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Egitto. Appunti da una rivoluzione incompiuta

Repressione, militarizzazione, paura. Graffiti abbandonati e nuove strategie di resistenza. Ritorno a piazza Tahrir 4 anni dopo la rivoluzione. 

 

 

Di rivoluzioni passate e paure ancora attuali

Stanno qui perché ci lavorano. Ma hanno un’altra casa, altrove”. Naturalmente non è vero, ma questa è la versione comunemente accettata. O, almeno, quella a cui a molti piace credere, magari per celare l’imbarazzo nel mostrare una realtà come questa a chi viene da lontano.

Una realtà che da accettare, in effetti, è davvero dura. Almeno secondo un paradigma che vuole vita e morte sfere ben distinte, che non dovrebbero intrecciarsi.

Siamo ad Al Qarafa, l’immenso cimitero del Cairo, che si estende per oltre 6 chilometri di lunghezza, e che qui la gente chiama semplicemente “la città dei morti”.

Quella che sin dall’epoca medievale è stata abitata anche dai vivi, isolata dal contesto cittadino nel corso della dominazione napoleonica, ed in cui oggi centinaia di migliaia di persone, divise in 17 quartieri raggruppati in 4 aree amministrative, vivono occupando le tombe (1).

Difficile fare stime sui numeri, ma alcune fonti parlano di circa 1 milione di persone, arrivate nel corso degli anni dalle aree rurali nel sud del paese e poi dal Sinai, occupato nel 1967 da Israele. E poi, più tardi, raggiunte da sfollati rimasti senza casa in seguito al terribile terremoto che nel 1992 devastò il Cairo.

Oggi nuove migrazioni la affollano: quelle di chi non ha un altro luogo in cui stare, in un Egitto in cui la crisi economica pesa più che nel 2011, quando nelle piazze il popolo si sollevava per rivendicare una vita più dignitosa.

Le piccole sepolture che oggi sono la casa di migliaia di persone me le mostra dall’auto mister G., che ormai si è abituato ad accompagnarmi nel traffico del Cairo. 

Ma non devi andarci, è pericoloso”, mi dice, ignorando il fatto che io ci sia già stata, a piedi, giusto qualche giorno prima. Entrarci, in effetti, non è così difficile.

Basta lasciarsi alle spalle il caos di Down Town, inoltrarsi per gli affollati e meno rumorosi vicoli di Bab el Wazir, attraversando un quartiere popolare fatto di abitazioni decadenti e botteghe artigiane, e fiancheggiando una dopo l’altra le moschee di epoca fatimida (969 – 1169 d.C.) oggi lasciate andare al loro destino, alla polvere, coperte dai fumi della città, ma ancora capaci di rievocare i fasti di un passato lontano.

“La città dalle mille torri”: così era chiamata al-Qahira, “la vittoriosa”, patria delle Piramidi e delle Sfingi, sede del potere imperiale, culla del Nilo.

Oggi i suoi minareti si stagliano contro un cielo nebuloso, offuscato dai fumi dell’inquinamento, sotto al quale l’indicibile caos quotidiano scorre senza tregua.

In cerca di quiete ci si inoltra nel cuore della Cairo antica, salendo in direzione della Cittadella. A un tratto, svoltando verso l’interno, ci si trova d’improvviso in un’area insolitamente silenziosa, in cui il terreno sterrato si fa a tratti sabbioso.

Non ci sono mura a delimitarne l’area, ne’ cancelli a regolarne l’ingresso: il cimitero è parte integrante di una città in continuo movimento, e l’unico elemento a caratterizzarlo è una calma inconsueta. 

 

Le persone che vivono qui, ad Al Qarafa, un’altra casa non ce l’hanno.

Hanno occupato le sepolture del cimitero per garantirsi un tetto sopra la testa, e poco importa che sotto i piedi e  tutto intorno il riposo perpetuo delle generazioni precedenti faccia da sfondo costante al loro quotidiano.

