Arabia Saudita. La rivolta discreta delle donne al volante

Il logo della campagna Women2Drive

Sono state una sessantina le cittadine saudite che sabato 26 ottobre hanno risposto alla chiamata degli attivisti e si sono messe in strada alla guida delle loro auto, sfidando uno dei più vecchi e beceri divieti sociali del regno wahabita.

Molte di loro si sono filmate durante l’ “impresa” e hanno spedito i loro video ai promotori della campagna intitolata “Le donne alla guida – una questione di scelta”, che poi li hanno caricati su YouTube e diffusi in tutto il web. “Poiché non vi è alcuna giustificazione per il governo saudita per vietare alle cittadine adulte di guidare, chiediamo allo Stato di fornire mezzi adeguati affinché possano ottenere la patente e i vari permessi” ha affermato l’attivista e blogger Eman al-Nafjan durante il lancio della campagna online a metà settembre.

Sebbene la polizia abbia organizzato numerosi blocchi stradali in tutte le principali città, e gli agenti abbiano spesso sbirciato attraverso i finestrini per assicurarsi che gli autisti fossero di sesso maschile, in realtà da parte del governo non c’è stata quella risposta dura che ci si aspettava.

A prescindere dal fatto che sono state solo poche decine le donne a rispondere attivamente all’appello, alcune di loro riferiscono di essere state letteralmente ignorate dalla polizia durante i loro piccoli giri in auto: non le hanno viste o hanno semplicemente deciso di chiudere un occhio?

Tuttavia, non è andata liscia per tutte. Diversi quotidiani sauditi fanno sapere che le donne sorprese alla guida e fermate sono state almeno 14: ad alcune è stata confiscata l’auto, hanno dovuto pagare una multa di 900 ryial (240 $) e, cosa che non capita di rado nei paesi del Golfo, sono state costrette a firmare un impegno scritto con la promessa che non avrebbero più guidato né preso parte a proteste di questo genere.

Non sono mancate le situazioni ambigue. L’attivista Aziza al-Yousef, docente alla King Saud University, riferisce all’agenzia Ap di esser stata seguita insistentemente durante i suoi spostamenti da “due auto misteriose”, che non l’avrebbero persa di vista un attimo, perfino in moschea. Mentre la blogger di Jeddah, Tamador Alyami, dopo aver guidato la sua auto diverse volte prima della data del 26 ottobre, proprio quel giorno ha deciso di rinunciare. “Mi sono sentito intimidita – ha detto – Ho due figli di uno e otto anni, che hanno bisogno di una madre”.

Conservatori all’attacco

In vista della protesta, le autorità hanno lanciato messaggi contrastanti, apparentemente divise tra una tolleranza imbarazzata e il timore di far infuriare l’ala religiosa e conservatrice del regno. Prima del 26, infatti, il ministero dell’Interno aveva messo in guardia gli attivisti con un comunicato, diffidandoli dal compiere atti che “turbano la pace sociale e aprono la porta alla discordia” e aveva minacciato punizioni contro chiunque avesse organizzato “assemblee e manifestazioni vietate, compreso invitare le donne a guidare le automobili”.

Alcune attiviste sono perfino state chiamate al telefono da presunti funzionari del governo che le avrebbero diffidate dal mettersi al volante.

Anche per questo la linea della protesta del 26 ottobre è stata cambiata in itinere: alla fine, da raduno e corteo di auto, i promotori della campagna hanno semplicemente chiesto alle donne con patente ottenuta in un paese straniero di mettersi alla guida per conto proprio.

“Non vogliamo contravvenire alla legge e alle regole del traffico – ha sottolineato Eman al-Nafjan – vogliamo semplicemente abituare i sauditi a vedere le loro donne al volante come un fatto normale”.

In Arabia Saudita, infatti, non esiste nessuna legge scritta che vieti alle donne di guidare.

A fine settembre perfino il capo della polizia religiosa, Sheikh Abdulatif Al al-Sheikh, aveva spiegato come il divieto per le donne di guidare non fosse presente in alcun punto della Shari’a, il codice giuridico islamico su cui si basano le leggi del regno.

