Quella attivata dal gruppo di Al-Baghdadi è una macchina propagandistica potente che non ha eguali nella storia. Un’analisi dei suoi contenuti e dei principali mezzi di diffusione.
Lo Stato Islamico non ha impiegato molto tempo per divenire l’argomento di discussione principale di tutti i media mondiali. A partire dalla sua proclamazione, nel giugno 2014, è entrato immediatamente e prepotentemente nelle vite di tutti noi, ormai abituati a sentirne parlare ogni giorno.
Se è vero che anche all’epoca di Al-Qaeda il jihadismo trovava spazio sull’agenda mondiale, è innegabile che con Daesh si sia assistito ad un salto di qualità e ciò è in buona parte dovuto alla potente macchina propagandistica attivata dal gruppo di Al-Baghdadi.
Si parla addirittura di “Twitter war”, una guerra il cui campo di battaglia principale è online e la cui arma letale è il mouse. E’ un conflitto figlio di questa epoca digitalizzata, esemplificazione perfetta delle sue tensioni e delle sue conquiste tecnologiche.
L’utilizzo di una propaganda mediatica moderna ed efficace da parte di un gruppo jihadista non è una novità portata dallo Stato Islamico. Al-Qaeda ha preceduto il Califfato utilizzando il canale Al-Jazeera per la diffusione dei suoi comunicati e pubblicando una propria rivista in lingua inglese (Inspire).
Nonostante i precedenti però, lo Stato Islamico è un fenomeno mediatico completamente nuovo e questo principalmente per tre ragioni: quantità, qualità e regolarità del materiale prodotto e diffuso.
La quantità è assicurata dalle varie province che sottopongono al ministero centrale materiale sempre nuovo. La regolarità dalle case di produzione, attive costantemente per inondare tutti i canali di trasmissione disponibili. Tuttavia, ciò che colpisce e sconcerta è soprattutto l’elevatissima qualità della produzione.
Soprattutto il centro di produzione Al-Hayat diffonde video davvero stupefacenti dal punto di vista tecnico e scenografico, senza dubbio prodotti da tecnici competenti ed aggiornati sulle ultime tecniche cinematografiche. Spesso si parla di queste come di “produzioni hollywoodiane”, che nulla hanno da invidiare ai colossal più famosi e ai film di guerra che tanto vengono apprezzati dagli spettatori occidentali e non.
Il “Califfato del terrore”, come spesso viene denominato dai media mondiali, conosce perfettamente ogni tipo di spettatore al quale rivolgersi, sa quali sono i suoi gusti, le sue abitudini e le sue debolezze, e va a toccare proprio quei nervi scoperti che lo rendono vulnerabile.
Il punto forte di questa propaganda jihadista è la capacità di parlare la stessa lingua del suo spettatore, di utilizzare codici da lui conosciuti. Un esempio pratico si può osservare in alcuni video di propaganda diffusi online, in cui campeggia il titolo – “Flames of War“, “A message to America“, “A message to the government of Japan” – scritto in uno stile incredibilmente simile a quello utilizzato nella sigla del telefilm di successo “Game of Thrones“, nel quale la violenza svolge un ruolo piuttosto importante.
La sensazione che l’osservatore deve provare deve essere esattamente quella di guardare una puntata di una serie televisiva, con l’unica differenza che la ferocia è reale, presente e ognuno può diventare protagonista del prossimo episodio, nella parte della vittima o in quella del carnefice, esaltato come un eroe.
Dei telefilm si ritrova anche la suspance di fine puntata, innescata da una semplice scritta “Coming soon” o, nel caso dei video delle decapitazioni, dalla stessa vittima che prima di morire annuncia chi sarà il prossimo a fare la sua stessa fine. Viene naturale pensare che chi si occupa della propaganda dello Stato Islamico sia probabilmente cresciuto guardando film d’azione americani, telefilm occidentali e giocando ai violenti videogiochi che della guerra fanno un tema onnipresente ed imprescindibile.
