Israele. L’UE, il boicottaggio e il cambiamento. Intervista a Maayan Dak

La verità sulle nuove linee guida dell’UE, la questione dei prodotti delle colonie, il rilancio dei negoziati e le proteste sociali israeliane: “la strada è ancora molto lunga, ma qualcosa si sta muovendo”. Osservatorio Iraq intervista Maayan Dak, attivista della Coalition of Women for Peace e membro di Who Profits.

 

 

 

Da quando sono state annunciate le nuove linee guida dell’Unione Europea sui rapporti con gli insediamenti illegali in Cisgiordania sui mezzi di informazione israeliani non si è parlato di altro per una settimana. 

Annunci e smentite si sono ripetuti e rincorsi, soprattutto sul possibile impatto sull’economia delle colonie, prima ancora che su quella israeliana. 

Presentata inizialmente come una direttiva, e di conseguenza obbligatoria per tutti gli Stati membri, l’UE ha in realtà diramato soltanto delle linee guida che i singoli paesi sono tenuti a considerare come raccomandazioni. E soprattutto riguardano limitati ambiti e sono circoscritti ad una specifica categoria di programmi europei.

Un vero e proprio ‘terremoto’ a cui si sono aggiunti altri due annunci: quello dell’Altro Rappresentante UE sull’etichettatura dei prodotti delle colonie, e la ripresa dei negoziati tra l’ANP e il governo israeliano da parte del Segretario di Stato americano. Tutto questo a tre settimane dal secondo anniversario del primo grande movimento di protesta di massa della storia di Israele che, ancora una volta, ha tenuto fuori dalla piazza la questione palestinese. 

Per fare il quadro della situazione Osservatorio Iraq ha contattato Maayan Dak, attivista della Coalition of Women for Peace, organizzazione femminista contro l’Occupazione e membro di Who Profits, progetto di ricerca indipendente  dedicato a studiare il  coinvolgimento delle compagnie israeliane e internazionali nell’economia dell’Occupazione.

 

Cosa c’è in realtà dietro la recente iniziativa europea?

Non sono al corrente del modo in cui i media internazionali hanno trattato la questione, ma vi assicuro che in Israele c’è stata una confusione incredibile. Credo che il pubblico fatichi ancora a capire cosa stia succedendo perché c’è stata tanta disinformazione. 

Innanzitutto bisogna chiarire che non si tratta di una direttiva, e quindi generante un comportamento obbligatorio da parte degli stati membri dell’UE, ma soltanto di linee guida, che l’UE invita a prendere in considerazione nell’ambito di specifici rapporti con le colonie. Questi però non hanno nulla a che fare con il settore commerciale,  riguardano unicamente la concessione di borse di studio o assegni di ricerca e finanziamenti a università o istituzioni pubbliche di base in Cisgiordania. 

Tuttavia ci sono alcune compagnie che ricevono regolarmente finanziamenti per la ricerca dall’Unione, e pertanto potrebbero rientrare in queste linee guida. Ma non è affatto scontato, perché la questione dei prodotti delle colonie è molto più complessa. 

Molte aziende infatti, pur avendo i laboratori e le fabbriche in Cisgiordania, risultano avere sede legale in territorio israeliano (considerati i confini pre-1967): questo non viene preso in considerazione dalle linee guida e molto probabilmente queste compagnie potranno continuare a beneficiare dei finanziamenti nel campo della ricerca. 

Aldilà degli aspetti commerciali, per contro, qualcosa potrebbe cambiare per quanto riguarda le istituzioni pubbliche. Ad esempio l’università di Ariel (quarta colonia più grande per popolazione, poco più a nord della città palestinese di Salfit, ndr) potrebbe non ricevere più finanziamenti e borse di studio dall’UE.

 

A questo proposito, un altro punto da chiarire è se le linee guida si riferiscono a finanziamenti derivanti da programmi esclusivi dell’UE oppure anche dei singoli Stati..

Questo è un altro aspetto importante perché al riguardo i media israeliani hanno contribuito a creare confusione. Oltre a non essere obbligatorie le linee guida si riferiscono soltanto a programmi dell’UE, e di conseguenza uno dei 28 Stati europei può continuare liberamente a supportare l’università di Ariel, ad esempio.  C’è stato grande clamore per come la vicenda è stata inizialmente presentata, ma in realtà tutto è molto più vago di quanto possa sembrare. 

Ad esempio non è chiaro un altro aspetto, cruciale: il legame tra le banche israeliane e la European Investment Bank (EIB). La maggior parte degli istituti finanziari in Israele è implicata in più o meno tutte le attività delle colonie, dalle costruzioni alle imprese che operano al loro interno, spesso attraverso i prestiti ricevuti dall’EIB. Affrontare questo aspetto significherebbe assestare un duro colpo all’economia degli insediamenti e in generale a quella israeliana, ma anche in questo caso le linee guide europee sembrano non dire nulla al riguardo. 

