Chi manipola lo Stato Islamico?

L’organizzazione dello Stato Islamico non è il prodotto spontaneo di una nuova generazione di combattenti. Alle sue spalle troviamo gli interessi geo-politici di Arabia Saudita e Turchia, coinvolte in un pericoloso equilibrismo. Che adesso rischia di rivoltarglisi contro.  

 

 

 

In un video pubblicato dopo la sua morte, l’attentatore di Parigi Amedy Coulibaly spiega le ragioni per le quali ha messo a segno due operazioni: l’assassinio di una poliziotta a Montrouge e il sequestro nel supermercato kasher di Porte de Vincennes.

Avete attaccato il Califfato e lo Stato Islamico, e noi vi attacchiamo. Non potere dichiararci guerra e non aspettarvi una risposta”, sostiene.

Nella sua logica annunciava così la propria fedeltà al “Califfo dei musulmani Abu Bakr al-Baghdadi”. Tuttavia, è poco verosimile ritenere che l’autore di questi gesti, così come chi l’ha aiutato nella sua impresa di morte, si sia reso conto di quanto lo Stato Islamico sia uno strumento nelle mani degli Stati arabi e dell’Occidente. 

 

La manipolazione dell’Arabia Saudita

Da quando la Siria ha vissuto le prime sollevazioni nel 2011, prima il Qatar e pochi mesi dopo l’Arabia Saudita hanno spinto – ognuno dalla sua parte – per accelerare la caduta del regime di Bashar al-Asad. 

Nell’estate del 2013, mentre la Siria entrava in guerra civile, il principe Bandar ben Sultan, capo dei servizi segreti sauditi, ha incontrato il presidente Vladimir Putin, mettendo sul tavolo questa offerta: la collaborazione russa alla caduta di Asad, in cambio di un accordo sul prezzo del petrolio e dell’assicurazione che i gruppi jihadisti ceceni non avrebbero preso il controllo della città di Sochi.

Al di là del tentativo di accordo – cinico, ma in fin dei conti classico nelle relazioni internazionali tra Stati – ciò che conta e fa riflettere è il riconoscimento da parte saudita della sua capacità di controllo e manipolazione dei gruppi jihadisti ceceni (…). 

Il regno saudita non è nuovo a queste manovre. Sin dal XVIII secolo Mohammed ibn Saud aveva capito che sarebbe stato assai utile fare leva sui sentimenti collettivi per assicurarsi il potere.

Per farlo al meglio, si appoggiò ad una dottrina religiosa (il wahhabismo, ndt) e ad un patto di alleanza stretto, all’epoca, con un teologo, Mohammed Ibn Abdel Wahhab (a cui si deve l’origine del wahhabismo, movimento riformatore che predica il ritorno alla purezza e alle origini dell’Islam, 1700 D.c. ca, ndt). 

Riuscendo a mettere al primo posto, con successo, i concetti di “jihad” e “apostasia”, conquistò il controllo dell’Arabia eliminando allo stesso tempo ogni traccia di quell’Islam sincretico che Costantinopoli aveva lasciato crescere e prosperare sulle vaste province arabe del suo Impero. 

Le soluzioni oggi sono le stesse di ieri. Chi, come l’Arabia Saudita (ma potremmo dire persino gli Stati Uniti e i loro alleati) ha manipolato l’islamismo radicale, favorendo l’emergere di al-Qaeda prima, e dello Stato Islamico in Iraq e in Siria poi, sapeva perfettamente che avrebbe toccato un nervo sensibile all’interno della comunità sunnita. 

L’obiettivo dei loro sostenitori è di capitalizzare l’animosità di una comunità sunnita che si sente marginalizzata, maltrattata e che considera il potere alauita del regime di Damasco (il clan della famiglia Asad appartiene alla minoranza alauita, ramo dello sciismo, la cui dottrina risale al IX secolo, ndt) e quello sciita a Baghdad come usurpatori del suo diritto a governare (il riferimento è al governo sciita di Nouri al-Maliki, al potere dal 2006 al 2014, ndt). 

Ciò che gli ideatori di questa politica distruttrice tentano di fare è istituire una roccaforte di resistenza sunnita alle frontiere sciite dell’Iran. Ed è in piena consapevolezza che Ryad combina il sostegno al jihadismo fuori dai suoi confini per contrastare il potere sciita, e la lotta contro il jihadismo interno che minaccia il regno dei Saud.

Una posizione schizofrenica dal momento che la distanza dottrinale tra il wahhabismo ufficiale saudita e il salafismo rivendicato dai jihadisti dell’IS si riduce a quasi zero.

Non sorprendentemente dunque constatiamo che il regno saudita e lo Stato Islamico hanno la stessa lettura sui reati commessi dai membri delle loro comunità, e persino lo stesso arsenale repressivo (morte per lapidazione in caso di adulterio, amputazione in caso di furto, etc).  

Lo Stato Islamico non è il prodotto spontaneo di una nuova generazione di combattenti. Nel suo albero genealogico ritroviamo al-Qaeda in Iraq e Ansar al-Islam (gruppo radicale sunnita iracheno, ndt).

