“Povertà e disoccupazione minacciano la nazione come una bomba ad orologeria”. Ad affermarlo è il principe saudita Walid bin Talal. Una breve frase postata su Twitter ma destinata a entrare nella storia in quanto pronunciata da un membro della famiglia reale non ostile alla monarchia.
In precedenza, infatti, fu una principessa dissidente che vive a Londra a denunciare la povertà e i problemi sociali del regno. Perché all’interno del paese, il disagio e l’indigenza continuano a essere un tabù che le autorità cercano di nascondere, soprattutto agli occhi della comunità internazionale.
Perché se è vero che grazie al suo petrolio l’Arabia Saudita vanta una delle più alte concentrazioni di famiglie super ricche al mondo, pochi sanno che secondo dei numeri diffusi recentemente (naturalmente non ufficiali), il 25% della popolazione (se non di più) è costretta a vivere in una condizione di estrema povertà.
Difficile infatti per gli studiosi raggiungere quei sauditi ‘rimasti ai margini’, e quando intraprendono questo tipo di ricerche lo fanno a loro rischio e pericolo, dato che il governo si è sempre preoccupato, anche con la forza, di preservare l’immagine di ricchezza e prosperità, con i suoi sceicchi multimiliardari e i loro grattacieli scintillanti.
Resta famoso il caso di tre giornalisti – Feras Boqna, Hussam al-Drewesh e Khaled al-Rasheed – che nel 2011, incoraggiati dai successi delle cosiddette ‘Primavere Arabe’, avevano postato su Youtube una piccola inchiesta di 10 minuti, dal titolo “Mal3ob 3alena” (Ci hanno ingannato).
Il documentario racconta le estreme condizioni di povertà del quartiere di al-Jaradeya, una periferia della capitale Riyadh, e l’intento del video è proprio quello di mostrare la profonda diseguaglianza sociale in un paese che detiene il 20% delle riserve mondiali di petrolio, e dove all’ombra dei lussuosi centri commerciali innumerevoli mendicanti chiedono l’elemosina, mentre a pochi chilometri di distanza centinaia di famiglie vivono in baraccopoli fatiscenti sprovviste di sistema fognario.
Storie, immagini e commenti che – spiegano gli autori – sono in realtà “familiari alla maggioranza della società saudita”. Fuori, appunto, decisamente meno.
Il documentario, però, è costato caro ai tre ragazzi che subito dopo la sua diffusione sono stati arrestati e sottoposti a un interrogatorio durato tre giorni. In Arabia Saudita, infatti, vige una legge sui media che permette al governo di chiudere o multare pubblicazioni che possono “recar danno alla stabilità del regno” o che si configurino come “insulti all’Islam”. Una legge che proibisce anche la trasmissione di qualunque contenuto che inciti alla divisione, minacciando la sicurezza interna. Evidentemente, parlare di povertà rientra in questi casi.
In soli settant’anni, l’Arabia Saudita è cresciuta fino a diventare una delle più grandi potenze economiche del mondo, con un’industria petrolifera da 300 miliardi di dollari l’anno. Il sistema economico e sociale, però, è rimasto fortemente assistenzialista e, sotto il re Abdullah, il governo ha speso miliardi per aiutare il crescente numero di poveri, che si stima essere un quarto della popolazione nativa.
Gran parte della spesa sociale viene poi dal sistema islamico dello zakat, che obbliga gli individui e le aziende a donare in beneficenza il 2,5% della loro ricchezza. Ma questo “modello economico” ha tutt’altro che sconfitto la povertà e la diseguaglianza.
Stime ‘private’ suggeriscono che tra i 2 e i 4 milioni di sauditi vivono con meno di 500 dollari al mese, ovvero 17 al giorno.
Certo non bisogna dimenticare che la regina delle sabbie ha un’economia strutturata su due livelli, composta da 28 milioni di persone di cui gran parte stranieri, per i quali la povertà è da sempre una condizione di fatto.
Ma anche tra i cittadini stessi il tasso di indigenza è in continua crescita, mentre tra i giovani la disoccupazione sale alle stelle.
Come rivelano le statistiche ufficiali, più di due terzi dei sauditi ha meno di 30 anni e circa i tre quarti sono senza lavoro. Nonostante molti provengano da famiglie ricche, secondo gli analisti questa situazione non potrà non avere ripercussioni negative a livello sociale ed economico.
Malgrado gli sconvolgimenti del 2011 abbiano spinto il re a spendere miliardi di dollari per l’edilizia abitativa, gli aumenti salariali, le indennità di disoccupazione e altri programmi di assistenza, la povertà e la rabbia della popolazione continua ad alimentarsi della corruzione imperante nelle alte sfere del sistema di potere saudita.
L’analista Rosie Bsheer parla ad esempio di vaste somme di denaro che finiscono nelle tasche della famiglia reale attraverso una rete di nepotismo, corruzione e contratti “accoglienti”. Uno degli schemi tipici di frode e corruzione descritto è quello della confisca dei terreni a famiglie povere per poi rivenderli al governo a prezzi esorbitanti.
Ma per ora le autorità sembrano determinate a ricorrere a metodi palliativi e di “distrazione di massa”, come la nitaqat, la saudizzazione dell’economia e del lavoro, che sta portando alla crescita del razzismo verso la sterminata manodopera straniera nel regno (il 90 per cento della forza lavoro saudita), e l’irrigidimento dei controlli sulla morale pubblica. La “bomba a orologeria” ha davvero iniziato il suo conto alla rovescia?
July 22, 2013di: Anna ToroArabia SauditaVideo: Articoli Correlati:
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