Nuovo presidente, vecchi problemi. Manca il combustibile, i prezzi dei beni di prima necessità salgono alle stelle, gli scioperi si susseguono, il malcontento è diffuso, le carceri sempre più piene. Qual è il prezzo da pagare per il ritorno alla “normalità”?
Ritoccato verso l’alto anche il prezzo di alcool e sigarette, per non parlare del costo della benzina (circa +78%) causa taglio sussidi. Dipendenti dei trasporti che scioperano insieme a molte altre categorie. Il prezzo del gas dovrebbe salire del 175%.
Carcerati che fanno lo sciopero – della fame questa volta – per ottenere (in rari casi con successo) la propria libertà. “Più persone, meno acqua uguale incremento dei prezzi dei generi alimentari”, il laconico titolo di un articolo di Aswat Misriyya.
Le domande della popolazione sono ancora moltissime e presenti, ma come risolverle? La risposta è presto data, ma non risiede in un piano di sviluppo economico onnicomprensivo su base quinquennale, su riforme agrarie, su sconsiderati piani di liberalizzazione. La risposta è, ancora, l’esercito.
Per combattere la crisi, l’esercito mette in campo mezzi di trasporto per compensare eventuali innalzamenti del costo dei biglietti; venderà, parola del portavoce militare Mohamed Samir, grandi quantità di cibo a basso costo nei suoi locali.
La risposta è ancora a forma di mostrina, somministrata come assistenzialismo duro e puro.
Per comprendere il potere di cui gode al-Sisi oggi basti pensare che quando Morsi tentò, lo ricorda Mada Misr, di innalzare il costo di tabacco ed alcool e fu messo sotto tale pressione dall’opinione pubblica che fu costretto a desistere. Oggi non solo quella manovra viene ripresa, ma al suo fianco vengono aggiunte ulteriori misure vessatorie nei confronti della popolazione.
Il sostegno che riceve è mediatico, politico, violento (si veda alla voce baltaghiyya).
Una popolazione che subisce il terrore di attentati che recentemente scuotono con inquietante cadenza il paese, la cui componente femminile continua a subire pressanti e violente molestie, i cui contestatori vengono rinchiusi nelle carceri senza troppe cortesie.
L’elenco non fa che allungarsi e non è certamente solo il più famoso Ala’a Abd el-Fattah (15 anni di galera fra le altre cose) a pagare le conseguenze delle proprie opinioni e delle proprie azioni. Sono gli studenti, gli uomini e le donne che mostrano il simbolo di Raba’a, gli attivisti, gente comune e persino gli avvocati che difendono gli imputati. Misure “scioccanti” secondo l’Egyptian Initiative for Personal Rights.
L’elenco potrebbe continuare e se ci provassimo potremmo rilevare come, una ad una, tutte le richieste della piazza siano state smantellate con criterio scientifico: la fine dei processi militari a carico dei civili, un sistema di distribuzione delle ricchezze più equo (pare che gli stipendi dirigenziali non saranno intaccati dalla nuova crisi egiziana), dignità per le proprie opinioni, condizioni di vita migliori.
Il 3 luglio Warda Muhammad dalle colonne di Orient XXI ha parlato di guerra aperta contro il giornalismo, tanto per dare l’idea del clima che si respira nel paese. Stesso discorso vale per le oltre 180 condanne a morte confermate dal tribunale di Minya lo scorso giugno.
You can blame the revolutionaries all you want for whatever mess you made up, but you can’t blame them for the decline of living standards you will experience, because this time it’s clear.. it was all you…
Wael Eskander dalla sua pagina Facebook è chiaro, limpido, lucido nell’analisi come pochi in un momento in cui moltissimi si nascondono e molto altri ancora pretendono qualcosa in cambio per esprimere le proprie idee ed opinioni.
*La foto pubblicata è di Sebastian Horndasch via Flickr in CC.
July 08, 2014di: Marco Di DonatoEgitto,
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