Daesh. Il fascino della propaganda ai tempi della “modernità liquida”

Chi sono i “foreign fighters” e perché scelgono di combattere nel Califfato? Un’analisi ricostruisce il potere della propaganda di Daesh di fronte alle carenze della modernità occidentale. 

 

 

 

Lo Stato Islamico, autoproclamato nel giungo 2014 dal suo califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, è ormai diventato un attore fondamentale per gli equilibri geopolitici mondiali e non passa giorno senza che i media non diano notizia delle sue brutali usanze o delle sue azioni militari.

Il jihadismo non è un fenomeno nuovo, il ricordo di Al-Qaeda è ancora fresco e anche prima il mondo aveva già imparato a conoscere la violenza islamista. Tuttavia è innegabile che Daesh, acronimo arabo di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, abbia portato con sé qualcosa di assolutamente nuovo che l’ha quindi fatto apparire come un’evoluzione di Al-Qaeda, un salto di qualità.

La prima differenza sta sicuramente nella mediatizzazione del fenomeno e nella straordinaria macchina propagandisitica posseduta dall’organizzazione.

Vi è poi un termine nuovo arrivato alle orecchie dei comuni cittadini occidentali e non, un termine che faticano a ricondurre all’epoca di Al-Qaeda. Si tratta dei foreign fighters, diventati oggetto di sempre crescente attenzione e timore, soprattutto dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015.

In realtà il fenomeno dei combattenti stranieri non è nuovo, la loro attività può infatti essere fatta risalire almeno alla guerra in Afghanistan del ’79, ma solo con questo conflitto essi hanno guadagnato tanta visibilità. 

Thomas Hegghammer, analista esperto di jihadismo e docente di Scienze Politiche all’Università di Oslo, individua quattro condizioni che un soggetto deve soddisfare per poter essere considerato un foreign fighter: egli deve prendere parte ad un’insurrezione, non deve essere cittadino di nessuno dei paesi coinvolti nel conflitto, non deve essere affiliato ad alcuna organizzazione militare ufficiale ed infine non deve percepire alcun pagamento per il suo servizio.

Interrogatosi sull’origine di questi combattenti, Hegghammer parte del presupposto che la decisione di lasciare il proprio paese per andare a combattere la guerra di un altro popolo debba essere dettata almeno in parte da un sentimento di fratellanza e vede nel panislamismo hijazenol’ideologia fondante di questa tendenza.

A suo avviso, questo movimento, che a partire dagli anni ’60 rese il triangolo Mecca-Medina-Gedda il luogo a più alta concentrazione di istituzioni religiose, si fece promotore di un discorso allarmista e vittimista che diffuse l’idea che il mondo islamico fosse in costante pericolo e che fosse quindi dovere di ogni musulmano battersi in difesa della ‘umma.

L’analisi di Hegghammer è certamente utile per comprendere le origini del movimento, tuttavia dagli anni ’80 molte cose sono cambiate e la motivazione dell’altruismo non convince completamente chi si interroga sulle ragioni che spingono sempre più persone a partire per prendere parte a combattimenti che probabilmente costeranno loro la vita.

Nonostante si cerchi di individuare un preciso identikit del foreign fighter, chi parte arriva alla decisione di cambiare vita prendendo strade spesso molto diverse dai suoi compagni. 

Quest’analisi mira a rispondere a tre domande principali: chi parte, perché lo fa e in che modo, ovvero come avviene il suo reclutamento.

 

Foreign Fighters: chi sono e perché partono

Per avere una visione chiara del fenomeno è necessario fare riferimento ad alcuni dati scientifici che lo definiscano. Recenti stime pubblicate nel dicembre 2015 parlano di circa 31.000 foreign fighters partiti per la Siria e per l’Iraq con l’obiettivo di partecipare al jihad del Califfato, di cui circa 5.000 sarebbero europei.

Il fenomeno è in continua crescita e ciò viene facilmente dimostrato dai dati risalenti al giugno 2014, che parlavano di un totale di 12.000 combattenti giunti nel territorio controllato dallo Stato Islamico nel corso dei primi tre anni di conflitto, un numero addirittura più elevato di quello riscontrato in 10 anni di guerra afghana.

I paesi di provenienza dei combattenti sono 86, e fra quelli arabi si trova in testa la Tunisia (6.000 cittadini partiti), mentre al di fuori della regione la Russia occupa la prima posizione con 2.400 cittadini, seguita a breve distanza dalla Francia (1.700). 

