Il racconto del rapimento della giornalista italo-siriana Susan Dabbous. Un libro asciutto, intenso: inquadratura soggettiva sulla psicologia dei jihadisti di Jabhat al-Nusra.
«Non ho problemi ad ammettere i miei stati d’animo, non sono un’eroe e ci tengo molto a precisarlo», scrive Susan Dabbous in uno dei tanti passaggi drammatici del suo “Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra” in uscita in questi giorni per i tipi di Castelvecchi. E’ la cifra di tutto il libro che racconta gli undici incredibili giorni passati dalla giornalista italo-siriana nelle mani dei combattenti jihadisti di Jabhat al-Nusra.
Susan fu rapita il 3 aprile del 2013, assieme a una troupe della Rai composta da Amedeo Ricucci, Andrea Vignali ed Elio Colavolpe, oltre al loro autista, i due uomini di scorta e Ali Kamel, il contatto che avevano usato per entrare in Siria e che si rivelerà fondamentale per il buon esito del sequestro.
Il rapimento è avvenuto nel villaggio di Ghassanieh, un villaggio cristiano, ormai spettrale quando vi arrivano i giornalisti, e controllato dai miliziani jihadisti. La troupe sta riprendendo una chiesa distrutta e oltraggiata quando un gruppo di miliziani si avvicina e li sequestra.
Il racconto parte da lì e arriva fino ai giorni successivi alla liberazione, quando Susan deve fare i conti con il trauma che ha subito e con la difficoltà di elaborarne senso e conseguenze. Il libro è, in parte, un pezzo di questa elaborazione, difficile e dolorosa. E si capisce che è stato scritto anche per l’urgenza di tirare le somme, di farsi una ragione di una esperienza così traumatica.
Gli squali del mercato editoriale dicono che i libri del racconto dei giornalisti rapiti “non vendono”, e quindi fa onore a Castelvecchi aver creduto in questo testo che, invece, ha una inquadratura unica: non sono molti infatti gli ostaggi passati per le mani dei salafiti fondamentalisti che possano raccontare la propria esperienza. In Siria come altrove.
Nella introduzione al volume, Paul Wood, inviato speciale della BBC in Medio Oriente – e a sua volta vittima di un rapimento – lo nota: «In pratica, nessun giornalista è riuscito ad avere contatti con l’Isis; nessun altro reporter indipendente li ha osservati da vicino per un lungo periodo di tempo ed è poi riuscito a salvarsi per raccontarlo». Isis è l’acronimo in inglese dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, la sigla nata dalla fusione del ramo iracheno di Al Qaida con appunto Jabhat al-Nusra in Siria. Una fusione avvenuta proprio mentre Susan era nelle mani dei suoi sequestratori.
Il valore del libro, però, non è tutto qui. Ciò che lo rende unico è il fatto che Susan abbia passato una parte della sua prigionia a stretto contatto con Miriam, moglie di uno dei miliziani, e abbia saputo usare questa occasione per stabilire un contatto umano, da donna a donna – anche senza mai perdere di vista la situazione – per sopravvivere.
E’ un viaggio nella trama psicologica dei salafiti, tutti giovanissimi, nelle loro contraddizioni profonde, nelle loro certezze granitiche e nella loro visione del mondo.
E’ un racconto in soggettiva strettissima, dalla prospettiva di un ostaggio che accetta il suo ruolo per sopravvivere e scopre le proprie energie psicologiche, la propria capacità di astuzia, per riuscire a limitare i danni e cercare di abbassarsi, come un giunco, in attesa che la piena passi. Susan però è una giornalista e non rinuncia quindi a offrire una chiave di analisi, sul filo delle esperienze e dei ricordi personali della sua Siria prima della guerra civile, per capire quello che sta succedendo in uno dei paesi chiave del Medio Oriente.
L’analisi, la riflessione, sono anche un modo per riempire le interminabili ore della prigionia, in cui assumono un valore esistenziale dettagli come la disponibilità d’acqua da bere, l’avere gli occhiali o un quaderno dove scrivere.
Ore in cui le emozioni si accavallano, sotto i bombardamenti delle forze governative, notte dopo notte, e nel timore che il rapimento possa prendere una piega ancora più tragica.
Ore in cui l’universo si restringe alle mure delle case-prigione, al pensiero dei familiari in Italia e dei compagni di prigionia, da cui viene separata quasi subito, alla sopravvivenza minuta: dormire, mangiare, lavarsi, tenere la mente impegnata per non lasciarsi sopraffare dall’angoscia. Nutrire la speranza, ma senza cedervi del tutto…
Il racconto scorre senza intralci, grazie a un lavoro attento sul testo, asciutto. Denso ma senza fronzoli, con pochissime concessioni allo stile: essenziale come il pavimento di cemento scrostato della sua prima cella. Il racconto, cosi costruito, aiuta a capire più di molte analisi asettiche.
Ancora Paul Wood: «Come vuoi morire? E’ un ottimo punto di partenza per capire cosa sia successo alla rivoluzione siriana».
Susan Dabbous
Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra
Castelvecchi, 186 pagine, 18,50 euro
March 26, 2014di: Enzo ManginiSiria,
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