Le autorità non vedono di buon occhio questo enorme slum, che scompare dalle guide turistiche e persino da un  immaginario collettivo in cui la convivenza tra vivi e morti è considerata haram, peccato.

Forse anche per questo oggi questo insolito quartiere è considerato al pari di una favela, un luogo malfamato e  pericoloso, a cui è meglio non accostarsi.

E anche se non è così – e percorrendone le strade si viene accolti dal consueto benvenuto che gli egiziani non farebbero mai mancare ad un visitatore – questa è la versione della gente. O, almeno, è la versione di mister G., a cui ho avuto modo di abituarmi in questi giorni. Perché è la stessa dei tassisti, dei negozianti, degli insegnanti e dei panettieri.

E’ la versione di chi ha paura di parlare, di mettere in discussione uno status quo che oggi, a 4 anni dalla rivoluzione, per molti è rassicurante. 

Qui, se non conosci il tuo interlocutore, nel dubbio non parli. O la fai ribadendo quello che le autorità vorrebbero sentire. Ripetendo quello che si legge sulle prime pagine dei giornali, in nome della parola d’ordine, “sicurezza”.

Che il paese è “stabile”, che la città è “sicura”, che “le minacce di terrorismo sono continuamente sventate” da efficienti apparati di intelligence, e le due cose insieme bastano a giustificare l’esistenza di quello che è, a tutti gli effetti, un nuovo regime militare.

Che ha arrestato in questi mesi migliaia di persone tra attivisti laici e sospettati di appartenere alla Fratellanza Musulmana, oggi considerata organizzazione terroristica; messo sotto assedio Ong e associazioni per i diritti umani, promulgato leggi liberticide. 

Accorgimenti necessari quando non sai con chi stai parlando, quando pensi che potrebbe denunciarti alla polizia. E’ successo pochi giorni dopo il mio arrivo in città: due persone sono state fermate in metropolitana perché conversavano in inglese e qualcuno ha sentito dire loro “25 gennaio”.

Molto più di una semplice data, oggi questo è diventato il simbolo di milioni di teste che insieme si sono alzate per rivendicare libertà. Un termine terribilmente scomodo e sconveniente nell’Egitto che si appresta a concludere un anno di restaurazione.

Pochi giorni prima era successo lo stesso ad Alain Gresh, vice-direttore di Le Monde Diplomatique, denunciato da un passante con l’accusa di “voler distruggere il paese” e arrestato per aver discusso di politica in un caffè del centro.

Uno dei tanti di Bab El Louq, come il celebre El Hurreya, in cui siedono tutto il giorno poliziotti e agenti in borghese. E in cui i rivoluzionari, ormai, non entrano più. 


Tra i cantieri di New Cairo e gli slum

 

Ho votato per Al-Sisi e lo rifarei. Un anno con Morsi e i Fratelli Musulmani è stato più che abbastanza. Diamogli tempo e sono sicuro che risolverà i problemi di questo paese. Magari anche il traffico…. e poi vedi quanti cantieri, quanto lavoro?”, mi aveva raccontato mister G. qualche giorno prima, per ingannare l’attesa di un nuovo ingorgo nel traffico cittadino.

Lungo la strada per arrivare alla nostra mèta passiamo accanto a quel cantiere permanente che si chiama “New Cairo”.

Un’oasi nel deserto costruita per ricchi, per dare una falsa impressione di sviluppo che distolga l’attenzione dalla crisi economica e dalla repressione politica. Un modo per strizzare l’occhio all’Occidente, promettendo un’urbanizzazione selvaggia in nome di una modernizzazione necessaria.

E poco importa che passi sopra la teste di chi, nelle periferie, vive in miseria, tra discariche a cielo aperto e palazzi senza tetto. 

Compound destinati all’altissima borghesia, che nel delirio del centro città non vuole più starci; centri commerciali per accontentare le signore; casinò, saloni per conferenze, un’imponente moschea destinata ai militari che si staglia, bianca e azzurra, contro il cielo grigio.