Osservando la propaganda dello Stato Islamico va sempre tenuta in mente una distinzione fondamentale: quella fra propaganda rivolta alle popolazioni esterne e quella rivolta invece alle popolazioni dei territori sotto il controllo del Califfato.
E’ proprio questa differenziazione a costituire il punto di forza dello Stato Islamico, ottimo conoscitore delle sue prede e quindi in grado di preparare messaggi diversi a seconda del destinatario.
Per ognuno Daesh ha uno scopo diverso, e per raggiungerlo mette in pratica tattiche specifiche miranti a toccare i suoi punti deboli. I video indirizzati alle popolazioni esterne sono quasi idilliaci, dipingono la vita sotto il Califfato come un sogno diventato realtà e mirano tutti allo stesso scopo: attirare nuovi jihadisti in Siria ed Iraq, convincere giovani influenzabili a lasciare i loro paesi per combattere una battaglia epica che assicurerà loro gloria ed onore.
Gli esempi di questa tipologia di materiale sono vari: dai video del reporter inglese John Cantlie, veri e propri documentari girati nelle principali città del Califfato, ai mujatweets, brevissimi clip accattivanti che rendono protagonisti gli abitanti tramite interviste e scorci di vita quotidiana.
L’altra tipologia di propaganda, quella che effettivamente può essere definita come propaganda del terrore, è quella che riceve più attenzione da parte dei media occidentali.
Il pubblico europeo e americano associa allo Stato Islamico i video delle tante vittime decapitate, del pilota giordano Muʽad Kasasbeah arso vivo e delle sospette spie rinchiuse in una gabbia e fatte annegare. Questo materiale è quello che trova più spazio perché è il più sconvolgente, sconcertante e risponde al desiderio morboso di violenza che dimostra la nostra società.
Se i video “pubblicitari” che dipingono il Califfato come la terra promessa parlano a quella parte di popolazione in cerca di un progetto e di un’appartenenza, i video che invece mettono in mostra tutta la violenza e la disumanità jihadista parlano al resto dell’umanità, quella che non vuole sottomettersi ad Al-Baghdadi e persiste nell’errore.
Sia che si analizzi il materiale destinato ad attirare nuovi adepti, sia che si osservino i cruenti video di punizioni ed esecuzioni, emergono sempre tematiche ricorrenti che molto fanno capire della mentalità, delle convinzioni e delle intenzioni del Califfato.
La brutalità è senza alcun dubbio l’aspetto che più risalta e spaventa in qualsiasi produzione targata Daesh, ed è una brutalità sempre maggiore, tant’è che lo spettatore si ritrova a pensare a quale potrà essere il prossimo passo.
La violenza che sembra non conosca limiti stimola la macabra curiosità di chi osserva e spinge sempre oltre il confine fra realtà e finzione, rendendo ogni volta più difficile credere che tanta crudeltà sia effettivamente possibile.
La brutalità è un filo conduttore che sostiene un’altra fondamentale tematica presente in ogni prodotto dello Stato Islamico: il trionfalismo.
La crudeltà, le morti violente, il terrore degli ostaggi sono tutti elementi che costruiscono giorno dopo giorno l’immagine del Califfato come autorità forte, in grado di assoggettare chiunque vi si opponga e capace di conquistare sempre più territorio nonostante la guerra dichiaratagli contro dalla vasta alleanza comprendente molti degli Stati più potenti del mondo.
I primi destinatari di questa violenza sono proprio i leader e le popolazioni di questi paesi, ma allo stesso tempo questi messaggi perseguono altri scopi. L’immagine dello Stato Islamico vincitore e paladino degli oppressi infatti gratifica i suoi sostenitori, rafforza in loro il sentimento di appartenenza ad una realtà in espansione, invincibile e destinata a governare il mondo.