In questa affiliazione si svela senza difficoltà il segno distintivo del regno saudita, e dunque l’ossessione di contrastare l’influenza degli sciiti in Iraq, di limitare le relazioni tra Baghdad e Teheran, e di soffocare le aspirazioni democratiche che vengono espresse: tutte evoluzioni che l’Arabia Saudita considera “pericolose” per la sopravvivenza e la longevità della sua dinastia. 

Per contrastare tutto questo finanzia quei gruppi jihadisti che sviluppano le loro attività al di fuori dei confini del regno. Peccato che questo jihadismo “esterno” ormai costituisca una minaccia anche contro i Saud. 

 

Le ambizioni regionali di Erdogan

Dopo la nomina di Recep Tayyip Erdogan a primo ministro nel 2003 (e poi a Presidente, nel 2014) il potere turco è entrato in una fase di “ottomanismo” che ogni campagna elettorale non ha fatto che evidenziare.

Il presidente ha tentato strenuamente di dimostrare che la Turchia poteva recuperare quel ruolo predominante sul Vicino Oriente e sul mondo musulmano perduto con la fine dell’Impero Ottomano e la caduta dell’ultimo Califfato.

Richiamare i simboli nazionali di un passato glorioso, strizzare l’occhio all’economia di mercato, spianare la strada ad un Islam conforme alle sue vedute, vicino a quello dei Fratelli Musulmani e accettabile per i paesi occidentali, gli è parso il modo più semplice per imporre il “modello turco” al Medio Oriente, preservando i suoi legami con gli Stati Uniti e l’Europa. 

Allo stesso tempo, sperava di prendere il posto dell’Arabia Saudita nella sua “relazione speciale” con i paesi occidentali, e servire da fonte di ispirazione e modello per un Medio Oriente che doveva rinnovarsi. Le rivolte arabe del 2010-2011 gli hanno dato la sensazione, per un momento, che potesse riuscire nella sua impresa.

L’idea secondo cui alcuni Stati si sarebbero affidati alla Fratellanza Musulmana all’epoca non era priva di fondamento. Erdogan immaginava probabilmente di riuscire a convincere il presidente siriano ad accettare questa evoluzione. La vittoria degli islamisti egiziani alle elezioni legislative del novembre 2011 e poi la vittoria di Mohamed Morsi alle elezioni presidenziali di giugno 2012, hanno dato conferma alla sua visione.

Erdogan ha potuto immaginare di esercitare la sua influenza sul Vicino Oriente arabo, e di tenere testa allo Stato Islamico che intanto andava affermandosi.  Ma questo circolo virtuoso si è dissolto quando è divenuto evidente che Asad non avrebbe lasciato il potere, quale che fosse il prezzo da pagare per il popolo siriano.

Dal giugno del 2011 dunque Erdogan ha sostenuto la rivolta siriana contro il regime, contribuendo alla formazione dell’Esercito Siriano Libero (ESL) e mettendo a disposizione il suo territorio. Nonostante le loro ambizioni, nel frattempo, Morsi e la Fratellanza Musulmana venivano cacciati dal potere dall’Esercito egiziano, che il 3 luglio 2013 metteva a segno il suo colpo di Stato, largamente “approvato” dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Quwait. 

Erdogan, perduta la carta dei Fratelli Musulmani, ormai designati come “terroristi” da Ryad, è stato costretto a cambiare strategia.

Verso il regime di Asad ha utilizzato parole sempre più dure, rivendicandone la caduta. Nel faccia-a-faccia con l’Arabia Saudita, ha fatto la scelta di sfidare il regno con la sua stessa arma: l’islamismo radicale. 

Anche lui è entrato dunque a far parte di coloro che credevano che i jihadisti dell’IS potessero provocare la caduta di Asad. Da lì ad aiutarli non c’era che da fare un passo. Che Ankara, ad ogni modo, aveva già compiuto.

L’estensione geografica della frontiera turco-siriana è stata d’aiuto. Non è difficile attraversarla, comprare e vendere petrolio, far passare armi, lasciar passare in Siria gli aspiranti jihadisti, autorizzare i combattenti a tornare su territorio turco per reclutarne altri, mettere a punto la logistica o essere curati. Basta che la sicurezza turca chiuda gli occhi. 

 

Apprendisti stregoni

Ma le passioni collettive hanno la particolarità che, una volta liberate, sfuggono al controllo dei loro istigatori, si emancipano e producono effetti imprevisti e inimmaginabili. Peggio ancora, finiscono talvolta per rivoltarsi contro chi le ha manipolate.

L’esempio più caratteristico degli ultimi anni è stato quello del Pakistan di Zia Al-Haq, che aveva sostenuto i jihadisti sunniti in Afghanistan prima di essere lui stesso costretto a piegarsi al volere dell’islamismo radicale.

Oggi, sono la Turchia e l’Arabia Saudita a scontare questo “effetto boomerang”. 

