di Maria Letizia Perugini
Incontriamo Feriel Lalami in un caffè di Parigi, la città in cui vive dal 1984. Politologa e sociologa algerina, insegna all’Università di Poitier e ha appena pubblicato un libro dal titolo emblematico, “Le algerine contro il codice della famiglia”.
È una studiosa quindi, e un’insegnate, ma è stata anche una sindacalista nel paese in cui è nata, e un’attivista per i diritti delle donne.
L’opera che ha appena pubblicato parla proprio di questo particolare aspetto della storia del suo paese. Di come le donne hanno risvegliato la propria coscienza e si sono organizzate per migliorare la loro condizione, per conquistare diritti e condurre la lotta principale che le ha viste e le vede tuttora opporsi a un complesso di leggi basate su normative arcaiche: il Codice della famiglia.
“È stato all’università che ho iniziato a interessarmi al movimento – inizia a raccontare – era il 1973. In quel periodo hanno cominciato a circolare voci secondo cui il governo stava lavorando a un progetto di legge sul Codice della famiglia che presto sarebbe stato promulgato. Non so in che modo una versione di questo testo era sfuggita ai controlli ed era stata diffusa. All’epoca la vita pubblica era chiusa, quasi inaccessibile. Ma malgrado tutto non so come la bozza era trapelata… quando abbiamo letto il testo, io con le mie colleghe eravamo sconvolte”.
“Non potevamo restare indifferenti – prosegue – così abbiamo formato dei piccoli gruppi, in facoltà, all’Ecole Normale Superieure, e abbiamo iniziato a pubblicare dei testi per denunciare questo progetto di legge, che venne subito ritirato”.
“Con quell’esperienza, però, è come se i miei occhi si fossero aperti. L’Algeria per noi all’epoca era lo Stato rivoluzionario, lo Stato del socialismo trionfante..”.
Racconta Lalami: “Questa presa di coscienza ci ha scioccato e a partire da quel momento ci siamo dette che bisognava impegnarsi di più di ciò che riguardava le donne. Fino a quel momento ci eravamo impegnate soprattutto nel movimento degli studenti, per avere più libertà, più margini di manovra, ma mai veramente per la lotta di genere”.
“Da qui è iniziato tutto. Poi io personalmente sono stata sindacalista, quando ho iniziato a lavorare nell’insegnamento. Parliamo dell’inizio degli anni ’80. Nel ’79, intanto, era stato proposto un altro progetto di Codice della famiglia”:
“La situazione politica e sociale però era in evoluzione (nel 1978 muore il “timoniere” Boumedienne, ndr) e noi attiviste alla facoltà avevamo avvicinato il mondo del lavoro. Io in particolare come sindacalista avevo la possibilità di partecipare a diverse riunioni dove potevo incontrare altre donne, sia del mio settore che di altri”.
“Avevamo formato un buon gruppo che rifletteva sui problemi della nostra condizione, che si impegnava concretamente, ed è così che abbiamo organizzato le prime manifestazioni nel 1981”.
“Poi anche questo progetto di legge è stato ritirato. Intanto il movimento andava avanti, sono state fondate le prime associazioni clandestine, che poi sono diventate legali nel ’89 con la nuova costituzione”.
Per capire come è stato accolto questo movimento alla sua nascita vuole spiegarci un concetto a lei caro, vale a dire il fraintendimento storico rispetto all’emancipazione della donne algerine ad opera dei coloni…
La colonizzazione dell’Algeria è stata molto lunga e violenta, c’è stata un’espropriazione non solo economica ma anche politica e culturale.
In questa situazione la famiglia diventava un rifugio e le donne venivano viste come le depositarie di quella cultura, di quella lingua, di quella religione che il popolo cercava di conservare e difendere nonostante i divieti.
Una delle paure maggiori degli algerini era proprio quella di essere privati della loro identità e che la corruzione e l’assimilazione delle donne potesse essere il mezzo usato dai coloni.
Si tratta della famosa formula “Ayons les femmes, le reste suivra”.
Un mito in realtà: è un errore storico quello di credere che la colonizzazione abbia portato all’assimiliazione e all’occidentalizzazione delle donne algerine.