Anche le popolazioni locali poi percepiscono la minaccia reale rappresentata da Daesh nel caso in cui non dovessero accettare la sua supremazia, e sono poste davanti alla decisione fra la conversione (o l’assoggettamento nel caso delle popolazioni sunnite) e la morte.
Coloro che si pentono e accettano il Califfato di Al-Baghdadi, diventano protagonisti di un’altra tematica, quella della misericordia.
Sono vari i video nei quali vengono mostrati combattenti di Al-Nusra o dell’Esercito Siriano Libero che, dopo essersi pentiti ed aver rinnegato il loro passato, vengono accolti festosamente nei ranghi del Califfo, presentato come una grande famiglia.
Accanto al trionfalismo trova posto però un altro schema narrativo diametralmente opposto, quello del vittimismo. Apparentemente in contraddizione con quanto affermato precedentemente, esso funge in realtà da giustificazione della brutalità esercitata, la rende una mera conseguenza del male ricevuto.
Nel caso qui analizzato le vittime sono i sunniti caduti sotto i bombardamenti della coalizione internazionale anti-Isis, martiri di quella che viene presentata come una guerra globale all’Islam.
Il video del pilota giordano arso vivo è un chiaro esempio di come le due tematiche siano direttamente correlate, ovvero di come una sia conseguenza dell’altra. All’inizio del filmato che mostra la terribile esecuzione, va in onda un serie di immagini di corpi straziati, vittime delle bombe della coalizione. Subito dopo, come logica conseguenza, l’ostaggio racconta gli avvenimenti che hanno portato alla sua cattura e mette in guardia il governo giordano dal portare avanti la battaglia contro Daesh. Dopo questa breve confessione, il pilota affronta la sua punizione e viene barbaramente arso vivo. I “danni collaterali” provocati dai bombardamenti nemici sono ciò di cui si nutre lo Stato Islamico, ciò che contribuisce ad allungare la lista dei suoi sostenitori.
Gli abitanti di gran parte dei territori controllati da Daesh vengono da decenni di distruzioni, povertà e guerra, l’ultima lanciata da Bush per interessi che molti ritengono ben diversi da quelli dichiarati. Risulta chiaro dunque come il Califfo abbia gioco facile nell’ergersi a giustiziere e nell’addossare agli Stati Uniti e a tutti i loro alleati la colpa per la rovina della regione.
Un altro degli elementi narrativi centrali che costituiscono il brand Daesh è quello della guerra.
Imponenti parate militari all’ingresso delle città, minuziose descrizioni delle azioni suicide, saccheggi, bombardamenti sono tutti elementi che rendono la guerra palpabile anche per lo spettatore. Spesso i reporter incaricati di girare i video sono in prima linea nella battaglia, così da dare all’osservatore l’idea di essere anch’egli sul campo a guadagnarsi la gloria. Viene dedicato sempre molto spazio all’esercito ed ai singoli combattenti, questo ancora una volta per dare l’idea che il Califfato sia un vero Stato con tutte le sue prerogative.
In realtà Daesh mostra solo ciò che gli conviene mostrare, ovvero sceglie attentamente quale fronte mettere in luce e quale oscurare, a seconda del successo riscontrato sul campo.
Il quinto tema, quello del senso di appartenenza, rappresenta forse quello più evidentemente propagandistico. E’ un richiamo rivolto alle possibili nuove reclute, un invito ad unirsi al gruppo di Al-Baghdādī, legato da un forte cameratismo.
I video nei quali vengono mostrati i combattenti nei loro momenti di riposo perseguono proprio questo scopo: offrono una vita in comune e l’appartenenza ad una grande famiglia in cambio dell’adesione ai principi del Califfato e dell’esercizio del jihad.
In merito a questo tema della fratellanza si può riscontrare una differenza rilevante fra Stato Islamico ed Al-Qaeda.
Se nei video prodotti dallo Stato Islamico spesso vengono mostrati gruppi di soldati che si abbracciano fra loro sorridenti dando l’idea di essere una squadra unita ed affiatata, i video diffusi da Al-Qaeda sono prevalentemente monologhi di Bin Laden o di Al-Zawahiri mostrati soli nei loro rifugi.