 

Eppure, pochi giorni dopo la notizia della pubblicazione delle linee guida l’Alto Rappresentante dell’UE, Catherine Ashton, ha dichiarato che entro la fine dell’anno l’UE adotterà un sistema di etichettatura dei prodotti delle colonie. C’è da aspettarsi un nuovo approccio europeo generale nei confronti dell’Occupazione?

La questione dell’etichettatura dei prodotti è fondamentale e noi, in quanto ricercatori di Who Profits, siamo rimasti molto sorpresi quando abbiamo visto che non era contemplata nelle linee guida. Fondamentale ma altrettanto complessa, perché noi pensiamo che anche quando i prodotti degli insediamenti saranno riconoscibili per il consumatore la questione non sarà risolta. Questo perché secondo la nostra prospettiva l’economia delle colonie e quella israeliana viaggiano su uno stesso binario: non possono essere considerate separatamente. 

L’economia dell’Occupazione agisce su entrambi i fronti della Linea Verde. Apporre un marchio su un determinato prodotto non sortirà l’effetto automatico di ‘causare danni’ all’economia degli insediamenti. Ma rimane comunque un passo importante. Inoltre, aldilà dell’annuncio di Ashton, c’è stata un’altra notizia che va nella stessa direzione e riguarda la decisione di due importanti catene commerciali europee di cessare la vendita di prodotti delle colonie nei Paesi Bassi. 

Tuttavia, riteniamo importante che al momento le questioni rimangano separate: le linee guida rappresentano una cosa, l’etichettatura dei prodotti (qualora avrà luogo) un’altra, così come il finanziamento delle attività delle colonie da parte delle banche israeliane attraverso i soldi europei.

 

Si può dire dunque che lo spettro del boicottaggio è ancora lontano, rispetto a quanto invece affermato dal ministro della Giustizia Tzipi Livni e da alcuni ufficiali diplomatici, che hanno definito le linee guida europee “un terremoto”?

La realtà è molto più complessa del modo semplicistico in cui i nostri politici la descrivono. 

Il boicottaggio dell’economia israeliana, non solo delle colonie, è ancora molto lontano da una sua effettiva diffusione. Però fanno bene ad essere preoccupati, perché la situazione è già diversa rispetto a due anni fa, quando parlarne in Israele era considerato un tabù. Mentre oggi vediamo che una multinazionale come la McDonald ‘osa’ pubblicamente non aprire un esercizio nella colonia di Ariel.

Certo, c’è ancora tanta segretezza al riguardo: qualche tempo fa il proprietario della catena commerciale Ramy Levy ha dichiarato che negli ultimi anni sono state più di 20 le compagnie che si sono rifiutate di aprire un’attività in Cisgiordania, senza rivelarne il nome. 

 

Crede che comunque qualcosa si stia muovendo?

Certamente. In generale, considerando non solo la questione dei prodotti e delle recenti iniziative europee, ma anche le pressioni che la campagna BDS sta facendo nell’ambito dell’arte e della cultura, si può dire che effettivamente qualcosa si sta muovendo. Ma occorre ancora molto, molto di più. 

Non possiamo tuttavia non notare che il ‘terremoto’ della settimana scorsa lancia un messaggio implicito al governo israeliano, così come a noi cittadini e a tutta la comunità internazionale: dopo tanto, troppo tempo, è ora di dire basta all’Occupazione. 

 

Un messaggio che sembra abbiano recepito più di tutti gli Stati Uniti, con il Segretario di Stato John Kerry che ha annunciato immediatamente la ripresa dei negoziati…

La tempistica è stata quasi perfetta. 

Dopo il panico creato dalla falsa notizia della direttiva e la retorica di alcuni politici, tra cui lo stesso presidente Peres, che hanno chiesto all’EU di rinunciare alla pubblicazione delle linee guida per non minare gli sforzi americani per il processo di pace, l’annuncio della ripresa dei negoziati ha contribuito forse a fare ancora più confusione. I media si sono ritrovati a dover commentare una serie di notizie che apparentemente rappresentano un cambiamento che in realtà non esiste. 

Nella pratica il governo israeliano continua ad agire come se nulla fosse: il 25 luglio è stato pubblicato dalla Civil Administration dell’esercito israeliano un progetto per la realizzazione di una rete ferroviaria all’interno della Cisgiordania che servirà a collegare Israele e i Territori Occupati con Siria, Libano e Giordania. Il progetto ha proporzioni enormi, si parla di milioni di shekel e probabilmente non vedrà mai la luce. Ma il punto è che se verrà approvato questo significherà che lungo il percorso della rete ferroviaria non si potrà né costruire né svolgere alcuna attività. Si tratta a tutti gli effetti di un altro modo per negare ai palestinesi le loro risorse e i loro diritti, dal quale l’Occupazione esce sicuramente rafforzata.  

