Alla prossima edizione della Biennale di Venezia anche un padiglione dedicato all’Iraq. La cui bellezza rischia di sparire tra le pieghe di una cronaca fatta di sola violenza.
“La bellezza invisibile è una membrana fragile che registra le oscillazioni di una pratica artistica permeata dall’attuale condizione del paese e dello stato delle arti“. (Philippe Van Cauteren*)
Alla bellezza urlata e dai contorni perfetti i nostri occhi sono ormai abituati, ciò di cui hanno bisogno, invece, è di essere educati a quella invisibile di bellezza, quella inaspettata perché camuffata tra le macerie o nascosta tra le pieghe del dolore.
I nostri occhi devono essere educati all’Iraq contemporaneo, fragile ma ben vivo e soprattutto presto in mostra alla 56ma Esposizione Internazionale d’Arte – Biennale di Venezia.
In questo caso, non solo le opere ma anche le parole acquisiscono una valenza artistica divenendo parte integrante dell’esposizione. “Invisible beauty”, infatti, non si riduce ad un nome scelto per indicare il tema dello spazio espositivo, bensì si tramuta in un monito necessario che serve ad orientare il visitatore.
Di fronte a sé un vero e proprio percorso poliedrico che attraversa generazioni, stili, interpretazioni ed esperienze differenti per poi ricomporsi in un’unica immagine caledoiscopica dell’Iraq. Sullo sfondo si stagliano la barbarie della guerra, la disperazione di tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la propria casa, i diritti umani brutalmente violati e la terribile minaccia di Daesh.
L’arte, dunque, rifugge i consueti principi dell’estetica ed al suo posto abbraccia le necessità pragmatiche di un popolo ferito che vuole contrastare l’oblio e la conseguente indifferenza della comunità internazionale.
Alla stregua di una seduta di psicoterapia, Latif Al Ani, Akam Shex Hadi, Haider Jabbar, Rabab Ghazoul e Salam Atta Sabri, i cinque artisti in mostra, trasformano l’arte in una cura per l’animo, consapevoli di possedere l’unico strumento efficace per rendere la realtà memoria collettiva condivisa, da difendere e preservare.
Per farlo giocano sul delicato equilibrio tra etica ed estetica, intenti sociali e canoni artistici, senza mai tralasciare l’attuale condizione politica dell’Iraq.
Grazie ad Al Ani, considerato all’unanimità uno dei padri fondatori della fotografia irachena, non mancano i riferimenti al passato, proprio a quella società che, tra gli anni ’50 e ’60, appariva alla ricerca di una nuova identità perché divisa tra il rispetto delle tradizioni e la virulenza delle spinte innovatrici.
Alla dolce nostalgia di queste immagini si contrappone la durezza delle foto del giovane Hadi, interamente focalizzate sulla crisi umanitaria in Iraq, e quella dei dipinti di Jabbar che, senza filtri, mostrano le vittime provocate dalla ferocia di Daesh.
Violenza che si abbatte anche sull’inestimabile patrimonio artistico-culturale di cui l’Iraq è antico custode e di cui abbiamo parlato anche qui.
A denunciare lo scempio compiuto ci pensa Atta Sabri con i suoi disegni e la sua pluriennale esperienza come direttore del Museo Nazionale d’Arte Moderna di Baghdad. Ma la mostra presenta anche un forte dinamismo emozionale e prevede installazioni, video e performance interattive, tutte create da Ghazoul, eclettica artista, a cui viene affidato l’arduo compito di aiutare il visitatore ad abbandonare le vesti di mero spettatore, così da elevarlo al ruolo di co-protagonista della stessa opera d’arte.
Dunque non è compassione quella che “Invisible beauty” vuole suscitare ma una sincera partecipazione alle vicende di un popolo che non ha mai smesso di lottare per affrancarsi da ingerenze esterne e che per questo rischia ogni giorno di essere dimenticato, abbandonato e quindi divenire invisibile.
*Curatore della mostra, direttore artistico dello S.M.A.K. (Museo d’Arte Contemporanea) a Gent, Belgio.
April 26, 2015di: Claudia Gifuni Iraq,