Ultimo filo conduttore della comunicazione di Daesh è poi l’utopismo, tematica talmente importante da poter affermare che ognuna di quelle precedenti serva a rafforzarla.
Il Califfato impiega tutti i suoi sforzi nella costruzione dell’immagine utopica di uno Stato legittimo in grado di rispondere agli attacchi esterni e soddisfare i bisogni interni. Un ruolo preponderante in questo meccanismo lo assume la visione apocalittica che impregna gran parte delle produzione dello Stato Islamico e che caratterizza il suo brand più di qualsiasi altro elemento.
Le pagine di Dabiq, rivista ufficiale del Califfato arrivata al momento al 13° numero, sono sempre piene di riferimenti alla fine del mondo e alla conseguente urgenza per l’intera umanità di convertirsi e di giurare fedeltà ad Al-Baghdadi.
E’ una pubblicazione che colpisce per l’impaginazione impeccabile, le immagini nitide e lo stile dinamico che nulla hanno da invidiare alle patinate riviste occidentali.
Già dal titolo si intuisce quale sia l’immaginario in esso delineato e la pretesa sostenuta. Dabiq è infatti il nome di una località situata nel nord della Siria con una grande valenza simbolica, dal momento che in un famoso ḥadīth viene descritta come il luogo dove si terrà la battaglia finale fra l’esercito musulmano e Roma, ovvero fra l’Islam e il nemico occidentale.
Inoltre Dabiq fu anche teatro della battaglia avvenuta nel 1516 fra Ottomani e Mamelucchi, che vide i primi uscire vincitori e permise dunque il consolidamento dell’ultimo Califfato riconosciuto. Non vi è alcun dubbio sulla genialità delle menti che si occupano della propaganda dello Stato Islamico, in grado di scegliere accuratamente un titolo e con esso uno scenario che tocchi con facilità i nervi scoperti di una parte della umma islamica.
Il punto di forza di questa scelta sta nella legittimazione religiosa che porta con sé e nel senso di ineluttabilità che richiama.
La vittoria definitiva dell’Islam è infatti presentata come un dato certo e inevitabile poiché riportata nei testi più sacri dell’Islam, e l’immagine mediatica che il Califfato riesce a dare di sé, ovvero l’immagine di una forza inarrestabile, non fa che rafforzare questa impressione.
Il carico emotivo che il nome della rivista porta con sé viene poi rafforzato ulteriormente da scelte grafiche ad hoc, che amplificano le sensazioni di minaccia e terrore. Un esempio si trova nella terza pagina del primo numero, dove le lettere della scritta “Dabiq” sono scritte con il fuoco, le cui fiamme che divampano incorniciano tre soldati occidentali che presumibilmente si stanno ritirando.
Oltre alle pubblicazioni però, il Califfato può contare su altri strumenti di propaganda fra cui video, social network, gadget e videogiochi.
I filmati costituiscono indubbiamente il prodotto propagandistico di maggiore effetto, sia per gli oppositori che per i sostenitori. Lo scopo della propaganda in generale, e dei video in particolare, è sconvolgere, terrorizzare ed allo stesso tempo ispirare gli spettatori, e per fare questo Daesh mostra immagini talmente violente da aver scatenato in Occidente un accesissimo dibattito sulla liceità della loro trasmissione.
Soprattutto in seguito all’esecuzione del pilota giordano, ci si è chiesti se sia accettabile diffondere le terribili immagini prodotte, sia per il carico di violenza che contengono, sia per il pericolo di favorire l’organizzazione amplificando il suo messaggio e rendendolo noto letteralmente in ogni parte del pianeta. Le correnti di pensiero sono essenzialmente due: vi è chi si batte affinché i video e la propaganda di Daesh in generale non trovino spazio all’interno dei media occidentali, poiché una piattaforma mediatica di così vasta portata è proprio ciò di cui l’organizzazione ha bisogno per poter diffondere un’immagine di sé costruita ad hoc per destabilizzare ed indebolire l’Occidente; e d’altra parte c’è anche chi sostiene che ignorare la realtà dello Stato Islamico vorrebbe dire nascondere la testa sotto la sabbia e che quindi sia necessario e doveroso mostrare ciò di cui esso è capace per poterlo conoscere, studiare e quindi sconfiggere.
