L’haqed (“l’arrabbiato”) è un enfant du peuple divenuto il simbolo della protesta marocchina, che continua a far sentire la sua voce per chiedere “una vera democrazia”. Ogni giorno che Mouad trascorre in carcere, aumenta la sconfitta di un regime che si fa vanto di essere entrato nella “nuova era” dei diritti e del rispetto delle libertà.
di Jacopo Granci da Rabat
Mouad Belghouat, alias L’haqed, ha un volto dai tratti gentili e una visiera ben calzata sulla fronte.
Ha iniziato a rappare nel 2004, con gli amici del quartiere Oukacha, nella periferia nord di Casablanca.
Il suo ingresso nella scena hip hop marocchina, sintomo fino a quel momento di un’effervescenza artistica attenta a non varcare la frontiera della militanza politica, non ha tardato a destare scalpore.
Le sue liriche dissidenti hanno presto infranto le “linee rosse” con cui il regime ha imbavagliato la libertà d’espressione nel paese.
L’haqed non ha paura di affrontare temi da cui gli artisti e gli intellettuali del regno si tengono sempre più lontani. Canta il risveglio delle coscienze, invita il popolo ad alzare la testa (“non siamo sudditi”, recita il testo de Il ribelle) denuncia la hogra dei quartieri popolari e si scaglia contro l’onnipotenza del sovrano e gli abusi della polizia (che definisce senza mezzi termini klab dawla, “cani dello Stato”).
“Finché il potere resterà nelle mani di una sola persona/io continuerò ad essere ‘arrabbiato’/i partiti politici e la costituzione servono solo da facciata/gli ordini li dà chi ha in mano il volante”.
Per i difensori dello status quo, Mouad è un traditore della nazione e la sua musica è vietata nelle radio e nei canali ufficiali (lui la diffonde gratuitamente su internet).
Invece per quei ragazzi stanchi di un regime che parla di cambiamento ma non scalfisce la sua natura dispotica e clientelare, è il simbolo di una resistenza che è riuscita ad abbattere il muro della paura.
“Il coraggio di Mouad ci dà speranza, al contrario dell’attitudine dei nostri presunti intellettuali che hanno preferito tacere di fronte al sacrificio dei popoli arabi. La sua è una grande lezione di audacia, propria dell’artista senza concessioni, una definizione sconosciuta a personaggi come Tahar Benjelloun che si prostrano di fronte al potere e non hanno vergogna a farsene portavoce”, riferisce Karim, uno dei promotori della campagna internazionale per la liberazione di L’haqed.
Il giovane rapper, infatti, è in stato d’arresto dal 9 settembre scorso, accusato di aggressione e percosse ai danni di Hamouda Taliani, noto per i suoi stretti rapporti con il moqaddem (funzionario del ministero dell’Interno, ndr) del quartiere e per il suo sostegno alle contro-manifestazioni di regime.
Tuttavia, stando al racconto di alcuni conoscenti presenti al momento del fatto, sarebbe lo stesso Taliani ad aver aggredito Mouad, prima di sporgere denuncia.
Insomma, un copione già scritto che gli oppositori conoscono bene, come ricorda la giornalista Zineb El Rhazoui, fondatrice del Mouvement alternatif pour les libertés individuelles: “il regime continua a far ricorso agli arresti arbitrari e alle intimidazioni per reprimere in maniera subdola le contestazioni. Quando è costretto a trattenere il manganello per evitare le reazioni internazionali, ripiega sui comodi servizi dei procuratori, dei commissari di polizia e dei testimoni a comando. Io stessa ne ho sperimentato più volte l’efficienza”.
Da tre mesi in attesa di un processo, L’haqed resta in prigione e si vede negato il diritto alla libertà provvisoria, nonostante la sua fedina penale sia immacolata e le testimonianze a discarico presentate dall’avvocato.
Il rapper “arrabbiato” paga così il prezzo per le sue idee e i suoi versi sovversivi, oltre all’adesione e all’appoggio incondizionato offerto alle iniziative del “20 febbraio”.
Fin dall’inizio delle mobilitazioni, infatti, Mouad non ha mai rinunciato a scendere in piazza né a fare sensibilizzazione per le strade, e la sua voce eretica è diventata subito la voce del movimento di protesta che da oltre nove mesi rivendica il passaggio ad un vero sistema democratico, la fine della monarchia assoluta ed una equa redistribuzione delle ricchezze del paese.
