Diario dall’altro Iraq/10. “Non siete soli”

“Senza riguardo per il loro portafogli o la reputazione, sono tanti i ‘Farhat’ che stanno assistendo migliaia di persone che non riescono ad essere raggiunte dagli operatori umanitari presenti in Kurdistan”. Da Dohuk, un nuovo racconto di Stefano Nanni. 

 

 

Siamo prima fuggiti dalle nostre case e poi rimasti bloccati sulle montagne. In qualche modo siamo riusciti ad arrivare in Siria […]. Farhat non lo sentivo da tanto tempo. Ma quella notte mi ha chiamato”.

Abbas ha 48 anni. Insieme alla sua famiglia è scappato da Sinjar lo scorso agosto. Il 4 agosto ha ricevuto quella chiamata, ma la ricorda come se il telefono squillasse ora. “Farhat si ricordava di noi, di mia moglie, dei miei fratelli e del mio primogenito. Ci ha detto che potevamo andare da lui, che ci avrebbe dato tutto ciò di cui avevamo bisogno”.

Tutto è iniziato da quella conversazione.

E’ una storia che si scopre a non più di 3 o 4 chilometri dall’ufficio di Un ponte per…,  a Dohuk, su una piccola collina che ospita ville di lusso e un campo informale per sfollati.

E non riguarda soltanto Abbas, ma anche altri 789 uomini, donne e bambini che come lui 4 mesi fa hanno abbandonato la loro normalità a Sinjar per iniziare una nuova vita in Kurdistan.

Dohuk è una città di circa 350mila abitanti incastonata tra due linee di montagne nel nord dell’Iraq accarezzate dal Tigri. Tutta l’acqua necessaria per le abitazioni, le attività commerciali ed i servizi viene da questo fiume, il cui flusso è regolato da un sistema di dighe grazie al quale tutto il governatorato (così come quello di Ninive, più a sud) non ha carenze idriche.

Una fortuna, la presenza di questo sistema, strappato dalle mani di Daesh, auto-dichiaratosi Stato Islamico, che l’estate scorsa rischiava di far saltare la diga di Mosul con inevitabili conseguenze drammatiche per milioni di persone, perché ora i bisogni da soddisfare sono altri.

Non c’è solo il turismo e il commercio, di cui Dohuk vive con ben 3 parchi giochi e numerosi centri commerciali, regolarmente frequentati con picchi nei weekend e durante le festività (il parcheggio ricolmo di macchine e le file per entrare al Mazi Plus Mall erano l’argomento più chiacchierato del 31 dicembre) da soddisfare.

Da giugno 2014, da quando anche Daesh è un termine e una realtà presente nel linguaggio comune, il relativo benessere di cui gode la regione del Kurdistan, e nello specifico il governatorato di Dohuk, serve persone e bisogni inizialmente non previsti.

Se i rifugiati siriani (a Dohuk circa 180mila) non hanno influito più di tanto negli ultimi 3 anni, i circa 700mila iracheni fuggiti dalle aree di Mosul, Sinjar e anche dalla più lontana provincia di al-Anbar che oggi vivono tra campi per sfollati ed edifici incompleti o abbandonati un impatto lo stanno avendo. Eccome.

Basti pensare che 700mila persone equivale a due Dohuk città in più. Ma senza bisogno di parchi giochi o centri commerciali. 

Abbas e la sua famiglia, il 4 agosto, in Siria, cercavano soltanto di una voce amica che dicesse loro: “Non siete soli”.

Quella voce era di Farhat, che a Sinjar è nato e ha vissuto la sua infanzia fino al 1974, quando un giovane e avido Saddam Hussein iniziava a conquistare sempre più potere all’interno del Ba’ath, un partito che evoca per lo più incubi quando non brutti ricordi nei pensieri degli iracheni.

Nel 1974 Farhat si trovava nella stessa situazione di Abbas. Dall’altra parte, quella di chi fugge dalla guerra, costretto a lasciare all’improvviso la casa, la famiglia, gli oggetti e l’ambiente che hanno caratterizzato la tua vita fino a quel momento.

Tutti i nostri beni e proprietà sono stati confiscati, l’ordine per noi curdi e tutti i non-arabi era quello di andarsene il prima possibile. Siamo arrivati a Dohuk e abbiamo ricostruito tutto dal nulla. Io, 40 anni fa, ho vissuto la stessa esperienza di queste persone”.

Farhat oggi è un affermato e ricchissimo uomo d’affari. Il superlativo qui ha la sola funzione descrittiva. La sua compagnia, la Sinjari Group, raccoglie 5 gruppi di aziende di proprietà di famiglie, come la sua, legate principalmente al loro passato e a una città: Sinjar.

Dighe, complessi residenziali, centri commerciali, stadi, ma anche arredamenti e alimentari: il giro d’affari rischia di essere talmente grande che abbiamo paura di chiederglielo.

Ci basta vedere e toccare con mano quanto la sua ricchezza è capace di fare.

Dal 5 agosto 2014 Abbas e la sua famiglia sono stati i primi ad essere accolti a Zozan City, un complesso di ville di lusso che oggi ospita, oltre a decine di famiglie ricchissime che godono di piscine, clinica medica privata e servizio di sicurezza 24 ore su 24, anche 790 sfollati in un campo informale.