Proprio la decisione di gran parte dei media mondiali di non veicolare alcun messaggio dello Stato Islamico rende la ricerca e l’analisi di questo fenomeno di non facile realizzazione, ma la fortuna dei jihadisti (e dei ricercatori) è l’effettiva impossibilità di fermare, nascondere, eliminare una notizia al giorno d’oggi.
La rete rappresenta un universo interconnesso che permette di fare viaggiare le informazioni ad una velocità elevatissima e in brevissimo tempo.
In questo quadro, Twitter è il social network che ha adottato una linea più dura nei confronti dei cyber-mujahidin, tuttavia gli attivisti non hanno alcuna difficoltà nel creare “account suicidi” il cui unico scopo è avviare la diffusione di link che rimandano a siti (come Archive.org e JustPaste.it), sui quali pubblicano video, immagini e qualsiasi prodotto della propaganda califfale.
Daesh non si limita ad utilizzare questi strumenti tradizionali. Si spinge oltre, arrivando a produrre veri e propri gadget, tanto assurdi da sembrare una parodia. Si può trovare davvero di tutto: t-shirt, orologi, portachiavi o addirittura fedi nuziali, tutto corredato dalla professione di fede islamica. Forse quello che più stride e inquieta è l’abbigliamento per bambini, dalla cuffietta per neonati allo zaino per andare a scuola.
Un’altra tecnica utilizzata dall’organizzazione è la gamification. Con questo termine si fa riferimento all’idea che attraverso un’attività piacevole come il gioco vengano veicolati comportamenti quotidiani ritenuti solitamente noiosi.
Esempio perfetto di questa tattica è “Grand Theft Auto: Salīl al-sawarīm”, videogioco distribuito da Daesh che non fa segreto di essere costruito sul modello del famoso gioco occidentale.
L’unica differenza è che in questo caso il giocatore non si cimenta nel furto di auto, bensì nell’assassinio a sangue freddo di soldati iracheni o crociati.
I primi destinatari di questi video sono i giovani ed influenzabili ragazzi che, guadagnando punti dall’uccisione dei nemici, potrebbero voler provare l’ebrezza di impugnare davvero un’arma letale, dimostrare insomma di saper mettere in pratica quella guerra che fino a quel momento avevano combattuto solamente nella loro immaginazione.
Quella di Daesh, dunque, è una propaganda multiforme, che può contare su molti canali diversi e che, per quanto venga ostacolata ed oscurata, trova sempre il modo di circolare.
Ancora una volta appare chiaro come la risposta a questi attacchi mediatici non si debba limitare alla censura, ma debba invece anch’essa trovare un’aggressività comunicativa volta a rivelare il vero volto del Califfato smontando le sue pretese utopiche.
*Annamaria Bertani è laureata in Lingue e Istituzioni economiche e giuridiche dell’Asia e dell’Africa Mediterranea all’Università Ca’ Foscari di Venezia e attualmente collabora come traduttrice freelance per “Arabpress”. Questo articolo è un estratto della sua tesi di laurea “Daʽish: analisi delle strategie comunicative e psicologiche di un fenomeno jihadista senza precedenti” ed è il secondo di una serie che Osservatorio sta pubblicando allo scopo di fornire una panoramica più ampia sulla macchina propagandistica dello Stato Islamico. La prima parte – “Daesh. Il fascino della propaganda ai tempi della modernità liquida”, è qui.
February 01, 2016di: Annamaria Bertani Iraq,Siria,Articoli Correlati:
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