Una caratteristica che emerge dalle analisi di questi dati è la giovane età dei combattenti, che in media va dai 18 ai 29 anni, ma che può scendere fino ai 15. Volendo trovare una spiegazione a questo fenomeno non si possono assolutamente sottovalutare le caratteristiche demografiche dell’area MENA (Nord Africa e Medio Oriente).

La popolazione di questa regione è estremamente giovane, una persona su 5 ha infatti un’età compresa fra i 15 e i 24 anni. Alcune previsioni indicano come la crescita demografica osservata dall’area fino alla metà degli anni ’80 porterà ad un picco massimo della popolazione giovanile nel 2035, quando questa toccherà i 100 milioni.

Sebbene questa caratteristica demografica potrebbe costituire una risorsa preziosa per lo sviluppo della regione, la struttura economica ed i problemi sociopolitici fanno sì che ciò non avvenga e che anzi ne derivino gravi problemi di disoccupazione.

Se dunque la popolazione della regione araba è molto più giovane di quanto non lo fosse nei decenni precedenti, si può comprendere come i mujahidin che partono per andare a combattere con il Califfato siano rappresentativi di questa tendenza.

Per quanto riguarda la situazione del mercato del lavoro, non è una novità che la mancanza di opportunità di impiego porti spesso a frustrazione, povertà e disillusione, fattori importanti in qualsiasi processo di radicalizzazione.

Ciò tuttavia non è sufficiente per comprendere la complessità del fenomeno dei foreign fighters, caratterizzato da moltissime variabili culturali, politiche, economiche ma soprattutto sociali. 

La domanda che sorge spontanea e dalla quale prende origine la maggior parte delle ricerche sull’argomento è: perché partono?

Se il senso di altruismo e fratellanza può in parte chiarire come i foreign fighters arabi decidano di partire per aiutare i loro correligionari, lo stesso non si può dire dei combattenti occidentali. Varie ricerche dimostrano infatti come molti muhāğirūn abbiano scarse nozioni teologiche e come addirittura risultino piuttosto ignoranti in questioni basilari di fede.

Un esempio significativo è fornito dall’esperienza di due britannici che appena prima di partire per la Siria ordinarono su Amazon alcune copie di “Islam for dummies”, “The Koran for dummies” e “Arabic for dummies”.

La religione è certamente un fattore fondamentale da prendere in considerazione analizzando le motivazioni dei foreign fighters, soprattutto in un contesto come quello dello Stato Islamico, in cui essa è tematica fondante di ogni pretesa, tuttavia non basta ad esaurire la questione. 

 

Tra disillusione ed esclusione sociale 

Come è stato affermato in precedenza, risulta impossibile stabilire con assoluta sicurezza quale sia il fattore determinante nel processo di radicalizzazione di ciascun combattente, tuttavia si possono individuare alcuni punti che accomunano tutti i giovani che hanno deciso di partire per il jihad o che hanno tentato di farlo.

Uno di questi temi, forse il più significativo e determinante, è la disillusione giovanile. Senza dubbio agevolata dal periodo di crisi economica attuale, è una disillusione nei confronti delle autorità e dei governi, non in grado di rappresentare adeguatamente questa parte di popolazione che fatica sempre di più a trovare la propria strada per la realizzazione.

I giovani che cadono preda della propaganda jihadista sono in cerca di identità, di un progetto di vita che dia loro una missione, un ruolo da svolgere.  

Soprattutto quando si prendono in considerazione i casi di foreign fighters occidentali in molti faticano a capire come si possa scegliere di abbandonare le comodità, le libertà e le ricchezze occidentali per andare in uno dei luoghi più pericolosi e disastrati della terra.

Il mito dell’Occidente, delle sue infinite possibilità di successo e ricchezza, per gran parte della popolazione rimane appunto niente di più di un mito, irrealizzabile ed illusorio. Chiunque non sia in grado di adattarsi ai suoi ritmi, ai suoi valori e alle sue richieste viene automaticamente escluso e isolato.

Questo è vero soprattutto nelle grandi città, dove le differenze sociali sono più evidenti e determinano la creazione di veri e propri ghetti, incubatori di criminalità e degrado. Il sentimento di esclusione può colpire allo stesso modo un immigrato di seconda o terza generazione e un cittadino occidentale senza alcuna origine araba, e non deriva esclusivamente da una difficile situazione economica.

Sebbene la povertà possa indubbiamente essere un fattore importante nel contribuire alla radicalizzazione, varie ricerche hanno evidenziato piuttosto come sia una crisi d’identità a determinare l’avvicinamento ad ambienti nuovi e spesso estremi. In una “modernità liquida” come quella descritta da Bauman, caratterizzata da una mancanza di prospettive e dalla vaghezza delle regole, si fatica sempre di più ad individuare valori saldi e legami reali fra individui, i quali diventano sempre più soli e disorientati.