Ed è lì che la discussione nazionale sul tema si è rinfocolata, con gli attivisti da una parte che hanno promosso la campagna del 26 ottobre, e i religiosi della linea più conservatrice dall’altra, con la loro convinzione che concedere il diritto di guidare alle donne non potrà che favorire la licenziosità e la lascivia, minando addirittura le basi della società saudita.

E infatti, quattro giorni prima della protesta, circa 200 tra religiosi, predicatori e poliziotti si sono riuniti davanti agli uffici della corte reale a Jeddah per esprimere la loro opposizione alla campagna del 26 ottobre, “in particolare all’occidentalizzazione della nazione e della donna saudita”.

Impossibile, poi, non citare le imbarazzanti dichiarazioni “mediche” dell’alta figura religiosa sheikh Saleh al-Lohaidan secondo cui alle donne non deve essere permesso guidare in quanto la posizione sul sedile dell’autista metterebbe “a rischio le loro ovaie”. Queste parole hanno fatto strabuzzare gli occhi a buona parte della società saudita che, in particolare su Twitter, si è scatenata nei commenti tra lo scandalizzato e il sarcastico, con tanto di hashtag #WomensDrivingAffectsOvariesAndPelvises.

Una vittoria “virtuale”

Ed è proprio su Internet che la campagna del 26 Ottobre ha ottenuto lo slancio maggiore, con una petizione che in pochissimo tempo ha raggiunto oltre 16mila firme. Fin dal primo lancio, la voce si è sparsa soprattutto su Twitter (social network amatissimo dai sauditi), e il movimento ha ricevuto sostegno da moltissimi tra artisti, intellettuali, e personaggi in vista della società civile saudita e non solo, insieme ai semplici cittadini, sia donne che uomini, mentre sul sito sono iniziati a comparire i primi video YouTube di donne alla guida, anche prima della grande giornata del 26.

Non che siano mancati i problemi. Il sito originale è stato bloccato dalle autorità per ben due volte (il 29 settembre e il 7 ottobre), mentre proprio il giorno della protesta la home page è stata presa in ostaggio da un hacker, che l’ha sostituita con uno sfondo tutto nero decorato da teschi e fulmini rossi, più un testo in arabo in cima alla pagina che diceva: “Hacked by G6RaaT Hacker …La ragione dell’hacking: sono contro le donne alla guida, nella terra dei due luoghi santi”.

Gli attivisti non si sono fatti scoraggiare e il giorno dopo sono riusciti a sostituire il testo con alcune delle mail arrivate alla campagna.

La musica araba di sottofondo, invece, è stata rimpiazzata dalla canzone satirica “No Woman No Drive” in cui il giovane artista saudita Hisham Fageeh si fa beffe del divieto di guida per le donne e dei costumi repressivi della sua società sulle note di “No Woman No Cry” dell’artista reggae Bob Marley.

In pochissimo tempo il video ha avuto una diffusione virale, ben oltre i confini del regno.

Nonostante i blocchi e l’hacking, molti utenti di Twitter hanno continuato a dare il proprio sostegno alla campagna utilizzando l’hashtag, #Women2Drive e #Oct26Driving, fino a quando un nuovo hashtag non ha iniziato a fare capolino all’indomani del 26 ottobre: #Nov31Driving. Il fatto che novembre abbia solo 30 giorni ha causato un po’ di confusione all’inizio, ma vari tweet spiegano che si tratta di un modo per non chiudere la protesta.

“La campagna continua al fine di normalizzare la guida nel nostro paese, le cui leggi permettono la pratica di questo diritto” twittano gli attivisti.

Riforme a passo lento

Quella del 26 ottobre è solo la terza protesta nel regno per il diritto alla guida delle donne in ben 23 anni.

Il 17 giugno 2011, una cinquantina di donne ha guidato in varie città di tutto il regno, come parte della grande campagna “Women2Drive” sollevata dopo l’arresto e la detenzione dell’attivista per i diritti delle donne Manal Al- Sharif, colpevole di aver pubblicato su YouTube un video di se stessa alla guida.