Se analizziamo effettivamente quel periodo, infatti, ci rendiamo conto che l’amministrazione coloniale non ha cercato realmente di assimilarci. Per ottenere questo risultato il primo mezzo sarebbe stata la scuola. Ma le donne algerine non hanno avuto accesso all’istruzione francese: basti pensare che al momento dell’indipendenza il 90% delle donne era analfabeta.
Per questo dico che è un mito. Ma, come tutti i miti, ha prodotto i suoi effetti.
Nello specifico ha portato alla messa in accusa del movimento femminista. Dal momento in cui le donne hanno iniziato a chiedere diritti da una parte i dirigenti “socialisti”, dall’altra i conservatori, ci hanno additato come portavoce del potere coloniale, come un cavallo di troia lasciato dai francesi. Niente di più falso.
Per quanto quindi questa assimilazione culturale e politica, a mio avviso, non sia mai avvenuta, le donne sono state considerate dal potere nel migliore dei casi come imitatrici delle femministe occidentali, nel peggiore come emissarie del potere coloniale impegnate a portare avanti i progetti della vecchia amministrazione.
Nel 1984 dopo i diversi progetti ritirati, il Codice della Famiglia viene infine imposto. Come è stato possibile?
Per il progetto dell’84 la storia è andata in modo diverso rispetto alle poposte precedenti. Quello era un periodo in cui tutti, in Algeria, avevano paura.
Innanzi tutto bisogna ricordare che nel 1983 c’era stata una forte ondata di repressione politica, una serie di arresti in seguito agli episodi di protesta verificatisi all’inizio degli anni ’80 dopo la morte di Boumedienne.
Il popolo aveva iniziato ad organizzarsi perché sentiva il bisogno di qualcos’altro, venivano organizzati scioperi, e stavano nascendo nuovi gruppi politici, naturalmente clandestini (siamo sempre all’epoca del partito unico).
Quindi possiamo dire che nel 1983 il potere centrale decide che è arrivato il momento di fare un po’ di pulizia…vengono arrestati un po’ tutti, e in particolare i capi dei movimenti, senza distinzione. Vengono colpiti gli islamisti come i berberi, i comunisti come i trozkisti. Vengono fatti processi politici e le persone restano in prigione a lungo.
Eliminando le leadership la repressione paralizza tutta l’azione politica.
I dirigenti approfittano di questo contesto per presentare il testo del Codice della famiglia all’Assemblea: la legge viene approvata nel giro di tre o quattro giorni. È stato tutto molto veloce. Non c’è stata la possibilità di opporre alcuna reazione.
Dopo il periodo coloniale l’Algeria ha vissuto un altro momento storico drammatico, quello del terrorismo. Qual è la storia del movimento femminista nel corso degli anni ’90?
È vero, è stato un momento estermamente difficile. Bisogna ricordare che l’Algeria allora ha vissuto una fase di violenza terribile, una violenza che accecava. Il numero delle uccisioni, la loro intensità, i metodi usati, la maniera improvvisa in cui avvenivano…era una violenza che in qualche modo davvero paralizzava il pensiero.
Ed è a partire da questa situazione che il movimento delle donne inizia a separarsi, a dividersi.
Alcune associazioni riescono a dire: “Facciamo attenzione, riflettiamo, non possiamo allinearci a cuor leggero alla risposta securitaria del regime!” (il riferimento è al colpo di Stato dei militari dopo la vittoria del Fronte islamico di salvezza – formazione islamista – alle elezioni del 1991-’92, e le violenze scatenatesi di conseguenza, ndr). Ci opponevamo ed eravamo indipendenti rispetto al potere, il nostro è nato come un movimento indipendente.
Un’altra parte del movimento invece ha reagito diversamente, denunciando i crimini islamisti e rinunciando ad ogni possibile mediazione con il FIS, ma mettendosi in questo modo quasi completamente al servizio della strategia di regime. Hanno sostenuto la repressione, cosa che non ha fatto altro che creare nuova violenza, facendo precipitare il paese in un ciclo infernale.