Un uomo disorientato cerca una direzione, uno scopo da perseguire, e lo Stato Islamico ne offre uno ben preciso. 

 

Da “jihadi John” agli attentatori di Charlie Hebdo

L’esempio di “jihadi John”, forse il più celebre foreign fighter del Califfato, può aiutare ad inquadrare meglio la situazione descritta.

Mohammed Emwazi, vero nome del boia presente in diversi video di decapitazioni, è stato il volto del terrore jihadista dello Stato Islamico almeno fino al 12 novembre 2015, giorno in cui fonti statunitensi hanno riferito di averlo ucciso a Raqqa.

Nato in Kuwait, si trasferì a Londra con la famiglia nel 1994 dove trascorse un’infanzia relativamente tranquilla e viene descritto dai compagni come un ragazzo nervoso, timido e in cerca dell’approvazione delle ragazze, come qualsiasi adolescente. Nessuno lo considerava all’epoca un musulmano particolarmente osservante, in tanti infatti testimoniano di averlo visto fumare e bere alcolici.

Quello che però trapela dalle interviste a compagni e insegnanti è un’esperienza di bullismo subita da Mohammed, che iniziò a frequentare un gruppo di coetanei di una moschea. Da quel momento Emwazi si avvicinò sempre di più alla religione e alle sue origini, tant’è che nel 2009 si recò in Kuwait per passare del tempo con la famiglia di suo padre.

Ritornato in Inghilterra, Mohammed confessò di sentirsi spiato e minacciato dai servizi di sicurezza britannici, i quali gli impedirono di tornare nuovamente in Kuwait, ma non riuscirono a fermarlo quando nel 2013 sparì, non lasciando traccia. E’ evidente come la frustrazione di Emwazi per non sentirsi pienamente inserito fra i compagni di studi lo spinse a ricercare le sue origini e a riscoprire quella fede che non aveva mai vissuto con grande convinzione, non essendo la sua famiglia praticante.

Una storia simile è quella di Cherif Kouachi, francese di origine tunisina che insieme al fratello Said terrorizzò la Francia con l’attacco alla sede del giornale Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015.

I due fratelli, che due giorni dopo l’attentato trovarono la morte per mano delle forze di polizia francesi, erano cresciuti nella periferia di Parigi in un ambiente caratterizzato da povertà e criminalità. Dopo il suicidio della madre furono trasferiti in vari istituti e una volta usciti ritornarono nel XIX arrondissement. In questo periodo lo stile di vita di Cherif non era di certo quello di un musulmano devoto, passava infatti il tempo a bere birra e fumare spinelli, in cerca di una strada che gli si mostrò solo con l’arrivo di Farid Benyettou.

Predicatore dedicato al reclutamento di giovani da mandare a combattere in Iraq al fianco di Al-Zarqawi, Benyettou esercitò un’enorme influenza sui due fratelli, che improvvisamente iniziarono a vedere uno scopo nelle loro vite. Nel 2005 Cherif tentò di raggiungere la Siria, ma venne arrestato dalla polizia francese che lo portò nel carcere di Fleury-Mérogis, dove passerà i successivi tre anni.

Sono molti gli studi che dimostrano come le prigioni siano il luogo ideale per radicalizzazione e reclutamento e il caso di Cherif ne è un esempio perfetto. 

I due esempi riportati mostrano quindi come non sia in primo luogo la povertà ad avvicinare una persona al radicalismo, infatti sebbene i fratelli Kouachi vivessero in condizioni piuttosto miserevoli, non si può dire lo stesso di Emwazi.

Ciò che li accomuna, almeno in base a quanto trapelato dalle loro biografie, è un’incapacità di sentirsi pienamente inseriti nella società circostante, una mancanza di rapporti stretti e di valori saldi ai quali ancorarsi.

Un rapporto della Commissione Europea conferma quanto evidenziato affermando come la sensazione di essere esclusi da una società porti ad allontanarsene e a diventarne dichiaratamente nemici. 

 

Jihadisti in Rete: l’immagine utopica della “terra promessa” 

Internet rappresenta per le organizzazioni jihadiste una risorsa preziosissima per la diffusione capillare della propaganda e lo stesso può essere detto per quanto riguarda il reclutamento di nuovi militanti.

