Psicosi o realtà, il Marocco ha trascorso l’estate in un clima di insicurezza. Sono state installate batterie antiaeree e inaspriti i controlli alle frontiere per intercettare – in caso di rientro – i 1500 combattenti di origine marocchina tra le fila dell’Isis. Non sono escluse infine misure drastiche a grave danno delle libertà individuali.
L’allarme terrorismo ha toccato il suo apice in Marocco dall’agosto scorso. Le misure di sicurezza hanno subito un incremento esponenziale: posti di blocco in tutte le strade, inchieste di polizia, dispiegamento anti-aereo nei siti ritenuti “strategici”.
Il detonatore? Un rapporto della CIA secondo cui diversi aerei sarebbero finiti nelle mani di Al Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI) e del gruppo Ansaar Al Sharia. Se a questo si aggiungono le minacce contro il regno marocchino proferite dall’Isis, ecco giustificato lo stato di allerta generale che si repira nel territorio.
Eppure non è la prima volta che il Marocco si vede minacciato da gruppi jihadisti, tra cui proprio AQMI, senza però che si sia passato dalle parole ai fatti (gli attentati subiti nel 2003 e nel 2011 non sono mai stati rivendicati, ndr).
E’ vero anche che, con sorprendente regolarità, i servizi del paese continuano da anni ad annunciare nuovi arresti e lo smantellamento di presunte cellule terroriste. L’ultimo il 12 settembre scorso a Fes.
Secondo un’altra interpretazione invece, i dispositivi anti-aerei sarebbero legati all’ennesima crisi algero-marocchina.
Le relazioni tra i due paesi si sono riscaldate di nuovo a metà agosto, quando un responsabile algerino ha tirato in ballo Rabat come responsabile delle “tonnellate di hascisc riversate” nel suo territorio. Episodio ampiamente ripreso dalla stampa nazionale.
Il Ministero della Comunicazione di Rabat, per tutta risposta, afferma di aver recensito una media di cinque articoli “anti-marocchini” al giorno, tra il 2013 e il 2014, nei quotidiani algerini. Una vera e propria guerra mediatica. Ma di fatto nulla che sia in grado di giustificare un conflitto armato imminente tra due paesi che non hanno mai abbandonato il reciproco piacere di mostrare i muscoli.
A concludere il quadro, anche la Siria e l’Iraq sembrano ormai ospiti fissi della quotidianità dei cittadini.
Dall’apparizione di al-Jazeera i marocchini seguono assiduamente l’attualità politica del Golfo e del Medio Oriente. Ad ogni evento di una certa gravità, ecco i caffé riempirsi di telespettatori intenti a seguire le immagini di un dramma lontano e pertanto avvertito ormai come vicino.
SUL PIEDE DI GUERRA DAL 2003.
Effetto mediatico o reale volontà di rassicurare la popolazione, Rabat si considera in prima fila nella lotta al terrorismo dagli attentati che insanguinarono Casablanca nel 2003.
Una strategia che posiziona il Marocco come alleato privilegiato degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Ma quando la lotta sembra diventare eterna, l’opinione pubblica comincia a domandarsi: il paese è veramente un bersaglio?
Di certo il Marocco è ben presente in quello che sta accadendo nella regione levantina. Secondo le parole del ministro dell’Interno Mohamed Hassad – proferite nel luglio scorso di fronte al Parlamento – il numero di combattenti marocchini in Siria e Iraq avrebbe raggiunto la soglia dei 1500 effettivi, tra cui circa 200 binazionali.
Una prima conclusione è d’obbligo: il Marocco è solo un bersaglio potenziale, ma rimane un serbatoio prezioso di combattenti volontari, addirittura il terzo “fornitore di carne da cannone” all’Isis secondo i servizi segreti americani.
Se il dispiegamento concreto della lotta contro il terrorismo rimane un segreto ben custodito, protetto dal parametro della “confidenzialità”, le notizie di cronaca e le analisi degli osservatori permettono comunque di stilare un primo bilancio in materia.
Storicamente il Makhzen (leggi “regime” inteso nella complessità di tutto il suo apparato amministrativo) “è ben dotato per controllare tutto ciò che succede nel paese, persino in ogni casa”, spiega Hamid Ajama, professore all’università Cadi Ayyad di Marrakech.
Il ricorso alle spie e agli infiltrati è infatti una pratica vecchia e rodata nel regno. Resta il problema che infiltrare le reti terroriste espone gli agenti al rischio di indottrinamento e gli ambienti dei servizi non sembrano gradire troppo i “doppiogiochisti” tra le proprie fila.
PARANOIA ORGANIZZATA.
