Nei dintorni di Khenifra, lungo le alture del Medio Atlante, lo sfruttamento intensivo minaccia la sopravvivenza delle conifere. La rabbia della popolazione, privata di una risorsa ancestrale senza contropartita, è esplosa con l’uccisione di un ragazzo da parte della forestale, e si è trasformata in rivolta.
Dalla fine del Protettorato francese, nelle pendici e nelle vallate dell’entroterra marocchino si combatte una “guerra” silenziosa. La guerra per l’accesso alla terra – confiscata dai coloni alle tribù e collettività locali e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell’indipendenza – e per la redistribuzione delle risorse naturali in essa contenute.
Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili e particolarmente adatti alle coltivazioni di natura intensiva, o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati dichiarati edificabili, il copione degli ultimi sessant’anni è più o meno lo stesso.
Le terre collettive posizionate nei dintorni dei villaggi, in prevalenza berberofoni, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario sono passate – attraverso l’espropriazione francese – sotto il controllo del ministero dell’Interno che ne assicura “la tutela” (e di conseguenza la vendita, la cessione o lo sfruttamento a seconda dei casi).
Questo schema non risparmia le foreste e i pascoli delle catene dell’Atlante, e ancor meno i boschi di cedri, risorsa concentrata soprattutto nelle alture del Moyen Atlas (Marocco centrale) attorno a cui si è costituita nel tempo una fitta rete di ingiustizie e corruzione.
Durante la settimana appena trascorsa, due avvenimenti hanno riportato l’attenzione – non molta per la verità – su questa “guerra a bassa intensità” combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino.
Una guerra che continua a fare vittime, siano esse le preziose conifere minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, o le decine di bambini e ragazzi morti per il freddo e la malnutrizione nel villaggio di Anfgou, o ancora i “bracconieri” del posto – che cercano nel contrabbando del legno una scappatoia alla povertà – sorpresi durante la notte dagli agenti della Delegation des eaux et forets (la forestale locale).
E’ quanto successo pochi giorni fa nei boschi di Ajdir, dove un ragazzo di 24 anni è stato ucciso dalle guardie a colpi di arma da fuoco mentre stava effettuando un “abbattimento illegale” assieme ad altri abitanti della zona.
Nelle stesse ore l’organizzazione International Union for Conservation of Nature (IUCN) pubblicava un rapporto sullo stato di conservazione delle conifere, in cui il cedro dell’Atlante viene classificato “in pericolo” (in precedenza definito “preoccupante”).
Nella foresta di Ajdir – come in quella di Anfgou, di Tounfite o di Toujjit – gli imponenti arbusti che un tempo ricoprivano le montagne, tanto stimati dagli ebanisti, si stanno facendo sempre più rari. La progressiva scomparsa dei cedri rischia di perturbare l’equilibrio ecologico di un’intera regione, che racchiude al suo interno oltre la metà della biodiversità del regno e la principale riserva d’acqua del paese.
Tuttavia, quella combattuta lungo i pendii del Medio Atlante, non è una semplice “guerra” tra bracconieri e guardie forestali. La realtà è più complessa e le prospettive più inquietanti.
Il pregiato legname, infatti, costituisce da sempre una risorsa irrinunciabile per la popolazione locale, che non ha altri mezzi di sussistenza – se non la caccia o il magro allevamento di ovini – in una zona montagnosa lasciata ai margini dello sviluppo economico. Abbattere un albero e venderlo, da queste parti, è un’opzione a cui si è sempre fatto ricorso nei momenti di necessità, senza per questo compromettere l’ecosistema e, al contrario, ponendo la sua salvaguardia al centro delle priorità delle confederazioni tribali stanziate nel territorio.
Ma negli ultimi decenni il contesto è cambiato. La foresta, che apparteneva ai suoi abitanti, è diventata territorio “protetto” dalle istituzioni statali, le sole autorizzate a gestirne contenuto e proventi. Assieme alle leggi e all’amministrazione sono arrivate però anche altre “pratiche correnti” che hanno accompagnato l’edificazione del Marocco moderno: corruzione e sottrazione dei beni pubblici.
Così si è strutturata e radicata quella che l’attivista Aziz Akkaoui definisce “la mafia del cedro”.
“Non ci sono soltanto i bracconieri che tagliano i tronchi illegalmente, ma anche i falegnami che comprano il legno, gli agenti corrotti della Delegation des eaux et forets che chiudono un occhio, i funzionari locali e ministeriali che partecipano ai guadagni e insabbiano le inchieste…”, spiega Akkaoui, responsabile della sezione dell’Amdh (Associazione marocchina per i diritti umani) di Khenifra, capoluogo regionale.
Inoltre, continua l’attivista, non è solo il commercio del taglio abusivo ad alimentare il circuito.
Secondo la legislazione nazionale, i comuni hanno il diritto di organizzare periodicamente l’abbattimento e la vendita legale delle conifere, utilizzate per fabbricare ogni sorta di mobilio e segno di opulenza nelle grandi dimore marocchine. La sola clausola imposta alle amministrazioni è di reinvestire il 75% dei (sostanziosi) ricavi nello sviluppo del territorio e nel rimboschimento.