E ancora autostrade a tre corsie, sopraelevate per collegare velocemente il centro con l’aeroporto: è questo il colpo d’occhio sulla promessa suggerita dalla “nuova Cairo”. Gru, ruspe, terra ovunque: e tutto intorno torrette militari che sorvegliano questa immensa distesa di cantieri.

Quelli in cui lavorano gli abitanti dei vicini slum: gli stessi in cui i bambini si stupiscono se vedono una bottiglia d’acqua minerale.

Se la rivoluzione ha cambiato qualcosa qui, mi chiedi?” mi domanda Nahla, donna di mezza età laureata in Ingegneria che un giorno ha deciso di mettere la sua professionalità al servizio di chi, a suo modo di vedere, era nato “dalla parte sfortunata del fiume”.

Nel quartiere informale di Ezbet el Haggana infatti, a pochi chilometri dall’enorme aeroporto del Cairo, le case crollavano, una dopo l’altra.

Per questo Nahla, ispirata dalla fede e incoraggiata dalla necessità di aiutare i più sfortunati in nome dei precetti religiosi che guidano la sua esistenza, ha iniziato negli anni Novanta a fornire consulenze gratuite a chi doveva garantirsi un tetto sopra la testa.

Ha iniziato a spiegare come tirare su palazzine che resistessero al tempo, in cui far crescere più sicuri i figli, tentando di avere una vita dignitosa, per quanto non riconosciuta dallo Stato e dalle sue autorità. Mi accoglie nel centro che ha creato per fornire alle donne e ai bambini dello slum un luogo in cui giocare, imparare, condividere.

Un asilo per i piccolissimi, una scuola per i bambini, corsi di inglese e computer per le mamme. Uno spazio ancora in costruzione, a cui manca il tetto, ma molto pulito e curato.

Qui le donne, arrivate dal sud dell’Egitto o dalle Oasi lungo il Nilo, il centro della città non l’hanno mai visto.

Sono loro a portare il peso maggiore di un’emarginazione pianificata, intenzionalmente lasciata a se stessa da autorità che fingono di ignorare il problema, scegliendo di non investire, non riconoscere, non far arrivare a questi quartieri “informali” l’acqua corrente o l’elettricità.

Perché qui vive lo sha’b, gli appartenenti alla classe popolare che non influisce sul voto, e i cui interessi non interessano nessuno.

E’ in quartieri come questo che i bambini si emozionano a sentire il tuo nome che rimanda a un luogo lontano, e ti chiedono di scriverglielo sul quaderno.

Che ogni mattina gli uomini si raccolgono in quella che somiglia a una piazza centrale, in attesa di datori di lavoro che a cottimo li recluteranno per costruire il lusso nel quale vivranno altri uomini, a pochi chilometri di distanza.

E’ qui che le donne si impossessano dello spazio pubblico, vendendo e acquistando frutta e verdura, andando avanti e indietro per le vie del quartiere, affaccendate e trafelate. Di corsa, tra la polvere delle strade, evitando una fogna aperta che va riparata, schivando l’autista del tuc-tuc che a gran velocità sfreccia con la musica a tutto volume, offrendo un passaggio per pochi centesimi. 

“Le persone qui sono sempre state convinte di dover affrontare la miseria della loro vita perché questo era il  destino a loro assegnato”, racconta Nahla.

La gente di Ezbet el Haggana non ha partecipato alla rivoluzione, e piazza Tahrir non sa neanche dove sia. “Eppure quello che è successo nel 2011 ha fatto capire loro, per la prima volta, che non erano poveri per volere di Dio, ma per volere del governo. Ti sembra poco?”, mi domanda con sguardo un po’ ironico, vagamente insospettita dalle mie domande, dal mio vano tentativo di applicare qui categorie occidentali come “cittadinanza” e “partecipazione”, che a questa latitudine non hanno spazio, ne’ ragione d’essere.

