Turchia, profughi: se sale la tensione

In Turchia il fumo dei lacrimogeni ha oscurato molte cose e da quando le proteste a Gezi Park si sono diffuse nelle maggiori città del paese, la situazione dei profughi siriani nell’area è scivolata in secondo piano. 

 

Nonostante la distrazione mediatica, la situazione dei siriani resta difficile e i numeri continuano a crescere. Il perdurare delle violenze al di là del confine, che ormai da più di due anni colpiscono duramente la popolazione civile, alimentano un flusso continuo di persone in fuga. Le autorità della ‘Sublime Porta’ sono state in prima fila nell’accoglienza dei profughi, ma le politiche attuate in risposta alla crisi umanitaria restano per alcuni aspetti confuse e non sempre adeguate.

Esposizione fotografica allestita dalla comunità siriana

Esposizione fotografica allestita dalla comunità siriana

In due anni di coesistenza, gli attriti tra le comunità locali e quelle delle migliaia di rifugiati si sono inasprite e lo sconfinamento delle violenze nelle aree di confine, apparso in tutta la sua drammaticità con gli attentati alla zona frontaliera di Bab al-Hawa e nella cittadina turca di Reyhanli, hanno reso la situazione ancora più tesa e di difficile soluzione.  Nel frattempo le persone cercano di portare avanti la propria vita e di ricreare una parvenza di normalità, un tentativo che però non sempre funziona.

Gli ultimi dati parlano di un numero di profughi censiti pari a 355,603. Una cifra in sé già notevole, ma che aumenta se si comprendono anche i non registrati: 490 mila, secondo l’ultima stima pubblicata dell’Afad il 13 giugno scorso.

 

I campi profughi

Sono circa 200 mila le persone che vivono nei campi di accoglienza allestiti dal governo lungo tutto il confine meridionale. Gli insediamenti al momento sono 20: 14 tendopoli, cinque centri container, un centro temporaneo di ammissione. In media ospitano 10-15 mila persone, con le uniche due eccezioni delle tendopoli di  Ceylanpınar (45.508 profughi) e di Akçakale ( 34.721).

Con una popolazione giovanile compresa tra gli 0 e i 17 anni – pari a circa il 26% (dato Unhcr relativo ai profughi rifugiati in Egitto, Giordania, Iraq e Libano, ma verosimilmente la situazione turca non è dissimile, ndr) – non sorprende che più del 10% dei siriani residenti nei campi, 29.534 ragazzi, abbiano seguito l’anno scolastico all’interno delle scuole di fortuna attrezzate alla meglio.

Campo profughi di Bab al-Salam, Siria (in prossimità del confine turco)

Campo profughi di Bab al-Salam, Siria (in prossimità del confine turco)

Oltre alle scuole, nei campi profughi sono presenti ospedali da campo e infrastrutture per favorire lo sviluppo di progetti di avviamento al lavoro e corsi di formazione professionale, soprattutto dedicati alle donne. . E anche se le porte dei campi sono ufficialmente chiuse a nuovi arrivi, per il raggiungimento dei limiti delle infrastrutture, la popolazione dei rifugiati è cresciuta grazie agli oltre 3 mila bambini nati tra tende, container e ospedali da campo.

 

I profughi inurbati

Un’altra parte di siriani fuggiti dalla guerra, in particolare quelli con maggiori possibilità economiche, si sono insediati in città e villaggi turchi non lontani dalla frontiera, affittando appartamenti o piccole abitazioni. Le aree di confine e quelle vicine ai campi sono maggiormente toccate da questo fenomeno, in particolare le regioni di Hatay, Gaziantep, Şanlıurfa e Kilis.

Profughi ‘inurbati’ che però dopo due anni di conflitto e lontananza hanno depauperato le loro risorse economiche, senza contare che le difficoltà d’integrazione li costringono a fare affidamento quasi esclusivamente sugli aiuti umanitari delle municipalità, delle amministrazioni locali o delle Ong che distribuiscono beni di prima necessità (coperte, vestiti, cibo, medicine) e servizi di assistenza (per lo più ospedaliera e ambulatoriale).