Un’altra notizia che avrebbe dovuto riscuotere maggior rilievo è la rinnovata proposta di legge da parte di alcuni membri del Likud (formazione di destra del premier Netanyahu, ndr) di limitare i finanziamenti esterni delle Ong cosiddette ‘di sinistra’. Organizzazioni come la nostra, ad esempio, sono considerate dal governo come gruppi che mettono in discussione il carattere “ebraico e democratico” di Israele, e per questo pericolosi. 

Considero questi due ultimi punti molto più importanti delle linee guida o della ripresa dei negoziati. E sarà cruciale vedere che posizione prenderanno l’UE e la comunità internazionale.

 

Una settimana prima del ‘terremoto europeo’ gli insediamenti illegali erano stati oggetto di un duro rapporto da parte dello State Comptroller, l’istituzione predisposta al controllo dell’applicazione delle leggi in Israele, che ha affermato come le colonie facciano parte di un” sistema di illegalità che costa allo Stato milioni di shekel ogni anno”. Quali sono state le reazioni da parte del pubblico?

Il problema di rapporti del genere, che ribadiscono ancora una volta l’illegalità degli insediamenti in Cisgiordania, è che spesso non sortiscono l’effetto di fornire al pubblico il quadro generale della situazione. Nello specifico lo State Comptroller ha analizzato il mancato pagamento da parte dei coloni del leasing sulle case avanzato dallo Stato, ma il rapporto rischia di perdersi nel vuoto se non viene legato al quadro più ampio dell’Occupazione. Stesso discorso per quanto riguarda la criminalità di alcuni movimenti interni agli insediamenti (i cosiddetti attacchi price tag), di cui si è tanto parlato nelle ultime settimane. 

Io spero davvero che tutti questi tasselli non risultino in un insieme di gocce nell’oceano ma possano al contrario unirsi e creare le condizioni per il cambiamento, per il quale occorre ancora molto tempo.

 

A proposito di cambiamento, negli ultimi due anni in Israele è nato un movimento di protesta all’interno del quale sembra trovare poco o alcuno spazio la questione palestinese. Come è possibile?

Il movimento di proteste che ha avuto luogo in Israele non può essere descritto in modo semplice e lineare. Ci sono diverse considerazioni da fare. 

Innanzitutto si è trattato del primo grande movimento di massa della storia di Israele. E come spesso accade era nato in maniera del tutto spontanea, senza organizzazione, a partire principalmente da gruppi a favore delle case popolari – che poi si identificarono nel movimento del 14 luglio (J14). Ma nelle manifestazioni dei primi giorni c’era molto di più: oltre alle proteste contro il caro vita c’era anche l’Occupazione. Passata la spontaneità iniziale, tuttavia, in piazza sono accorse realtà esterne come i  partiti e una serie di figure politiche e mediatiche che hanno portato le proteste nella direzione di un movimento di massa. Questo si è tradotto in una sorta di auto-censura da parte della piazza e dei media, che hanno affossato le voci più radicali. 

Bisogna comunque essere consapevoli che la vera sinistra, cioè quelle persone che si oppongono all’Occupazione e che hanno una posizione politica alquanto radicale rispetto alla sinistra sionista, che protesta contro le colonie soltanto perché tolgono welfare ai cittadini israeliani, è rappresentata un ristretto numero di individui. Ancora oggi direi che siamo non più di duemila persone su tutta la popolazione. Quindi dispiace dirlo ma l’esito deludente del primo movimento di massa della storia di Israele era abbastanza scontato: non potevamo pretendere che una protesta di così grandi dimensioni facesse entrare l’economia dell’Occupazione nell’agenda politica. Ciononostante ci sono stati dei risultati che non possono essere ignorati. 

 

Quali?

La gente ha capito che di fronte a una manifestazione nonviolenta lo Stato può rispondere con la repressione: ed è quello che è successo, con decine e decine di arresti e feriti. Grazie alle proteste si parla di più di economia e di finanza. Ancora siamo lontani, per quanto riguarda una coscienza di massa, dal capire che l’Occupazione è un costo, non soltanto perché toglie risorse per il welfare, ma per il futuro e per la nostra democrazia. Però credo sia già un passo importante il fatto che ormai anche la gente comune parli e voglia informarsi sull’economia: almeno questo è servito a togliere il velo di impunità totale che veniva dato agli insediamenti illegali. 

Una conseguenza diretta di questa “voglia” di economia è il ritorno dei sindacati, che sono tornati ad avere un ruolo di primo piano. Nell’ultimo anno è mezzo, ad esempio, ne sono nati circa una ventina, così come si sono moltiplicati gli scioperi. 

Sono piccoli risultati, è vero, ma possono essere l’inizio di qualcosa di importante per una società complessa come la nostra. Per noi in particolare, questo potrebbe essere il momento migliore per raggiungere quella grande fetta di popolazione che ignora facilmente i palestinesi e la violazione quotidiana dei loro diritti.

 

July 30, 2013di: Stefano Nanni Israele,

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