Lo spazio pubblico, qui, è qualcosa di altro e diverso rispetto a quello che conosciamo in Europa. E sentirsi cittadini di uno Stato che ti ignora, trattandoti da suddito, è difficile.

Non esiste una rete di mezzi pubblici che colleghi questo luogo di nessuno al resto della città, ne’ agli scintillanti palazzi di New Cairo. Appena fuori dal perimetro di questo quartiere-fantasma la sola cosa che si ha davanti è una strada sporca, a scorrimento veloce, circondata da una discarica a cielo aperto.

E’ qui che ci si mette in fila per salire al volo su un minibus, o su un taxi malconcio, se si ha la fortuna che passi. Bisognerà pagare qualcosa di più all’arrivo, perché “io adesso devo tornare laggiù”, ti dirà l’autista.

Con 2 euro di spesa e mezzora di corsa si aprirà la portiera dell’auto e si scenderà in un altro mondo. A Down Town, nel cuore pulsante della rivoluzione del 2011, dove oggi è meglio non tirare fuori la macchina fotografica.

Perché qui ai lati delle strade non ci sono discariche, ma enormi balle di filo spinato, pronte all’uso per qualsiasi evenienza. E gente che ininterrottamente finge di parlare al telefono: sui marciapiedi, fuori dai bar, ad ogni incrocio. Sorvegliando attentamente ciò che si muove tutto intorno. 


Sharia Mohamed Mahmoud: i graffiti di una rivoluzione rubata

A piedi si può scegliere di percorrerla, ma bisogna accettare di pagare il prezzo della malinconia. Di respirare l’angoscia che trasuda dai muri, quelli su cui gli artisti della rivoluzione scelsero, nel 2011, di lasciare il colore dei loro graffiti.

Via Mohamed Mahmoud oggi è un luogo buio e spettrale, e a testimoniare una vitalità che è stata restano i volti dei martiri della rivoluzione dipinti sui muri che la delineano.

Resta un caffè letterario, in cui gli intellettuali continuano ad incontrarsi, parlando di letteratura e resistenza. Nel corso delle proteste di 4 anni fa, i muri di questa strada “erano diventati i nostri giornali”: lo racconta Ammar Abo Bakr, ex insegnante alla facoltà di Arte dell’Università del Cairo e uno dei maggiori artisti di strada egiziani, che ha firmato numerosi graffiti in tutto il mondo arabo.

Sono i murales a raccontare la storia degli ultimi quattro anni”, spiega. O almeno quelli che restano, perché le autorità con il passare del tempo li hanno fatti coprire. Hanno iniziato il 25 gennaio del 2012, durante il primo anniversario della Rivoluzione, nel vano tentativo di cancellarne anche la memoria.

Ci sono i volti di chi ha perso gli occhi nel corso delle prime manifestazioni contro il Supremo Consiglio delle Forze Armate (SCAF), che aveva preso il potere subito dopo la caduta di Mubarak, quando la polizia sparava ad altezza d’uomo contro i manifestanti, in quella strada.

E ci sono i martiri di Port Said, i 74 ragazzi rinchiusi dentro lo stadio al termine di una partita di calcio e uccisi per aver cantato slogan contro i militari. Gli stessi che oggi, per ironia della sorte, gran parte del popolo ringrazia per averli liberati dal governo islamista della Fratellanza.

Il più giovane di loro aveva solo 15 anni, e si chiamava Anas. Nel corso di questi tre anni Ammar e i suoi colleghi hanno utilizzato i muri di via Mohamed Mahmoud per rispondere alle azioni dei governi che si sono alternati, considerando l’Esercito, i Fratelli Musulmani e l’apparato di Giustizia parte dello stesso sistema di repressione contro-rivoluzionaria.

Hanno dipinto il volto di nuovi martiri, dato la loro lettura del processo elettorale – “una farsa: volevano farci dimenticare ciò per cui abbiamo lottato”, racconta Ammar – provocato, risposto alla violenza.