Ankara e Ryad, ormai ai ferri corti, conoscono bene il destino di tutti quelli che hanno sostenuto i gruppi jihadisti. Una cinquantina di cittadini turchi, tra cui alcuni diplomatici, sono stati rapiti a Mosul l’11 giugno 2014. Ankara ha dovuto negoziare la loro liberazione da pari a pari con lo Stato Islamico, quasi “da Stato a Stato”.

Migliaia di rifugiati curdi stanno abbandonando la Siria per trovare riparo in Turchia, rendendo la soluzione della “questione curda” ancora più problematica per Erdogan. Nell’ottobre scorso il governo turco ha violentemente represso alcuni manifestanti che protestavano contro il rifiuto del presidente di aiutare i curdi siriani a Kobane, minacciati dall’IS.

Nella prima settimana di gennaio 2015, due attentati a Istanbul, non ancora rivendicati, hanno confermato che la società turca non è immune dalle evoluzioni dei suoi vicini, più o meno lontani. 

Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, già dal 1979, quando la Mecca fu sequestrata (da un gruppo di dissidenti guidato da Juhaiman ibn Muhammad ibn Saif al Otaibi, ispirato al movimento degli “Ikhwan”dei primi del Novecento, che contestava la legittimità della famiglia Saud a governare, ndt) Ryad è puntualmente interessata dalla violenza “islamista” (…), che trae la sua ispirazione nella contestazione della legittimità della famiglia Saud a governare in virtù dei suoi legami con gli Stati Uniti.

Ryad dunque è consapevole della minaccia che lo Stato Islamico può rappresentare per il regno. 

L’IS d’altronde non fa mistero del suo odio per le relazioni che l’Arabia Saudita ha intrecciato con i paesi occidentali. Li considera un “tradimento” dell’Islam e non nutre che disprezzo per un re che si presenta come “il guardiano delle sante moschee” (Mecca e Medina, ndt) e il “difensore dell’Islam più autentico”, ma che ha accolto sul suo territorio le truppe americane (il riferimento è alla Guerra del Golfo, spartiacque nella storia regionale proprio per la decisione da parte dei sauditi di ospitare l’esercito americano su suolo arabo in funzione anti-irachena, ndt). 

Lo Stato Islamico rappresenta ormai una minaccia per il regime saudita.

Quando ha assaltato un suo posto di blocco alla frontiera all’inizio di gennaio, il regno ha preso misure di sicurezza draconiane per proteggersi: ha eretto per chilometri un muro di sicurezza lungo la frontiera nord, al confine con l’Iraq; ha costruito una seconda barriera lungo il confine con lo Yemen e mobilitato migliaia di truppe.

Senza dimenticare le leggi anti-terrorismo adottate nel 2014 per dissuadere i sudditi ad unirsi alle fila jihadiste (pene detentive pesantissime, forme di ritorsione contro chi simpatizza per i movimenti religiosi radicali, blocco dei finanziamenti di un canale satellitare di base in Egitto conosciuto per il suo carattere anti-sciita).

Ryad fa anche parte della “Coalizione internazionale anti-terrorismo” messa in piedi da Barak Obama nel settembre 2014. 

 

Non si vince e non si perde

Se lo Stato Islamico rappresenta un bastione sunnita contro lo sciismo e, incidentalmente, contro il regime di Asad, i suoi sostenitori sauditi e turchi non possono immaginare un suo sradicamento.

Sanno che, nel caso di una sua sconfitta militare, a pagarne le spese sarebbe l’Islam sunnita, e l’Iran apparirebbe, di conseguenza, il definitivo vincitore di questa battaglia. 

Questa prospettiva non è ammissibile ne’ per Ryad, ne’ tantomeno per Ankara, Amman, Washington o Israele. La Coalizione internazionale messa in piedi su spinta statunitense affronta il medesimo dilemma. Deve sradicare un jihadismo che pratica il terrorismo su scala internazionale e destabilizza la regione, senza dare l’impressione di combattere contro la comunità sunnita.

La lezione irachena del 2003 è rimasta ben impressa nella mente di Washington e dell’Europa. 

Questo delicato gioco d’equilibro comporta un certo numero di conseguenze. Lo Stato Islamico non prevarrà in modo definitivo nella regione perché la spinta sarà contenuta da attacchi militari. Non sparirà, perché molte società arabe mediorientali sostengono la sua visione religiosa, ma non potrà estendere in modo significativo il suo spazio di azione territoriale. 

Conserverà dunque una delle sue ragioni d’essere: rendersi strumento “diplomatico” utile a molti Stati, sia quelli che lo sostengono che quelli che lo combattono.

In altri termini, lo Stato Islamico resterà tra noi ancora molto a lungo. 

 

*La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Orient XXI ed è disponibile qui. La traduzione dal francese è a cura di Cecilia Dalla Negra. 

 

February 08, 2015di: Alexis Varende per l’Orient XXI*Arabia SauditaIran,Iraq,Siria,Turchia,Articoli Correlati: 

Redazione

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