Oltre a coloro che si trovano già in Turchia, ogni giorno si contano tra i 300 e i 400 nuovi arrivi: molti vengono spostati da un campo all’altro dalle forze dell’ordine, chi per ragioni di sicurezza, chi per ricongiungimenti familiari, altri – viste le condizioni di vita nei campi – decidono invece di ritornare in Siria nonostante la guerra (in totale 124.199 persone hanno fatto questa scelta).

Una situazione complessa non solo per quel che riguarda la gestione dell’emergenza umanitaria, o per quelle che sono le esigenze quotidiane di queste persone, ma che colpisce anche la popolazione turca che si è ritrovata improvvisamente a dover convivere con un numero così elevato di nuovi ‘vicini’. Con inevitabili tensioni.

 

I fondi investiti e l’assistenza umanitaria

Anche in Turchia, come nel resto dell’area interessata dalla crisi siriana, il primo problema che rende difficile fornire un’assistenza umanitaria efficace è la mancanza di fondi. Se in un primo momento il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha fatto affidamento solo sulle proprie forze, con l’aumento vertiginoso del numero di persone in stato di necessità, l’aiuto e la cooperazione in sinergia con le organizzazioni e le agenzie internazionali è divenuta imprescindibile. Ma insufficiente.

Campo profughi di Bab al-Salam, Siria (in prossimità del confine turco)

Campo profughi di Bab al-Salam, Siria (in prossimità del confine turco)

Finora è arrivato solo il 20% dei 372 milioni di dollari stimati per gestire l’accoglienza, così come al livello regionale dei quasi 3 miliardi di dollari necessari all’emergenza si sono materializzati solo 840 milioni (28%).

A fronte di questo sottofinanziamento, il governo di Ankara ha comunque provveduto a creare infrastrutture e servizi all’interno dei campi, garantendo ai siriani residenti in Turchia l’accesso al servizio sanitario pubblico e al sistema scolastico e universitario. Ma gli aiuti e i progetti avviati non sono che la punta dell’iceberg, rispetto alle necessità reali dei profughi.

 

Una convivenza sempre più difficile e uno status giuridico non chiaro

Negli ultimi tempi gli affitti nelle zone interessate dall’esodo risultano sempre più cari. Gli uffici pubblici e gli ambulatori degli ospedali registrano un’affluenza continua e sono a rischio saturazione, con gli alti costi per la costruzione e il mantenimento dei campi obbligano le autorità a dirottare gli investimenti non più per migliorare la vita dei propri cittadini, ma a favore di “stranieri”.

Il coinvolgimento in una crisi estera che porta instabilità e violenze anche in Turchia, per molti è ormai giudicato “eccessivo”. Dopo due anni la popolazione turca, soprattutto nel sud, comincia ad avvertire il peso della presenza di un così alto numero di profughi.

Campo profughi siriani a Kilis

Campo profughi siriani a Kilis

Manifestazioni di decisa opposizione all’accoglienza dei rifugiati e allo schieramento di Erdoğan al fianco dei ribelli anti-Assad hanno radunato un seguito notevole in occasione degli attentati al posto di confine di Bab al-Hawa e nella cittadina turca di Reyhanlı. Un’ostilità rivolta anche nei confronti della comunità alawita, soprattutto della regione di Antiochia, accusata di ‘connivenza’ con i servizi segreti fedeli al regime di Bashar al-Asad.

Esposizione fotografica allestita dalla comunità siriana

Esposizione fotografica allestita dalla comunità siriana

Complessa anche la situazione giuridica prospettata dal governo turco ai siriani fuggiti oltreconfine. A questi ultimi non è infatti riconosciuto lo “status internazionale di rifugiato”, bensì soltanto una “protezione temporanea”, con la conseguenza che le autorità turche preservano l’escusività della gestione degli aiuti e del monitoraggio dei campi profughi, limitando le possibilità di intervento delle organizzazioni internazionali come l’Unhcr (situazione che non sembra cambiare in maniera sostanziale anche dopo l’iniziativa legislativa turca a riguardo).