La sua ultima opera l’ha dipinta sul muro che fa angolo con Tahrir: si può vedere da ogni lato della piazza e la sua posizione non è casuale.

Ritrae l’amico Bassem, che aveva solo 16 anni quando la rivoluzione è cominciata e 19 quando ha perso la vita. Era stato arrestato durante l’interregno dello SCAF, e poi ancora sotto il governo di Morsi.

E’ stato ucciso nel dicembre del 2013, nel corso di nuovi scontri con la polizia. “Per me rappresenta la vera rivoluzione contro il sistema. Uno dei suoi occhi ha le fattezze di un pesce: quello che voglio dire è che anche se l’hanno ucciso, Bassem li guarderà sempre”. 

 

Ammar è uno di quelli che non ha perso la speranza.

Che continua a lottare: con il colore, con l’arte, con la denuncia sui muri. Ne ha dipinto uno anche a Roma, di recente. Il murales raffigura Sanaa Seif, giovanissima attivista egiziana arrestata per aver partecipato a una manifestazione senza autorizzazione sotto il regime di Al-Sisi.

Un’altra cosa che, nel “sicuro” Egitto, oggi è illegale.

Forse anche per questo Ammar, che ha il suo studio a poche strade da Mohammed Mahmoud, dove i posti di blocco controllano vicoli e incroci, per strada da solo preferisce non starci. 


Il Cairo e le sue donne

E’ poco lontano da questo intreccio di strade caotiche e rumorose, in cui la tensione non si vede, ma si respira nell’aria, e dove qualsiasi assembramento è considerato “manifestazione non autorizzata” da disperdere con ogni mezzo, che si erge la Fondazione Rose al-Yūsuf.

Un palazzo decadente in stile coloniale che rimanda ai fasti di un passato ormai lontano ne ospita la sede.

La Fondazione fu creata alla fine degli anni Venti insieme all’omonima rivista da Fatma al-Yūsuf, conosciuta come “Rose”, pioniera delle lotte femminili in Egitto e vicina al Wafd, il partito Nazionalista che si oppose all’imperialismo e al colonialismo britannico. 

Il palazzo oggi ospita anche la redazione del magazine “Sabah el Kheir”, fondato nel 1956, specializzato in arte e cultura.

Prodotto editoriale “per cuori giovani e menti libere”, come recita il suo slogan, è famoso per lo spazio che dedica ad alcuni tra i più noti caricaturisti del mondo arabo.

Le giornaliste che ci lavorano non hanno esitazione a definirsi “femministe”.

Certo che lo siamo”, rispondono alla mia domanda. E sulla rivoluzione del 2011 hanno un’idea ben chiara.

Se è cambiato qualcosa per noi? Assolutamente no. Le battaglie di oggi sono le stesse che Hoda Sha’arawi e le altre pioniere hanno avviato all’inizio del secolo scorso”, raccontano.

A volte penso che la loro anima sia in ogni riga che scrivo”, confida Ameni, che porta il velo, ha scelto di non sposarsi e fuma una sigaretta dopo l’altra, cosa che le attira critiche e stigmatizzazioni.

E’ l’eredità che abbiamo ricevuto e continuiamo ad onorarla. Anche solo venire a lavoro, difendere il nostro punto di vista in una redazione gestita da uomini, pubblicare storie che parlano di donne e della loro dimensione quotidiana, è un altro volto della stessa battaglia che abbiamo combattuto a piazza Tahrir nel 2011. La lotta continua: le cose devono cambiare. E cambieranno”, dicono sorridendo, fiduciose.

Ameni in quella primavera di quattro anni fa scese in strada per manifestare, per fare foto, raccontare le manifestazioni. Nonostante il direttore del giornale glielo avesse vietato, perché era una donna. Troppo pericolosa, per lei, quella piazza.

