Riyad torna a far parlare di sé. Ma non si tratta della solita denuncia di abusi e violazioni a cui il governo degli Al Sa’ud ci ha abituato. O almeno, non solo e non direttamente.
Questa volta, tra lo stupore generale, l’Arabia Saudita fa registrare un punto a suo favore sul piano diplomatico, annoverandosi tra i quattordici membri neoeletti al Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHRC).
Con ben 140 preferenze, il regno saudita si aggiudica il diritto a presiedere, assieme a Cina, Russia, Vietnam, Marocco e Algeria, la più importante istituzione mondiale per la difesa della causa umanitaria. E questo, proprio mentre alcuni media internazionali denunciano l’ennesima ondata di violenze della polizia saudita contro gli immigrati “illegali”.
L’immediata denuncia di associazioni impegnate nel campo dei diritti e delle libertà, come Human Rights Watch e Amnesty International, riecheggia amara nei corridoi della sede del Consiglio a Ginevra.
Le ONG lamentano l’ingresso nel direttivo dell’ UNHRC di nazioni non democratiche e ben poco rispettose dei diritti, Arabia Saudita in testa, colpevoli di aver screditato, in numerosi occasioni, il ruolo stesso dell’organizzazione.
Le enormi lacune legislative in materia – la mancata ratificazione e armonizzazione delle principali convenzioni internazionali – per quanto emblematiche, non sono l’unico indizio della cattiva condotta del governo di Riyad.
Come afferma Peggy Hicks, direttrice di HRW, il regno saudita, assieme a Cina, Russia, Vietnam e Algeria ha ripetutamente ostacolato l’operato dei funzionari dell’UNHRC, impedendo loro l’accesso al territorio nazionale e precludendo così la verifica delle presunte violazioni dei diritti universali.
Se, dal primo gennaio 2014, saranno proprio questi i paesi incaricati di custodire e garantire l’implementazione delle convenzioni a tutela dei diritti umani, una domanda sorge spontanea: Quis custodiet ipsos custodes? (chi sorveglia i sorveglianti?)
Per far luce sulla controversa vicenda è necessario prendere brevemente in esame le funzioni dello stesso UNHRC; una giovanissima istituzione, creata nel 2006 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con lo scopo di rimpiazzare la Commissione per la difesa dei diritti umani, soggetta ad ampie critiche proprio a causa dello scarso profilo “umanitario” dei suoi stati membri.
Frutto del tentativo di rinnovare la fiducia della comunità internazionale, il Consiglio si è visto conferire ampi poteri e una discreta autonomia decisionale rispetto all’intero sistema ONU.
In particolare, attraverso il riconoscimento della sua giurisdizione sulle denunce individuali, il Consiglio è diventato l’unico organo ONU a cui i singoli cittadini possono rivolgersi per denunciare le violazioni subite.
Un’innovazione di straordinaria portata che accelera le tempistiche e permette di aggirare la mediazione dei governi, spesso i principali responsabili dei soprusi segnalati.
Inoltre grazie al sistema di “procedure speciali”, i funzionari del Consiglio possono intraprendere, con un certo grado di indipendenza politica, inchieste su specifiche violazioni; fu proprio il Consiglio a lanciare, nel 2011, un’inchiesta sulle responsabilità statunitensi nell’uccisione di Bin Laden e ad aprire così il dibattito sulla legittimità delle esecuzioni extragiudiziali.
Sebbene, dati alla mano, le nuove potenzialità del UNHRC appaiano poco sfruttate (pochissimi i ricorsi individuali presi in carico finora), il Consiglio sembrava lanciato verso un radicale cambiamento.
Grazie alla sua relativa indipendenza politica, sempre nel 2011 si era reso protagonista di un’azione coraggiosa, decretando l’espulsione della Libia dal direttivo, in reazione alle massicce violenze inflitte dal colonnello Gheddafi alla sua popolazione.
La votazione di mercoledì scorso giunge dunque inattesa, e getta un’ ombra preoccupante sul futuro di questa giovanissima istituzione, che ora rischia di perdere la credibilità duramente guadagnata durante i suoi primi anni di vita.
In un periodo storico in cui prevale un certo scetticismo sull’efficacia accordata al rispetto dei diritti umani, questo passo falso rischia di essere fatale. In particolar modo in una regione, come quella mediorientale, dove la retorica dei diritti – che in troppe occasioni ha offerto una ghiotta giustificazione per azioni belliche e politiche distanti da qualsiasi scopo “umanitario”- viene percepita – o presentata – come estranea alla cultura islamica locale ed addirittura tacciata di “neocolonialismo”.
Tuttavia, come sottolineato dagli esperti, sul piano strettamente funzionale, l’ingresso di governi autocratici in seno al Consiglio non rappresenta una “minaccia concreta”: il sistema di votazione non prevede il diritto di veto, per cui sarà ancora possibile raggiungere una maggioranza compatta.