 

Vivere da siriano in Turchia. Tra container, tende e discriminazioni

Muhammad ha vissuto per circa un anno nel campo profughi di Kilis. Ha dovuto abbandonare tutta la famiglia in un villaggio nel nord della provincia di Idlib, dopo un improvviso attacco dell’esercito di Asad nel quale sono morti dieci suoi cugini.

Muhammad ha 27 anni, è di origini modeste e un livello di scolarizzazione basso. Sua moglie, Fatma, ha un bambino di 6 anni; sono gli unici due che lo hanno seguito oltre confine.

Nel campo di Kilis hanno vissuto in un container, dove questo giovane ha avuto la possibilità di studiare l’inglese (il suo sogno), grazie all’aiuto dei volontari stranieri e di alcuni amici, mentre Fatma è riuscita a proseguire la scuola superiore.

Poi però un anno dopo, la vita dei due (mentre lei era al sesto mese di gravidanza) cambia di nuovo. Dopo una discussione con i poliziotti del campo – “Si rivolgevano a me come a un animale… non ce l’ho fatta più e ho risposto”, racconta abbassando lo sguardo – si trasferiscono nella tendopoli di Adana, dove trascorrono una notte ad attendere davanti dal cancello d’entrata.

Finalmente gli viene assegnata una tenda. Ma “le condizioni erano impossibili” spiega Muhammad: “La vita nel campo era insostenibile. Avevamo fame, non c’era abbastanza cibo e mia moglie era incinta”.

Muhammad ripercorre quest’esperienza rimpiangendo il tempo passato a Kilis e sottolineando come i campi possano essere molto diversi tra loro: da centri di accoglienza che assicurano una vita accettabile a tendopoli abbandonate a se stesse, nel mezzo del nulla, dove manca tutto.  

Racconta, misurando il peso delle parole, dalla sua vecchia casa nella provincia di Idlib, dove ha deciso di tornare, nonostante la guerra in quell’area si faccia sentire ogni notte, con le esplosioni di razzi e missili provenienti dai villaggi vicini.

 

Emergenze e problemi cronici…

É Salah a testimoniare come gli aiuti ai profughi che vivono nelle città turche siano insufficienti. In tutti i sensi. L’Ong con cui lavora nella città di Gaziantep, nel sud del paese, cerca di venire incontro ai bisogni delle oltre 5 mila famiglie, distribuendo viveri, lenzuola, vestiti e medicine.

“Lavoro come volontario da circa sei mesi”, dichiara. “Sono un farmacista e mi occupo di distribuire medicinali e sostituire bendaggi”, ma chiarisce che la popolazione siriana di Gaziantep ha biosgno di molto di più. 

“Ora il 50% circa dei pazienti negli ospedali pubblici è rappresentato da profughi, ma i medici turchi non offrono un servizio completo e serio”, continua critico. “Molte delle amputazioni che si registrano non sono realmente necessarie e si potrebbero risolvere con terapie diverse”, ma il problema più grave, secondo lui, è la crescente necessità di “cure a lungo termine per aiutare pazienti con patologie croniche o affetti da cancro, con particolare riferimento ai casi di oncologia infantile”. Le strutture, in questo senso, non riescono a soddisfare tutte le richieste e non forniscono, secondo Salah e si suoi colleghi volontari, risposte adeguate.

 

Uno sguardo oltre la rete

Se la situazione dei profughi siriani in Turchia non è affatto semplice, ciò che desta maggiore preoccupazione sono coloro che il confine non sono riusciti a varcarlo, restando bloccati lungo la frontiera, ma dal lato siriano. I campi improvvisati – a partire dall’estate scorsa – sono cresciuti fino a diventare degli insediamenti simili, per dimensioni – a quelli in territorio turco, ma con condizioni socio-sanitarie assolutamente disastrose, senza un sistema concreto e coordinato di aiuti o assistenza.

Decine di migliaia di persone, in larga misura donne e bambini, usciti a fatica da un inverno che non ha risparmiato neve e ghiaccio, sono ora in balia dell’estate, esposti a malnutrizione, leishmaniosi e altre patologie, in un limbo che non sembra destinato a smuoversi, ma che mano a mano che il tempo passa, può soltanto peggiorare.

 

 

 

June 21, 2013di: Giacomo CuscunàTurchia,

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