Un ordine disatteso è oggi il suo più grande motivo di orgoglio: “Dovevo esserci. Come giornalista, e come cittadina di questo paese”, afferma. 

 

Heba e Sara invece le conosco nel salotto di alcuni amici. Il nostro incontro è preceduto da un sms in cui mi spiegano che è meglio vedersi in casa, al bar qualcuno potrebbe insospettirsi dal momento che parleremo in inglese.

Laureate, lavoratrici e attiviste, a 25 anni per loro la vita quotidiana è una battaglia.

A volte immagino di aprire il portone e trovarmi in una città abitata da sole donne”, sogna Heba, che ti spiega cosa significa fare una passeggiata e avere addosso lo sguardo maschile, sempre e comunque.

La violenza e le molestie sono aumentate in questi anni, ed è chiaro da cosa dipende. E’ una chiara strategia politica per tenerci lontane dalle piazze. Siamo considerate cittadine di serie b, oggetti sessuali, esseri inferiori”.

Quando le è capitato di essere aggredita da un giovane per strada che l’ha presa a schiaffi solo per aver osato rifiutare attenzioni non richieste, la sua famiglia non ha voluto che sporgesse denuncia.

Il problema era e resta la situazione politica, certo. Ma noi donne combattiamo una guerra quotidiana: contro gli stereotipi, le convenzioni sociali, il sistema. In piazza, per le strade, dentro casa. E continueremo a farlo sempre, finché le cose non cambieranno. E sono sicura che riusciremo a cambiarle: è una questione culturale”, afferma.

E’ una rabbia profonda quella di Heba, che descrive una frustrazione antica, espressa con gentilezza, ma con una determinazione che raramente ho incontrato prima.

La stessa che abita negli occhi di Sara, da poco tornata da un viaggio di lavoro in Tunisia. Si chiede come mai siano riusciti a farla la rivoluzione laggiù, “mentre noi oggi stiamo peggio di prima”.

Scendere in piazza nel 2011, a fianco della Fratellanza, l’ha cambiata profondamente. L’ha delusa, l’ha fatta crescere, l’ha convinta a togliersi il velo che aveva sempre portato. “La mia famiglia mi ha sostenuta, anche mio padre. Ma con la paura costante di ciò che la gente, fuori di casa, avrebbe pensato di me per questa scelta”. 

E’ il controllo, la mancanza di libertà, la quotidiana lotta per ritagliarsi uno spazio nel mondo che ti trasmettono queste giovani poco più che ventenni. E la netta sensazione che qualcuno o qualcosa tarpi loro le ali.

Di una cosa sono certe: che la loro condizione non sia isolata, che le battaglie per l’affermazione dei propri diritti sia comune a molte latitudini, e universale. Che la lotta per la dignità e la libertà sia solo all’inizio, perché “nessuna rivoluzione si compie in un giorno”.

Sono nate sotto il regime di Mubarak, e non pensavano che le cose, un giorno, sarebbero potute cambiare semplicemente perché la gente voleva che cambiassero.

Ma di quello che è successo dopo hanno una visione chiara: niente è davvero mutato. Almeno, non ancora. Ne’ sotto il governo eletto della Fratellanza Musulmana ne’ in seguito, con il ritorno dei militari. Eppure, hanno continuato a scendere in piazza e battersi per i loro diritti. Fuori da sigle, partiti e organizzazioni, “perché anche quelle femministe portano avanti rivendicazioni ormai superate”, sostengono.

Il loro sogno è crearne di nuove, e magari riuscire a dar vita ad una coalizione politica “guidata dai giovani della rivoluzione, da nuove generazioni capaci di immaginare un futuro diverso”.

Tra un caffè e l’altro emerge la curiosità per il mondo occidentale che le raffigura come vittime incapaci di determinare la propria liberazione.

Perché pensate questo di noi?”, domandano un po’ stupite. E non è facile trovare le parole per spiegare la rete di stereotipi e sciocchezze dentro la quale siamo ingabbiati, nella nostra “emancipata” Europa. 