Questo è quello che grosso modo è avvento dal ‘92 al ‘96. A partire dal 1996 assistiamo invece ad un riavvicinamento delle parti.
Il ’96 è l’anno in cui l’Algeria ratifica la Convenzione contro la violenza nei confronti delle donne (CEDAW).
Alla convenzione però vengono apposte moltissime riserve, legate proprio al Codice della famiglia. Questo ha portato molte delle associazioni femministe che si erano schierate con il regime, e che consideravano i dirigenti come alleati contro l’oscurantismo islamista, a rendersi conto che il potere continuava a mantenere le sue posizioni conservatrici rispetto alla condizione delle donne.
In quel momento quindi c’è stata una nuova presa di coscienza.
Inoltre, con la legge sulla concordia civile (il primo provvedimento “di riconciliazione” voluto dal presidente Bouteflika è del 1999, seguito poi da una nuova legge nel 2006, ndr), le associazioni che si erano schierate con la repressione hanno visto lo Stato dialogare con gli islamisti, aprire al “perdono”, e i sono sentite tradite.
Come giudica la riforma del Codice della famiglia del 2005?
La riforma non è stata una vittoria piena perchè le donne chiedevano molto di più, ma in ogni caso abbiamo ottenuto qualcosa.
Per esempio nel testo del 1984 si diceva che nel rapporto matrimoniale la sposa doveva obbedienza al marito. Questo è stato soppresso nella riforma del 2005. In materia di poligamia: la poligamia è mantenuta ma ora è il giudice che da l’autrorizzazione. Anche se poi i giudici non sono affatto restii a fornire queste autorizzazioni.
Inoltre nel codice dell’84 la madre non ha mai l’autorità parentale sui figli a meno che non sia vedova. Con la riforma del 2005 questa invece viene estesa anche alle donne che hanno divorziato.
O ancora, per quanto riguarda le donne divorziate, prima erano obbligate a lasciare il tetto coniugale insieme ai figli minorenni. Ora possono restare fino alla maggiore età dei figli. Con il codice dell’84 erano costrette a tornare dai propri genitori, ma in una situazione economica come quella attuale in Algeria questo sarebbe molto difficile: spesso i genitori non hanno i mezzi per accogliere di nuovo le figlie.
C’è stata anche l’introduzione del contratto di matrimonio, che per la prima volta apre la possibilità alla comunione dei beni: nel codice dell’84 (e come in molti paesi musulmani) vigeva il principio della separazione dei beni e, ad esempio, nel caso del divorzio tutto quello che non era a nome della donna diventava automaticamente dell’uomo.
Questo è lo stato della riforma. Sicuramente siamo lontani da quello che chiede il movimento delle donne.
Le donne chiedono l’eliminazione del wali, della poligamia che è sempre una sorta di minaccia che grava sul matrimonio. Chiedono l’uguaglianza davanti al divorzio: così come gli uomini hanno la possibilità di decidere di divorziare senza condizioni, anche le donne dovrebbero avere questo diritto. Chiedono l’autorità parentale congiunta: oggi una donna sposata (quindi non vedova nè separata) non ha alcuna autorità parentale sui suoi figli.
Come ho detto, siamo ancora lontani dal poter parlare di vittoria.
Lei è anche attivista di un’associazione che si occupa di difendere i diritti delle donne algerine emigrate rispetto alle imposizioni del Codice della famiglia. Come può il Codice agire anche sulle donne che non si trovano più in Algeria?
Le parlo dell’ultimo caso che abbiamo trattato. Una coppia che si è sposata in Algeria trent’anni fa, ha iniziato la procedura di divorzio qui in Francia, in quanto entrambi i coniugi sono residenti qui. Non più tardi di un mese fa la madre della donna l’ha chiamata dall’Algeria dicendo che aveva appena ricevuto l’avviso per la prima seduta davanti al Tribunale per il divorzio.
Il marito aveva presentato la domanda anche in Algeria, con tutte le conseguenze che lì un divorzio ha sulla donna, rispetto alla custodia dei figli, della divisione dei beni.