Farhat e Ammar, suo assitente, ci mostrano tutto senza timore di apparire arroganti né ostentando la loro generosità. Dal plastico curato nei minimi dettagli, alla vista del loro ufficio su Dohuk, dalla quale alle 4 del pomeriggio si ammira un tramonto incredibile che abbraccia tutta la città, fino ovviamente al campo vero e proprio.

La ragione della nostra visita: è per questo che siamo qui, su sua richiesta, giunta dopo che il team mobile di orientamento di Un ponte per… è venuto in contatto con questa realtà. 

Ad ottobre erano circa 1.600 le persone che vivevano qui. Oggi, poco alla volta, qualcuno è riuscito a trovare lavoro e sta riuscendo addirittura ad affittare una casa. Ma se hanno ancora bisogno, sanno che alla mia porta possono sempre bussare”, racconta Farhat, mentre facciamo un giro nel campo insieme ai residenti.

Uno di loro interviene, è il più anziano. Si avvicina lentamente, dato che il fango impedisce a tutti un movimento regolare, figurarsi a lui, che comunque rifiuta il bastone che gli porge un bambino. 

“Sarchawa”, “con tutti i miei occhi”, ci saluta, con un gran sorriso. E spiega come “qui, Mr. Farhat ci offre tutto: dalla colazione alla cena, dalla benzina per la macchina per gli spostamenti alle tende. A volte ci ha fatto anche divertire invitando dei cantanti, e organizza feste per i compleanni dei bambini”.

Annuiscono e sorridono tutti. Anche le donne nel “forno”, ovvero la tenda dove 7 donne organizzate in 3 turni preparano il pane per tutto il campo. Anche per la spesa e il cibo l’organizzazione non manca: a turno gli uomini raccolgono le liste e con il pick-up del campo, messo a disposizione da Farhat, scendono in città a fare acquisti. 

Questo campo è fuori dalla competenza di ONU e Governo curdo. La scorsa estate, quando Farhat ha deciso di agire, l’accordo da lui proposto è stato il seguente: “Voi pensate a chi vive per strada, sotto i ponti e negli edifici incompleti. A loro penso io“.

Allora l’emergenza era tale soprattutto perché non c’era una risposta. ONU, Ong e Governo non si aspettavano una seconda ondata dopo giugno, dopo la caduta di Mosul. E per quanta preparazione ci potesse essere, il flusso continuo di famiglie arrivate a piedi, sul dorso di asini o su macchine e camion strapieni era obiettivamente difficile da controllare. 

Farhat ricorda che non ha fatto “nulla di straordinario”. Ed ha ragione.

La scorsa estate la prima risposta umanitaria immediata è stata offerta dai residenti delle città e dei villaggi. Organizzati in associazioni di solidarietà o normali cittadini, sono stati loro ad offrire un tetto, un riparo, acqua e cibo.

Pagando di tasca propria, alzandosi ancor più presto al mattino per far trovare la colazione pronta a intere famiglie che non vedevano cibo da giorni, a fornire un paio di scarpe a chi (tanti) camminava da giorni scalzo sulle montagne, sotto 40 gradi.

Senza riguardo per il loro portafogli o la reputazione, sono tanti “i Farhat” che stanno assistendo migliaia di persone che non riescono ad essere raggiunte dagli operatori umanitari presenti in Kurdistan.

Su questo punto il suo umore inizia a cambiare. 

Non capisco come sia possibile avere tutti questi soldi e sprecarli così, spendendoli soltanto in cibo, acqua e kerosene che servono solo a garantire la sopravvivenza di queste persone”. Secondo Farhat occorre subito iniziare ad investire sul ritorno, portando le Ong nei villaggi e nelle città liberate, dove “c’è da ricostruire tutto, dalla griglia elettrica alle case, e prima ancora occorre fare la bonifica da mine e bombe”. 

Sembra intravedersi un po’ di frustrazione in queste parole ma alla domanda “fino a quando il suo sostegno sarà sostenibile”, risponde senza esitare.

Fino a quando sarà necessario. Non lascerò queste persone da sole una volta che ho deciso di aiutarle. Preferirei che tornassero nelle loro case, a Sinjar, la loro e nostra terra, ma so che ciò non avverrà domani”.

Per questo anche Farhat chiede di non essere lasciato solo. “A questo campo basterebbe qualche stufa in più, dei materassi e soprattutto la ghiaia per terra. Insomma, piccole cose rispetto alle condizioni generali. Io dopo 4 mesi non riesco più a seguire tutto da solo”.

Come Farhat anche tanti altri proprietari di case ed edifici che ospitano ancora oggi, dopo 4 mesi, famiglie intere di sfollati non vogliono sentirsi soli. E hanno bisogno di sentire la presenza di chi, autorità o ad essa legata, faccia capire loro che non perderanno alcun diritto e che presto riprenderanno a ricostruire le loro proprietà.

Anche questo fa parte della risposta umanitaria: sostenere chi sostiene a sua volta qualcun’altro.

La solidarietà inizia ancora prima dell’intervento di una Ong o delle Nazioni Unite. Nel caso di Abbas, e di tutte le persone che vivono a Zozan City, può cominciare da una telefonata, e da solidi rapporti umani che fanno di gesti straordinari un atto di pura normalità. 

 

*Stefano Nanni nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… Le altre puntate del suo diario si trovano qui. Con queste corrispondenze stiamo tentando di dare continuità al lavoro del nostro libro, con cui abbiamo cercato di raccontare “l’altro Iraq”, quello che scompare dalle cronache, e che resiste.

 

 

January 11, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan Iracheno*Iraq,

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