Ma gli abitanti affermano di non aver mai beneficiato di un tale ritorno. “Basta guardare in giro, non c’è nulla. Qui si vive nella miseria. Dove vanno a finire i soldi che i comuni incamerano con la vendita dei cedri?” – si chiede Akkaoui -. “Non c’è lavoro, non ci sono scuole e di ospedali neanche a parlarne. Servono politiche per l’impiego, investimenti, infrastrutture, qualunque cosa possa riuscire a migliorare la nostra condizione”.
I responsabili della forestale e le autorità locali, dal canto loro, respingono le denunce degli abitanti e degli attivisti, riparandosi dietro alla mancanza di prove a sostegno delle accuse di complicità e malversazione.
Per la verità chi ha provato a fare nomi e fornire dettagli sul funzionamento di questa mafia, come il funzionario e giornalista Mohammed Attaoui, si è ritrovato in prigione, senza lavoro, ed è diventato oggetto di “particolari attenzioni” da parte della giustizia marocchina.
O come Said Ait Aziz, fondatore dell’Associazione Idikel per la protezione dell’ambiente, vittima di ritorsioni (minacce, intimidazioni, aggressioni..) per la sua ostinazione nell’opporsi alle reti del commercio clandestino.
Nei piccoli villaggi dell’Atlante intanto, anche la popolazione continua a ricorrere al taglio illegale dei cedri, sia come bassa manovalanza del più ampio circuito di sfruttamento sia, soprattutto, come iniziativa individuale dettata dalla necessità di sopravvivenza. Il prezzo per un tronco di dimensioni adulte può arrivare fino a 800 euro nel mercato nero: di che sfamare la famiglia per qualche mese, in mancanza di alternative.
In questo modo la gente cerca di accaparrarsi una piccola parte della torta, stanca di vedere le sue risorse ancestrali partire altrove, spiega l’attivista e poeta amazigh Ali Khadaoui.
“Dall’epoca del Protettorato gli abitanti della regione osservano sfilare decine di camion al giorno carichi di legname e carbone, mentre loro possono permettersi solo lamiere o plastica per proteggersi dal freddo glaciale dell’inverno. Questa situazione non può più durare. Le guardie forestali, poi, se la prendono con i più deboli, quando tutti sanno che i responsabili del disboscamento selvaggio e del vero bracconaggio sono ben altri”.
Il sentimento di ingiustizia è sempre più diffuso tra la popolazione e la tensione monta facilmente. Basta poco per accendere la miccia. Così la settimana scorsa, l’uccisione di un ragazzo ad opera degli agenti di pattuglia nel bosco si è trasformata subito in rivolta. Gli abitanti del villaggio di Ait Amou Aissa hanno marciato con il feretro in spalla verso la sede della provincia di Khenifra per chiedere giustizia e un risarcimento per la famiglia del defunto (che ha lasciato un figlio e una moglie in cinta).
Migliaia di persone si sono aggregate al corteo ed hanno camminato per 24 km gridando tutta la loro rabbia e la loro frustrazione. Nel tentativo di bloccare la manifestazione, le autorità e le forze dell’ordine hanno richiesto perfino l’intervento di alcune unità dell’esercito, con il risultato di attizzare ancor più la folla e far degenerare la protesta in scontri ed episodi di violenza (il bilancio finale, secondo l’Amdh, è di 18 arresti tra cui alcuni minorenni).
Soltanto l’apertura (tardiva) di un dialogo con i manifestanti da parte del governatore provinciale, con la promessa di avviare un’inchiesta sull’accaduto, è riuscita a calmare – per il momento – una sollevazione popolare destinata a diventare esplosiva e ad iscriversi nella lunga serie di rivolte locali (Boumalen, Imilchil, Sidi Ifni, Beni Bouayach..) che ha caratterizzato il passato recente del regno.
“E’ importante tenere alta l’attenzione per fare pressione su chi si trova ai posti di comando nel trovare una soluzione prima che si arrivi al punto di non-ritorno”, conclude Ali Khadaoui, impegnato in prima linea assieme agli altri attivisti del posto nel diffondere e sensibilizzare l’opinione pubblica – cercando così di sopperire al generale mutismo della stampa nazionale – sugli ultimi avvenimenti della “guerra dei cedri”.
“La popolazione è allo stremo e chiede dignità, mentre la foresta ed i suoi esorbitanti proventi si dissolvono senza lasciare traccia. Dove sono gli organismi di tutela teoricamente votati al controllo dei bilanci pubblici? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l’elettricità, se i nostri comuni sono ricchi? Perché le petizioni, le denunce e le richieste di maggior controllo sull’operato delle autorità locali, fino ad ora, non hanno mai portato a niente? Domande che restano senza risposta e che spiegano l’ampiezza di un malessere sociale pronto a deflagrare, come successo nei giorni scorsi a Khenifra”.
*Si ringrazia Ali Fkir per l’utilizzo delle fotografie
July 18, 2013di: Jacopo Granci da Rabat*Marocco,Articoli Correlati:
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