Perché parliamo di questo paese, e non lo conosciamo. Studiamo le sue dinamiche politiche, ma non ci fermiamo a parlare con la sua gente, apprezzandone l’apertura, la generosità, la gentilezza d’animo, la determinazione. La forza.  

Quello di oggi, che si appresta a celebrare il 4° anniversario di una rivoluzione incompiuta, è un paese in cui il governo decide di chiudere una stazione della metropolitana centrale come quella di piazza Tahrir, utilizzata da migliaia di lavoratori ogni giorno, all’improvviso. Senza spiegazioni, giustificandosi solo con la “sicurezza nazionale”.

Se solo gli impiegati statali si organizzassero e protestassero…”, suggerisce qualcuno. Ma nessuno fa niente, in attesa che altri facciano qualcosa.

Forse, non è questo il momento di agire. Non dopo tutto il sangue che è stato versato.

L’Egitto oggi è il paese in cui si chiude una strada all’improvviso, e centinaia di auto nel traffico vengono deviate altrove, senza che nessuno protesti.

E’ il paese in cui al popolo viene dato un messaggio chiaro da parte del potere: lo spazio pubblico è nostro, non vostro. E in nome di una sicurezza da tutelare ogni violazione diviene lecita. 

Eppure, un paese in cui le persone hanno paura di parlare, in cui la gente si fa intervistare a casa ma non al bar, è più ordinato, magari persino più pulito. Ma certamente non più sicuro, ne’ libero.

E’ questa sensazione che trasmette oggi piazza Tahrir, emblema di una rivoluzione che avrebbe potuto essere. Che è stata, ma che qualcuno ha deciso di stroncare, e che vive nei gadget per turisti ormai assenti, in vendita nei negozi del centro.

O nell’entusiasmo delle ultime fra gli ultimi: le donne delle classi popolari, le contadine, le impiegate.

Che si emozionano se fai loro una domanda, e ti raccontano che “la rivoluzione ha cambiato tutto”, perché “oggi tutti parlano di politica, anche noi donne, anche i bambini. Al bar, nel suq, sull’autobus. Abbiamo una nostra opinione, e la esprimiamo liberamente”, come mi spiega sorridendo la segretaria di un laboratorio metallurgico nella periferia di Helwan, che da sola gestisce il lavoro di un plotone di uomini rispettosi. 

 

Della rivoluzione che il 25 gennaio compirà 4 anni, però, oggi resta poco.

Una strada deserta a raccontare il prezzo che è stato pagato, un nuovo parcheggio costruito laddove il popolo si riunì facendo nascere la speranza di cambiamento in tutto il mondo arabo. 

La facciata del palazzo presidenziale di recente è stata restaurata, e lo spazio antistante è uno dei pochi luoghi puliti di una città allo sbando, lasciata a se stessa, in cui l’incuria regna sovrana. In cui nessuno si lamenta e tutto cambia perché niente cambi davvero. 

Come un palazzo eroso dal tempo, di cui sia stata restaurata solo la facciata, mentre dietro e tutto intorno è rimasta la polvere di sempre. 

 

(1) Fonte: Anna Tozzi Di Marco, “La Città dei Morti del Cairo: una descrizione storica”, Antrocom 2008, vol. 4, pp. 41-45. Per approfondimenti sul tema si veda anche Anna Tozzi Di Marco, “Il giardino di Allah. Storia della necropoli musulmana del Cairo”, Ananke ed.(2008).  

*Nella maggior parte dei casi ho scelto di utilizzare nomi di fantasia per non far correre inutili rischi alle persone che hanno parlato con me. La foto del graffito raffigurante Sanaa Seif a Roma è di Giovanni Piazzese. Un affettuoso ringraziamento agli amici e ai colleghi per il prezioso aiuto che mi hanno dato durante la mia permanenza al Cairo. 

 

January 25, 2015di: Cecilia Dalla Negra dal CairoEgitto,

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