondo asse che continua a premere contro la riuscita del processo di Dialogo Nazionale.

È ormai sempre più evidente che la mano dell’Iran nel tentare di sponsorizzare parte del movimento meridionale stia andando ben oltre il puro appoggio politico, puntando ad una radicalizzazione di alcune delle fazioni di Herak nell’intento di far deragliare qualsiasi prospettiva di riconciliazione tra le due parti del paese.

Già alla fine dello scorso anno alcuni giovani attivisti del movimento avevano ammesso che funzionari iraniani si erano offerti di fornire addestramento militare ed armi ad alcuni di loro, con Teheran che aveva poi finanziato una conferenza del movimento organizzata proprio nella capitale iraniana.

Negli ultimi due mesi la questione ha poi assunto toni più evidenti, con almeno 4 spedizioni di armi iraniane intercettate nel porto di Aden e accuse dirette rivolte dall’amministrazione Hadi a Teheran.

L’ultimo di questi avvertimenti è accaduto in settimana a Mosca, dove il presidente yemenita ha apertamente attaccato Teheran per la sua continua intromissione negli affari interni del suo paese e gli ostacoli posti nel suo cammino verso la stabilità.

In Russia Hadi si trovava per cercare nuovi possibili sponsor disponibili a sostenere la disastrata economia nazionale, ma dall’ex superpotenza è in realtà tornato con in mano un pacchetto di contratti per la fornitura militare tra cui mezzi corazzati, velivoli per la difesa contraerea e nuovi elicotteri.

Se da un lato la sigla di questi accordi non fa che confermare il ruolo leader della Russia nel mercato mondiale della vendita di armi, dall’altra l’interesse del Cremlino verso lo Yemen suggerisce il tentativo di Mosca di sondare nuovi canali in Medio Oriente nella prospettiva di una sempre più probabile caduta del regime Assad.

Mosca che era stata tra l’altro il principale sponsor politico, economico e militare dello Yemen del Sud negli anni del suo esperimento comunista (quello della cosiddetta Repubblica Democratica Popolare dello Yemen), si troverà probabilmente a finanziare la macchina repressiva di Sanaa nella tragica prospettiva di un conflitto con Aden.

Nel gioco delle influenze esterne non poteva mancare l’Arabia Saudita, che nelle ultime settimane ha espulso circa 20000 espatriati yemeniti dopo ratifica di una legge che obbliga tutti i lavoratori a lavorare solamente con quegli individui o organizzazioni che li hanno portati nel regno.

Il decreto potrebbe colpire più di 500.000 migranti yemeniti, con un possibile flusso di rientro che il paese non sarebbe in grado di gestire in considerazione dei suoi tassi di disoccupazione alle stelle (e senza contare il fatto che le rimesse dei lavoratori si aggirano sui due miliardi di dollari ogni anno).

La questione ha già creato una mezza crisi diplomatica tra i due vicini, ma nonostante i sauditi abbiano fato riferimento a semplici procedure legali, la decisione di Riyadh sembra essere più che altro politica.

Il prossimo maggio scadrà difatti il termine fissato dal governo yemenita per ricevere proposte d’investimento da parte di compagnie internazionali per cinque nuove aree estrattive nel bacino petrolifero di Al-Sabateen, al confine con il regno.

I sauditi avrebbero chiesto al Governo yemenita di dare la precedenza alla loro Aramco, in sostanza senza competizione con altre compagnie, proposta gentilmente riconsegnata al mittente da Sanaa che ha risposto di voler valutare tutte le offerte sul tavolo.

Riyadh avrebbe quindi optato per il suo potere d’influenza, con una mossa che sa perfettamente di poter mettere in ginocchio il paese dal punto di vista economico e sociale. E che chiarisce come le sorti e la tenuta del Dialogo Nazionale si giochino in gran parte oltre confine.

April 5, 2013

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