E’ innegabile che la rete sia in grado di accelerare e facilitare il processo di radicalizzazione, tuttavia vari studi dimostrano come in realtà il primo, decisivo passo che porta una persona a prendere posizioni estreme sia da ricondursi ad esperienze legate a luoghi reali come moschee, università e prigioni o ad un’esposizione prolungata ad un determinato tipo di media, in questo caso quelli che promuovono un’immagine vittimista del mondo musulmano.

Il materiale jihadista presente in rete infatti non è facile da trovare, perciò chi riesce a reperirlo non lo fa per coincidenza e facilmente sarà una persona già inserita nelle cerchie radicali.

La propaganda dello Stato Islamico promuove continuamente un’immagine utopica del Califfato, presentato come la terra promessa, un luogo dove la vita è ricca, sicura e giusta.

E’ questo lo scopo perseguito dalle immagini diffuse soprattutto su Twitter che mostrano dei sorridenti foreign fighters che accanto al kalashnikov o al coltello tengono orgogliosi un barattolo di Nutella, come se la loro vita non fosse poi così diversa da quella che hanno lasciato, fatta eccezione per la libertà di poter vivere in un Califfato realmente islamico.

L’emigrazione verso i territori dello Stato Islamico non è inoltre un fenomeno esclusivamente maschile, sono infatti più di 500 le donne partite per unirsi al jihad di Al-Baghdadi.

Le motivazioni che le spingono a partire sono le stesse degli uomini, ma in più sono mosse dal desiderio di sposare un mujahid che con la sua morte le ricoprirà di onori.

E’ interessante osservare le attività di queste combattenti poiché evidenziano una sorta di falla del sistema propagandistico califfale.

Esse hanno iniziato ad esprimere un certo malcontento per la realtà affrontata nei territori del Califfato, rivelatasi spesso ben diversa da come si aspettavano. Le lamentele sono di varia natura: dalla mancanza di servizi che in Occidente erano dati per scontati, come acqua calda ed elettricità continua, alla scarsa attenzione dedicata alle vedove dei martiri. Alcune donne addirittura mettono in guardia le aspiranti muhāğirāt, avvisandole di prepararsi a lunghi periodi di sopportazione e pazienza. 

 

Contro-narrative possibili

Questo spaccato sulla vita reale nei territori controllati dallo Stato Islamico potrebbe essere un’arma estremamente utile per demolire l’immagine utopica che esso promuove di sé.

Molte ricerche evidenziano infatti come sarebbe necessario che vari attori, ad esempio le vittime del terrorismo jihadista o ex membri dell’organizzazione, si facessero carico della diffusione di una contro-narrativa in grado di sfidare la propaganda califfale e di smontare le sue pretese.

Oltre a ciò però risulta evidente il bisogno di promuovere politiche di inclusione che tentino di eliminare quei sentimenti di esclusione deleteri per la convivenza pacifica. Un esempio da seguire potrebbe essere quello della Danimarca, dove il “modello Aarhus” mira a creare un rapporto di fiducia fra le autorità ed i circoli nei quali operano i soggetti radicalizzati.

Questa politica si basa sul concetto di reintegrazione e rinuncia alla persecuzione legale. Ai soggetti radicalizzati viene offerta una via d’uscita, la possibilità di ritrovare il loro posto nella società tramite l’abbandono della rete estremista e in questo percorso vengono affiancati da un mentore, incaricato di indirizzarli verso visioni più pacate e concilianti.

Nonostante le numerose critiche mosse al progetto per la sua eccessiva tolleranza, esso si sta dimostrando abbastanza efficace. Infatti se nel 2013 i danesi partiti dalla città di Aarhus per la Siria erano 31, nel 2014 si poteva contare solamente un foreign fighter.

Tale modello mette in atto una risposta inclusiva e così facendo rimedia ad una mancanza percepita da molti cittadini, occidentali e non, nei confronti del proprio paese.

E’ proprio l’eliminazione dei punti deboli, in questo caso le politiche discriminatorie, che potrebbe far perdere appeal allo Stato Islamico, riducendolo a mera utopia. 

 

*Annamaria Bertani è laureata in Lingue e Istituzioni economiche e giuridiche dell’Asia e dell’Africa Mediterranea all’Università Ca’ Foscari di Venezia e attualmente collabora come traduttrice freelance per “Arabpress”. Questo articolo è un estratto della sua tesi di laurea “Daʽish: analisi delle strategie comunicative e psicologiche di un fenomeno jihadista senza precedenti” ed è il primo di una serie che Osservatorio pubblicherà allo scopo di fornire una panoramica più ampia sulla macchina propagandistica dello Stato Islamico.

January 14, 2016di: Annamaria Bertani Iraq,Siria,Articoli Correlati: 

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