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Arabia Saudita. La rivolta dimenticata

All’ombra delle dune si combatte una battaglia silenziosa, iniziata nel 2011. E’ da allora che le autorità reprimono nel sangue la protesta della minoranza sciita che abita l’est del regno, con la complicità dei media.

 

L’ultima vittima degli scontri tra le comunità sciite della provincia orientale di al-Sharqiyya e le forze governative risale a venerdì notte. Un ragazzo di 19 anni, Ali Hassan al-Mahroos, è stato ucciso dalla polizia durante una sparatoria nel villaggio di al-Tubi, nella regione di Qatif. Un’altra persona è rimasta ferita, mentre sarebbe ancora imprecisato il numero dei manifestanti arrestati.

Secondo le testimonianze, il giovane si trovava nella sua auto, quando un proiettile vagante sparato dagli agenti lo ha colpito, sebbene il bersaglio fosse un altro uomo in sella a una motocicletta. Ma per il portavoce della polizia della provincia orientale, il diciannovenne sarebbe stato soccorso all’alba di sabato, con una ferita alla testa e alla spalla, e deceduto prima dell’arrivo all’ospedale. 

Da parte loro, gli attivisti lo considerano invece la ‘diciannovesima vittima‘ dall’inizio della repressione del 2011, anno in cui gli abitanti sciiti del regno hanno iniziato a protestare nelle piazze contro la discriminazione a cui sono sempre stati sottoposti da parte del regime sunnita-wahabita dei Saud, la dinastia al trono.

Temendo il contagio delle primavere arabe, in quel periodo il governo aveva reagito rapidamente su scala nazionale per reprimere il dissenso, ricorrendo all’antico sistema ‘del bastone e della carota’, ovvero vietando tutte le manifestazioni pubbliche, ma concedendo ai dipendenti statali un aumento del 15% dello stipendio. 

Ciononostante il malcontento non si è mai placato.

 

Due anni di scontri

Le prime agitazioni scoppiano nel febbraio 2011, dopo i duri confronti tra i pellegrini sciiti e la polizia religiosa nella città santa di Medina, per poi raggiungere l’apice il mese successivo, quando l’Arabia Saudita invia le sue truppe a sedare le manifestazioni anto-governative nel vicino Bahrein. 

I manifestanti iniziano a rivendicare con forza la liberazione di tutti i prigionieri politici, così come maggiori diritti, libertà di espressione e di riunione.

E’ solo dopo il 20 novembre del 2011, quando il diciannovenne Nasser al-Mahishi diventa il primo ‘martire’ della rivolta che la tensione sale ulteriormente, specie dopo il rifiuto da parte delle autorità di consegnare il corpo alla famiglia. 

Il secondo evento che infiamma la rivolta riguarda l’arresto, nell’estate del 2012, dello Sheikh Nimr Nimr, l’imam della moschea della città di Awamiyah, che durante uno dei suoi sermoni definisce il principe saudita Nayef bin Abdul-Aziz (al momento principe ereditario) un “tiranno”. La reazione delle autorità scatena la rabbia di migliaia di cittadini, che scendono in strada intonando slogan all’indirizzo della casa regnante. La repressione è immediata.

Oggi la tensione è nuovamente alle stelle, come dimostrano gli ultimi scontri e le lunghe liste dei ricercati sciiti che il governo si sta sforzando di rintracciare, senza lesinare nel suo ricorso alla violenza. 

Secondo un rapporto del Centro al-Adala per i diritti umani, dal 2011 sarebbero infatti quasi 800 le persone arrestate, soprattutto nella provincia di Qatif e nella città di Awamiyah, mentre per il ministero saudita non supererebbero quota 300. Il rapporto cita inoltre le violenze commesse dalla polizia su manifestanti pacifici e disarmati, colpiti con gas lacrimogeni e proiettili veri, nonché denuncia alcuni “sinistri atti di tortura contro i detenuti nella prigione di Dammam”, che infatti lamentano percosse, calci, scosse elettriche in parti sensibili del corpo e pestaggi con tubi flessibili.

Ma, sfidando la durissima repressione, nella regione di Qatif e nella provincia orientale le proteste non si sono fermate e continuano a coinvolgere tutta la comunità sciita. 

 

Cittadini di serie B

In questa parte del regno, che è anche la principale produttrice di petrolio del paese, gli sciiti rappresentano circa il 10% della popolazione, e subiscono una discriminazione diffusa, che si estende a tutti gli aspetti della loro vita: politici, culturali, economici e sociali. 

Spesso definiti dal regime sunnita al potere come degli “eretici manovrati dall’Iran” (nonostante sia Teheran che gli attivisti locali rinneghino da sempre qualsiasi legame), i membri di questa minoranza sono banditi da numerose professioni statali, governative e militari, con gli studenti che denunciano disparità di trattamento nell’accesso all’istruzione e nell’assegnazione degli alloggi. Tutti hanno difficoltà a praticare la propria fede.

Sebbene le autorità abbiano sempre negato ogni discriminazione e re Abdullah abbia tentato – almeno formalmente – dei compromessi per avviare a una sorta di “dialogo nazionale”, le istituzioni e le forze economiche più importanti non riconoscono loro diritti pari a quelli di tutti gli altri cittadini. 

Pochissimi sciiti, ad esempio, vengono assunti all’Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi che è anche uno dei pilastri dell’economia del regno. 

E ancora: non possono possedere case editrici, né far circolare i loro testi sacri, e in passato le autorità saudite hanno anche imposto un divieto sull’apertura di sale per matrimoni nella provincia orientale, temendo che potessero essere utilizzate per attività di opposizione contro il governo.

Questo fino al 1999, quando nella piccola città di Qudaih a Qatif, un violento incendio scoppiato in un tendone da cerimonia ha ucciso decine di donne e bambini.

Le proteste sciite non sono certo iniziate in questi ultimi anni, e il malcontento serpeggia già da molto tempo. Ma nel silenzione generale. Con il governo che ha più volte vietato ai giornalisti di far uscire notizie dalla provincia orientale, l’appello disperato degli attivisti non ha trovato diffusione che sui social media. E’ per questo che oggi la rete sembra entrata nel mirino delle autorità. E, per gli sciiti come per gli altri attivisti, si preannunciano tempi ancora più difficili.

 

Foto di Amany 2 (Own work) [Public domain], via Wikimedia Commons

 

 

June 24, 2013di: Anna ToroArabia SauditaArticoli Correlati: 

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