Per lo stesso obiettivo, quindi, sembra essere di gran lunga preferita la tecnologia informatica.
Il direttore della Rete di difesa delle libertà Hicham Almiraat cita in proposito la brutta avventura sperimentata dal gruppo di cyber militanti Mamfakinch, cittima di un programma-spia “che illustra perfettamente il livello di mezzi utilizzati per sorvegliare il web. Il programma-spia scovato nei computer del gruppo è normalmente venduto al prezzo di 2,5 milioni di dollari. Ho seri dubbi che una tale cifra sia stata sborsata da un semplice internauta! In più il sito reflets.info spiegava, proprio nel momento in cui è avvenuto questo attacco, che il Marocco si stava dotando di sofisticati programmi di controllo informatico“.
Per i vari gruppi dissidenti sparsi nel territorio la paranoia è palpabile e nessuno dei mezzi di comunicazione in voga può essere considerato al sicuro dalle “grandi orecchie”. Per loro i marocchini sono sotto stretta sorveglianza e la lotta al terrorismo serve solo da pretesto nel clima di paura dipinto dai media di regime.
Abdelhakim Aboullouz, ricercatore universitario al Centre Jacques Berque di Rabat, invita invece ad un’altra riflessione: “il Makhzen è riuscito a recuperare i vecchi salafiti, rientrati nei ranghi dopo vari passaggi in carcere, ma non conosce i nuovi accoliti, né i loro canali di finanziamento che sfuggono al sistema bancario”.
Curiosamente, dopo l’arrivo al governo del partito islamista (PJD) il pacchetto dei prodotti finanziari “halal” ha visto la luce nonostante l’opposizione della Banca centrale.
Si tratta forse di un modo per tenere più facilmente sotto controllo i movimenti monetari di quelle reti che hanno sempre evitato – per ragioni ideologiche – il sistema finanziario classico?
COLPEVOLI ALTROVE.
A medio termine, il ritorno dei combattenti marocchini appartenenti all’Isis porrà lo stesso problema già sperimentato con il ritorno degli «afghani» addestrati nei campi di al-Qaida dieci-quindici anni fa.
Già si levano voci a chiedere un severo controllo di “chi si è reso colpevole di atti terroristici sotto altri cieli”. Voci che sembrano sortire effetto.
Mentre il Ministero dell’Interno ribadiva la volontà di sorvegliare i viaggi dei presunti jihadisti, la stampa ha riportato – il 2 settembre scorso – la notizia dell’arresto di un soldato marocchino accusato di intrettenere legami con l’Isis.
Secondo fonti ufficiali infatti l’organizzazione dello Stato islamico recruterebbe effettivi tanto tra l’esercito che tra i civili. L’inquietudine prodotta non ha fatto altro che accrescere il clima di paranoia. In questo contesto, una parte della società civile lamenta l’eccessiva psicosi e l’aumento dei livelli di sorveglianza, mentre un’altra parte sembra disposta ad accettare le nuove misure anche in caso di riduzione delle libertà individuali.
“La lotta contro il terrorismo ha giustificato soprusi e maltrattamenti contro i sospetti e le loro famiglie. Ogni allerta in questo senso non fa altro che ritardare la democratizzazione del paese. Non bisogna dimenticare che i poliziotti, con la brutalità che li contraddistingue, rischiano di spingere gli amici o i parenti dei jihadisti arrestati tra le braccia delle reti terroristiche, non fosse altro che per solidarietà familiare o per semplice desiderio di vendetta” è l’analisi di M’barek Afekouh, membro dell’ufficio esecutivo del Forum Verità e Giustizia (organizzazione che raggruppa gli ex detenuti politici marocchini, ndr).
Afekouh racconta a tal proposito la storia della presunta jihadista Fatiha Mejjati, soprannominata dalla stampa locale “la vedova nera”, sospettata di preparare attentati nel regno.
“Veniva spesso a testimoniare alle riunioni del Forum e a denunciare le gravi violazioni subite dai salafiti nel paese dopo il 2001. E’ una vera barbarie quella che ha subito in periodo di prigionia, capace di far perdere a chiunque il lume della ragione”.
Sarebbe dunque proprio la repressione subita ad aver progressivamente ingrossato i ranghi dei potenziali terroristi? Quel che è certo, per Afekouh, è che il rispetto dei diritti umani vale tanto per “progressisti” che per i “salafiti”.
Di Noréddine El Abbassi per Orient XXI. Clicca qui per leggere l’articolo in lingua originale. La traduzione è a cura della redazione.
Foto di Francisco Anzola via Wikimedia Commons.
September 23, 2014di: di Noréddine El Abbassi per Orient XXIMarocco,Articoli Correlati:
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