“Basta con la paura/siamo tutti stufi di questo regime/guardate il popolo egiziano e guardate i tunisini/chi dice che il Marocco è un’eccezione è un bugiardo/la miseria qui, la miseria è ovunque!”.
Lo stesso movimento nelle ultime settimane ha aumentato la pressione sulle autorità per ottenere la liberazione immediata del suo rappresentante.
Dal 17 al 19 novembre ha lanciato una campagna internazionale a sostegno dei detenuti politici e d’opinione (oltre a Mouad e a decine di militanti del “20 febbraio”, vanno ricordati il sindacalista di Bouarfa Saddik Kabbouri e gli studenti amazigh in carcere a Meknès), durante la quale numerosi gruppi di attivisti hanno circondato le ambasciate marocchine a Parigi, Washington, Montreal e Bruxelles esponendo le foto del giovane rapper.
All’interno dei confini del regno, invece, le contestazioni proseguono nonostante il risultato delle elezioni e la nomina del carismatico Abdelilah Benkirane (leader del partito islamico uscito vincitore dalle urne) alla carica di primo ministro.
Ad ogni appuntamento in strada – l’ultimo domenica scorsa, ribattezzata la “giornata della collera” – i dissidenti intonano le canzoni di Mouad e sventolano le bandiere e gli striscioni che ritraggono il suo volto sorridente.
“Se il popolo vuole vivere/che si desti per difendere i suoi diritti/Fino a quando dobbiamo stare zitti?/Sfruttano le nostre ricchezze/e ci lasciano solo le briciole“, sono i versi più noti, quelli del testo Baraka men skate (“Basta silenzio”).
Mentre gli appelli on-line si moltiplicano, da Globalvoice a Freemuse, la regista Maria Karim, coordinatrice del comitato Liberté pour Mouad L7a9cd, ha deciso di installarsi ad Oukacha, il quartiere popolare nei sobborghi della metropoli atlantica dove L’haqed è cresciuto e dove sorge il carcere in cui ora è rinchiuso.
Maria sta ultimando le riprese del suo documentario sulla primavera marocchina, un’opera che sarà consacrata proprio al giovane musicista. “Questo posto è caloroso e i suoi abitanti mi danno molta ispirazione. Dall’arresto di Mouad, è diventato uno dei focolai della contestazione”, ha dichiarato la regista, vittima delle minacce della polizia e di alcuni fermi nel mese di ottobre, prima di concludere: “ho sentito il bisogno di impegnarmi in prima linea, pur sapendo che sarei andata in contro a mille difficoltà. Non ritengo giusto che un artista, per quanto scomodo e impegnato, possa finire in carcere con tanta semplicità”.
Alle sue parole fanno eco le centinaia di sostenitori che ogni giorno inviano messaggi di solidarietà al comitato (freemouad@gmail.com): “dove è finita la libertà di pensiero, di opinione e di espressione sancita dall’articolo 25 della costituzione?”; “cosa possiamo aspettarci da uno Stato che mette i suoi artisti in prigione?”.
Quanto alla recente convocazione del rapper di fronte al procuratore di Ain Sebaa (Casablanca) e il probabile inizio del processo a suo carico, nessuno sembra farsi illusioni, tanta è la sfiducia nei confronti di una giustizia troppo spesso al servizio delle autorità.
Del resto, come ricordato in un articolo apparso recentemente sul sito Afrik.com, “il Marocco sembra intenzionato, almeno a parole, ad aprire le porte alla democrazia. Ma appare evidente che nel paese la legge non è uguale per tutti. Nel settembre 2008, per esempio, Hassan Yacoubi – uno zio del sovrano – dopo aver bruciato un semaforo rosso ha sparato contro l’agente, Tarik Mohib, che stava verbalizzando la sua infrazione. Nel 2010 invece, il figlio di Khalid Naciri, ministro della Comunicazione e portavoce del governo, ha accoltellato un automobilista di fronte al Parlamento. Nessuno dei due è mai finito in tribunale e men che meno è mai stato inquisito”.
photo by Arte
December 6, 2011
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