Inoltre, il coinvolgimento di paesi da sempre refrattari alla logica dei diritti umani potrebbe comunque costituire un valore aggiunto per un’istituzione incaricata di monitorare l’implementazione dei diritti universali.
Entrando a far parte dell’UNHRC nazioni come l’Arabia Saudita saranno – o almeno dovrebbero essere – sottoposte ad un controllo più minuzioso e dovranno fornire precise risposte circa il rispetto dei diritti e l’esercizio delle libertà fondamentali nei loro territori.
Non solo. A beneficiare di quest’elezione potrebbe essere proprio la società civile, le cui battaglie, spesso represse duramente, necessitano di validi interlocutori anche a livello istituzionale.
Su questo fronte il governo cinese ha già dato prova di qualche apertura concedendo, ad esempio, una graduale riduzione della pena capitale e rendendo meno restrittivo il controllo delle nascite che obbligava le donne ad aborti forzati.
Dal canto suo l’Arabia Saudita, nonostante la retorica riformatrice ostentata del re Abdullah bin Abdulaziz Al Sa’ud, sembra invece perseverare nel suo atteggiamento dispotico. Ne è prova la recente durezza con cui Riyad si è opposto alle attiviste della campagna “Women2Drive” che, proprio il 26 ottobre scorso, hanno indetto una nuova manifestazione per sfidare il divieto di guidare imposto le donne saudite.
Attivisti in prigione, donne vessate da un rigido sistema di tutela maschile, terzo posto mondiale per numero di esecuzioni capitali, sette richieste pendenti da parte di rapporteurs speciali delle Nazioni Unite: questo è il biglietto da visita con cui Riyad si presenta al Consiglio ONU per i diritti umani.
Pressoché nulle le iniziative del governo saudita volte ad adeguarsi agli standard internazionali. La questione della discriminazione femminile rimane certo centrale, ma ad essa vanno aggiunte la repressione sistematica dei dissidenti, le vessazioni inflitte agli immigrati (che costituiscono la metà della forza lavoro nazionale), la discriminazione delle minoranze, etc. (la lista potrebbe proseguire a lungo).
Facendosi scudo dietro alla volontà di proteggere l’integrità del patrimonio religioso-culturale messo in pericolo dai corrotti costumi occidentali, la monarchia si oppone duramente a qualsiasi apertura capace di minare il suo controllo assoluto.
D’altro canto, il traballante equilibrio politico in cui vessa la regione araba ha disorientato il gigante saudita che, sperimentati i limiti della protezione statunitense, è deciso a conquistarsi un nuovo ruolo nello scacchiere mediorientale. E sebbene le insidie siano notevoli, dall’Iran alla Siria, i diritti umani, come la storia ci insegna, possono diventare un arma diplomatica molto potente.
Nonostante rimangano oscure le motivazioni che hanno portato all’elezione del Regno Saudita nell’UNHRC, la linea politica di Riyad appare limpida. La monarchia degli Al Sa’ud che nei giorni scorsi, in polemica con la strategia adottata dal Consiglio in merito al conflitto siriano, aveva chiuso la porta in faccia all’Onu rinunciando al seggio di membro non permanente in seno al massimo organismo di sicurezza, oggi sceglie di sedere in un altro consiglio Onu, quello dei diritti umani.
Atteggiamento schizofrenico? Forse. Ma non casuale.
L’ingresso in seno allo UNHRC rappresenta per Riyad un’occasione unica per coronare il programma di “restyling” della propria immagine, intrapreso recentemente sull’ondata rivoluzionaria delle primavere arabe.
A ben guardare, anche le dichiarazioni rilasciate il 14 ottobre scorso, a giustificazione del “grande rifiuto” all’ONU lasciavano trapelare le velleità “umanitarie” degli Al Sa’ud: in un affondo contro il Consiglio di Sicurezza, il portavoce saudita aveva accusato l’istituzione di “contribuire, attraverso i suoi provvedimenti, ad approfondire il divario delle ingiustizie dai popoli e a violentare i diritti”, in contrapposizione con le presunte politiche del regno che si batte “da anni affinché vengano compiute le riforme necessarie per mettere il Consiglio davvero al servizio della sicurezza e della pace nel mondo”.
Si sa, la miglior difesa è l’attacco. E, con questa mossa, l’Arabia Saudita ha sfidato i cinque membri permanenti proprio sul terreno in cui è più fragile, quello dei diritti umani. Puntando il dito contro la pagliuzza negli occhi altrui, Riyad cerca forse di far dimenticare la trave presente nei propri?
November 18, 2013di: Giulia FagottoArabia SauditaArticoli Correlati:
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