Così anche quando le donne vivono in altri paesi sono minacciate dall’applicazione di questo Codice.
In questo caso il Tribunale algerino non potrà prevalere, perché è entrato nella faccenda più tardi della procedura francese, ma spesso le situazioni non si risolvono così.
Un altro esempio tipico è quello delle donne che vanno in vacanza in Algeria con i figli minorenni. Spesso vengono fermate dalla polizia che chiede se sono in possesso dell’autorità parentale. Capita allora che restino bloccate nel paese perchè la polizia pretende che le madri lascino lì i figli.
Esiste poi un fenomeno molto grave che riguarda i luoghi più remoti del paese: qui succede anche che i poliziotti non siano a conoscenza, o non vogliano applicare, le ultime modifiche del Codice della famiglia, regolandosi così sulle disposizioni del 1984.
Come giudica oggi il movimento? Quale è il suo bilancio? Quali sono state le vittorie e quali gli obbiettivi ancora da raggiungere?
Oggi il movimento continua a combattere per veder riconosciuti maggiori diritti alle donne.
Fa pressione soprattutto in materia di violenze, chiedendo una sorta di legge quadro come esiste in Spagna o in Francia. Nel 2004 per esempio è stata ottenuta la penalizzzione del reato di molestie sessuali: per la prima volta in Algeria le molestie sessuali vengono punite dal codice penale.
Anche questo è un passo in avanti, una conquista, e si vedono gli effetti: è di quest’anno la sentenza che ha condannato un direttore di una rete televisiva per molestie sessuali contro tre impiegate. E lui era un intoccabile eh! Ma le donne hanno portato avanti la loro denuncia fino in fondo e non è stato facile. Ad esempio hanno dovuto portare alcuni testimoni e per loro non c’era alcuna protezione. Quindi accanto alla legge che condanna le molest e è necessario creare anche delle forme di protezione per i testimoni, che ancora non esiste.
Inoltre oggi è l’aspetto economico quello più preoccupante. Perchè le associazioni riescano a intervenire su questo c’è bisogno di fondi, che purtroppo sono difficili da trovare.
Il governo offre dei finanziamenti pubblici, che però non arrivano a tutte le associazioni. Diciamo che ci sono delle associazioni che possiamo definire “ufficiali”, destinatarie dei fondi governativi, alcune delle quali fanno anche un buon lavoro. Ma non è abbastanza, e per le associazioni indipendenti la situazione è molto più difficile.
Dal punto di vista politico, c’è stata l’introduzione delle quote rosa e ora molte donne siedono in Parlamento, ma rispetto a questo si riscontra un duplice problema: innanzi tutto nessuna delle donne elette possiede un background militante (ad eccezione del ministro Khalida Toumi, ma temo che se lo sia dimenticato); e soprattutto il problema politico che coinvolge l’istituzione nel suo insieme.
Non ce ne facciamo nulla della presenza femminile in un organo che non ha nessuna indipendenza, che non decide nulla e che non fa che avallare le decisioni dell’esecutivo.
Ora la sfida che attende il movimento è quella di coinvolgere le masse popolari, di avvicinarsi alle donne anche nelle zone più remote del paese e portare aiuti e sviluppo, economico prima di tutto. È lì che gli islamisti hanno trovato terreno fertile, in ogni luogo dove lo Stato non è arrivato. È necessario portare un’alternativa.
Feriel Lalami, al termine dell’intervista, mostra orgogliosa la copertina del suo libro. Ci tiene a far notare il dipinto che vi è riprodotto.
Si tratta di un’opera astratta del pittore algerino Choukri Mesli. Mesli donò il quadro al coordinamento di donne nato negli anni ’90 che si riuniva ufficialmente per la prima volta.
“È stato un modo per dimostrare la sua vicinanza, una sorta di incoraggiamento e legittimazione da parte di chi ci sosteneva nel paese”, spiega.
Nell’immagine, tra le forme geometriche che richiamano le decorazioni berbere, emergono due figure umane: possiamo ben vedere la differenza, riconoscere una donna e un uomo.
Di uguale grandezza.
10 dicembre 2012
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