Si tratta di una delle pochissime proteste pubbliche – se non si contano gli sciiti della provincia orientale – organizzate dai sauditi durante il tumultuoso periodo delle primavere arabe che ha scardinato molti dei governi vicini.

La prima manifestazione, invece, risale a più di due decenni prima quando, il 6 novembre del 1990, quarantasette donne avevano guidato attraverso Riyadh, per poi essere arrestate e, in alcuni casi, licenziate dai loro posti di lavoro e ulteriormente punite con la solita confisca dei passaporti.

Il divieto per le donne di guidare in vigore tutt’oggi è infatti basato su una fatwa emessa proprio allora – ottobre 1990 – dal Consiglio superiore religioso del regno, seguita da una comunicazione ufficiale del ministero dell’Interno in cui si specificava che le patenti di guida sarebbero state rilasciate solo agli uomini, mentre per le donne sorprese a guidare era previsto l’arresto e/o una multa.

Quasi nulla è cambiato da allora.

Ma il fatto che il massiccio sostegno online di queste settimane non si sia tramutato in una vera protesta di massa, non ha comunque scoraggiato gli attivisti. Loro, infatti, si dicono convinti che la loro richiesta di cambiamento sia ormai condivisa da gran parte della società saudita, soprattutto dai giovani che in numero sempre maggiore studiano e viaggiano all’estero, e ritornano con nuove prospettive e punti di vista sulla cultura del proprio paese.

A questo si aggiungono le piccole riforme introdotte dal vecchio re Abdullah: dalla prima università mista all’opportunità per le donne di lavorare come cassiere, dalla possibilità per loro di candidarsi e votare alle municipali del 2015 fino alla recente introduzione di 30 donne nell’organo consultivo della Shura.

Che pure sulla questione del diritto alla guida non sono state a guardare: proprio all’inizio di questo mese, tre di loro hanno sollevato il tema durante una seduta del Consiglio che si occupava di valutare la relazione annuale del ministero dei Trasporti, e hanno presentato un loro studio che esaminava la questione delle donne al volante dal punto di vista religioso e legislativo. Purtroppo, la loro richiesta di aprire il dibattito in Consiglio è stata respinta senza troppi complimenti, segno di quanto la posizione conservatrice domini ancora pesantemente nelle istituzioni saudite.

Secondo gli attivisti, infatti, il problema del divieto delle donne alla guida deriva ormai da una posizione politica e non più sociale, dato che per loro la società si sarebbe già espressa a favore.

In un sondaggio confezionato dal Gallup Institute nel 2007, ad esempio, il 66% delle donne e il 55% degli uomini sauditi hanno espresso la convinzione che le donne dovrebbero essere autorizzate a guidare, e probabilmente da allora le percentuali sono aumentate.

Nel settore dell’istruzione si sa ormai da tempo che le donne sono più numerose dei loro colleghi maschi e si sta ampliando l’idea che inserirle nel mondo degli affari non potrebbe che giovare all’economia del paese. Eppure, quando si tratta dei diritti delle donne, l’Arabia Saudita rimane uno dei paesi più restrittivi al mondo: non solo è l’ultimo luogo al mondo in cui alla donna non è permesso guidare, ma una ragazza non può nemmeno sposarsi, lavorare o viaggiare all’estero senza il consenso di un parente maschio. Figuriamoci partecipare al business.

Se in mezzo a tutte queste questioni importanti, la conquista della guida potrebbe sembrare dall’esterno una battaglia minore, si capisce come invece possa fare una grossa differenza nella vita di queste donne, aumentandone l’indipendenza, compresa la possibilità di risparmiare e trovare un’occupazione.

“E’ tempo di affrontare la discriminazione sistemica del paese – scrive tra le altre l’organizzazione internazionale Human Rights Watch in un comunicato – proprio la guida potrebbe aprire le strade alla riforma”.

October 30, 2013di: Anna ToroArabia SauditaArticoli Correlati:

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