Il 21 febbraio scorso i cittadini di Port Said sono giunti al quinto giorno di proteste consecutive: scioperi, manifestazioni, disobbedienza civile. La città si muove come un corpo unico chiedendo giustizia per i propri cittadini morti. Ma perché?
Eslam Omar, giornalista egiziano, ci accompagna nei pressi della prigione di Port Said per capire cosa è veramente accaduto fuori le mura del carcere lo scorso 26 gennaio 2013, data delle pronuncia del verdetto di colpevolezza per alcuni abitanti della città, coinvolti negli scontri con i tifosi dell’Ahly che si svolsero nel febbraio del 2012.
di Eslam Omar – traduzione a cura di Marco Di Donato
La prigione di Port Said era l’immagine del caos. Sangue sul pavimento, proiettili vaganti, il fumo delle bottiglie molotov che riempiva l’aria. Due poliziotti sono stati i primi a morire.
Il giudice aveva appena emesso la sentenza di condanna a morte per 21 cittadini del luogo giudicati colpevoli degli scontri che lo scorso anno (nel febbraio 2012, ndt) coinvolsero i tifosi di calcio (della Ahly e del Masry, ndt) fuori dallo stadio di Port Said.
Pochi minuti dopo la lettura del verdetto si è scatenato l’inferno.
“Subito dopo la sentenza il carcere è stato attaccato da una raffica di colpi di arma provenienti da tutte le direzioni. Due poliziotti sono stati uccisi, abbiamo dovuto armare le Forze di sicurezza centrali (CSF) con le armi della prigione per permetterne la difesa”, ha raccontato una fonte anonima del ministero dell’Interno.
La sentenza è giunta alla fine di un anno difficile per la gente di Port Said.
Gli scontri del primo 1° febbraio 2012 causarono la morte di 72 tifosi dell’Ahly. Dopo la partita, 73 abitanti di Port Said (tra cui nove funzionari della sicurezza e tre funzionari del club calcistico Masry, ndt) furono messi sotto processo: le condanne a morte, pronunciate il 26 gennaio di quest’anno, hanno lasciato la città totalmente sbigottita (…).
Il giorno del verdetto, atteso dagli ultras dell’Ahly come il momento che avrebbe dovuto “portare sollievo alle madri dei martiri”, violenti scontri sono scoppiati in tutta la città, causando oltre 40 vittime e circa 1.400 feriti. Di questi, almeno 120 hanno subito lesioni, secondo i rapporti del personale medico ospedaliero.
“Loro sono morti per asfissia, noi invece veniamo uccisi a tradimento”, si legge sui molti muri per le strade di Port Said.
Il carcere di Port Said è stato sconvolto dall’onda d’urto di questa rabbia, e resta da chiarire chi ci sia dietro all’attacco. Passeggiando intorno alla prigione, appare evidente come nei suoi dintorni si sia consumato un feroce massacro. Polizia in assetto antisommossa e mezzi militari circondano la zona. Su tutte le pareti e i muri degli edifici circostanti sono visibili fori di proiettili. I marciapiedi sono ricoperti di macchie di sangue.
“Stavamo ascoltando la sentenza alla radio, vicino alla prigione, quando improvvisamente siamo stati sorpresi da una pioggia di fuoco”, ha affermato Ibrahim El-Masry, un ex calciatore del Masry che ha sostenuto attivamente gli uomini sotto processo, e adesso vuole fare luce sui recenti scontri in città.
Insieme a lui, in attesa, anche le famiglie dei detenuti: si attendeva una buona notizia che desse speranza, ma l’annuncio delle condanne a morte di massa è stato uno shock (…).
“In città c’è la sensazione che la sentenza sia stata nel suo complesso una sorta di punizione collettiva. Questo verdetto è ovviamente politicizzato”, commenta El-Badry Farghaly, ex deputato locale e noto leader del partito politico al-Tagammu, che aggiunge: “Sono contrario alle teorie cospirazioniste, ma ciò che sta accadendo a Port Said è del tutto premeditato”.
Il giorno dopo la lettura delle sentenze, il 27 gennaio, il presidente Morsi ha dichiarato 30 giorni di stato di emergenza a Port Said, Suez e Ismailia alla tv nazionale.
Misure eccezionali che, tuttavia, non hanno impedito che si verificassero nuovi scontri, ne’ hanno contribuito a stemperare la tensione. Piuttosto, hanno creato una sensazione di isolamento tra gli abitanti di queste città.
Episodi di violenza si sono sporadicamente ripetuti anche nel corso dei giorni successivi al 26 gennaio, e non solo vicino al carcere, ma anche nelle aree di El-Arab e El-Sharq, dove sono stati attaccati il club sportivo della polizia e alcuni commissariati (…).
Un poliziotto di El-Arab, che si trovava nella principale stazione di polizia della città, ha raccontato che “uomini armati hanno cercato di effettuare una incursione per farci lasciare le nostre posizioni. Se ce ne fossimo andati non sarebbe stato possibile garantire la sicurezza, e si sarebbe creato il caos” (…).
Ma i disordini sembrano essere tutt’altro che terminati.
È infatti in corso una campagna di disobbedienza civile indetta dai cittadini, che chiedono che la loro voce sia finalmente ascoltata al Cairo. “L’ingiustizia provoca situazioni esplosive”, ha ricordato ‘Spicy’ Ali, leader del gruppo ultras del Masry ‘Green Eagles’, a capo delle proteste.
“Lanciamo un messaggio a nome della gente di Port Said: subiamo ogni sorta di ingiustizia, attenti alla rabbia della ‘città del coraggio’”.
“Vogliamo giustizia per le vittime e il loro riconoscimento come martiri della rivoluzione [che ricevono forme di indennità economiche da parte dello Stato, ndr]. Vogliamo anche le scuse ufficiali del presidente Morsi”, sottolinea El-Masry. (…).
Per gli abitanti del luogo l’unica via percorribile è chiaramente segnata: quella che conduce alla giustizia. “Port Said è una scena del crimine. Vanno solo ricercati i colpevoli”.
*Per la versione originale dell’articolo clicca qui.
22 febbraio 2013
Egitto,Articoli Correlati:
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