“American Sniper”, o della negazione del nostro fanatismo

In un continuo gioco di sovrapposizioni tra elementi filmici e storici piegati alla coerente logica del “bene contro il male”, tipica della retorica della lotta al terrorismo, il celebre regista statunitense compie un pericoloso viaggio etnografico in un Iraq mai esistito. Nel quale non ci sono insorti, ma solo terroristi.

Ogni attività rituale ha lo scopo di produrre identità attraverso il riconoscimento di un’alterità”. L’individuazione di un diverso, di un nemico rafforza le dinamiche relazionali di comunità.

Partendo dall’esperienza di conquista spagnola delle Americhe, il filosofo francese Marc Augè nel suo classico “La guerra dei sogni” individuava gli strumenti di colonizzazione dell’immaginario collettivo: instaurando un nuovo regime di finzione, tramite racconti, narrazioni e rituali altri, il contagio o la sottomissione culturale può assumere le sembianze di un fenomeno naturale, a tratti persino gradevole.

E’ nel contesto culturale contemporaneo che il processo si accentua. Oltre ai legami, nella società liquida tendono a liquefarsi le forme di ancoramento al reale. Ed è qui che si gioca la partita più importante secondo Augè: la conquista di un immaginario collettivo debole, vuoto, permeato da una coscienza critica e storica fragile avviene senza resistenze.

L’immagine finzionale assume drammaticamente il ruolo pedagogico della ristrutturazione storiografica.

Un film ai giorni nostri può riscrivere la storia.

In “American Sniper” il celebre regista americano Clint Eastwood compie un pericoloso viaggio etnografico nel conflitto iracheno.

Una deformazione prospettica a partire dallo sguardo di un cecchino, il più “efficiente” della storia dell’esercito americano, assurto a leggenda, eroe nazionale. Eastwood, autore di un capolavoro del parallelismo sulla battaglia di Iwo Jima del 1944 ai quali aveva dedicato “Flags of our fathers” e “Lettere da Iwo Jima”, rispettivamente ai punti di vista americano e giapponese, scade qui in un’opera rovinosamente celebrativa. “Ideologicamente pericolosa” secondo l’esperto di cinema Marco Giusti.

Un solo punto focale, unilaterale, in una ricostruzione manichea di un Iraq fondamentalmente mai esistito.

Se non nella mente fanatizzata di soldati al fronte. Che vedono nell’altro un nemico totalizzante. Che non intravedono umanità nel fronte opposto, ma solo “dannati selvaggi” come il vero Chris Kyle amava scrivere nelle proprie memorie. Diari ricchi di esternazioni folli e opportunamente tralasciate nel film: “Non ho ucciso persone con il Corano in mano. Mi sarebbe piaciuto, ma non l’ho fatto”.

Nei quattro turni del tiratore scelto in Iraq, interpretato dall’ottimo Bradley Cooper, il dispositivo filmico attraversa le battaglie di Nassyria, Falluja e Sadr City senza la morte di un solo civile innocente.

Una guerra chirurgica che cancella il napalm e il fosforo bianco impiegato sulla popolazione inerme di Falluja e il milione di vittime provocate tra la popolazione irachena. Rappresentata perennemente a tinte fosche.

Come nella scena principale del film dove un uomo, presumibilmente padre e marito, manda al martirio moglie e figlioletto con una granata RPG. Una raffigurazione simbolica in netta contrapposizione con la morale di fondo della cultura americana riassunta da Eastwood nell’assioma personificato dal protagonista inquadratura dopo inquadratura: il “cane pastore” che protegge il proprio gregge dai lupi.

Raffigurati nello schema classico hollywoodiano dai perfetti antagonisti: Mustafa, fantomatico tiratore scelto siriano al servizio del “macellaio”, presunto numero due di Al Zarqawi, che sevizia con un trapano adulti e bambini.

In un continuo gioco di sovrapposizioni tra elementi filmici e storici piegati alla coerente logica del bene contro il male, tipica della retorica della lotta al terrorismo. Perché non esistono insorti, ma solo terroristi.

E il corpo esangue di un collaborazionista esposto dai suoi concittadini con rabbia nel rituale corteo funebre attesta la totale contiguità del popolo iracheno agli estremisti qaedisti.

L’etnocentrismo americano alla base della narrazione è prospettica. Egemonica. L’unica criticità dell’invasione americana è rappresentata dall’introspezione sugli effetti dei sintomi post traumatici della cosiddetta sindrome del Golfo nei soldati americani (che colpisce 1/5 dei reduci e causa tutt’ora circa dieci suicidi al giorno). Anche il protagonista ne sarà coinvolto, in un processo di alienazione che individua l’unico tratto in cui il film riconsegna la drammaticità della guerra.

Sottintesa come necessaria, fisiologica, volta a fermare l’ondata di violenza che mano a mano rischia di coinvolgere gli Stati Uniti d’America.

In un flashback costruito a partire dalle immagini dell’attentato all’ambasciata di Nairobi del 1998 e l’Undici settembre. Motivazioni alla base dell’arruolamento di Kyle nei corpi speciali dei Navy Seals.

Un vero mito d’oggi, con le parole di Roland Barthes, oggetto di una mitologia inesauribile che trascura i problemi con l’alcool, il suo estremismo, l’uccisione a sangue freddo di due malviventi messicani, le millanterie di un uomo che si vantava di aver abbattuto una trentina di criminali nelle strade di New Orleans dopo l’uragano Katrina. E sul quale in forte controtendenza ai toni entusiastici della critica internazionale solo Liddy West sul Guardian ha posto diversi interrogativi scomodi.

Può essere definito eroe un uomo che descrive l’uccidere come un “divertimento” e un qualcosa che “amava fare”?

Finché la cultura occidentale vivrà di stereotipi del manicheismo più disumanizzante come Chris Kyle, finché non coglieremo il nostro di fanatismo, continueremo a sottovalutare le nostre responsabilità nel rinfocolamento del radicalismo altrui. La strage di Charlie Hebdo in testa.

January 11, 2015di: Alessio MarriIraq,

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